Magda Szabó 

Una bambina che a tre anni sa già leggere e parla in latino con il padre non è una bambina “normale”… eppure questa sua atipicità è l’anticipazione del senso di una vita lunga e benvissuta, spesa nella ricerca, nel rispetto, nella distillazione della parola al servizio della scrittura come specchio della vita.  

Magda Szabó nasce il 5 ottobre 1917 a Debrecen, seconda città dell’Ungheria e culla della religione riformata. Il padre e la madre sono due intellettuali che appartengono alla borghesia benestante ed entrambi, ognuno con le proprie passioni e vocazioni, si occupano con grande dedizione della cura e dell’educazione della loro unica figlia. Conosciamo la prima parte della vita della scrittrice grazie al racconto autobiografico contenuto in Per Elisa, ultimo suo lavoro pubblicato nel 2002, primo tassello di un’opera incompiuta in più volumi che avrebbe dovuto coprire l’arco della sua intera vita. Per Elisa racconta l’infanzia e l’adolescenza di Magda dalla nascita al 1935, quando si conclude il suo percorso di studi liceali. Grazie a questa autobiografia romanzata possiamo conoscere i personaggi principali della famiglia, il clima sociale della città natale, il contesto culturale che l’ha nutrita, l’ambiente spirituale che ha formato il suo orizzonte morale, sullo sfondo della situazione storica seguita alla Grande guerra, da cui l’Ungheria, in seguito al Trattato di pace del Trianon, è uscita smembrata e mutilata.  

Dodi, come è chiamata in famiglia, è una bambina curiosa, ama il sapere, la cultura classica, ma si lascia condurre dalla infinita fantasia della madre nei territori liberi dell’immaginazione. Una mente con questo imprinting non poteva certo avere vita facile nei rigidi percorsi disciplinari previsti dalle istituzioni scolastiche del tempo. E così la piccola Dodi subisce i giudizi severi delle insegnanti che non tollerano la sua libertà di pensiero e patisce la derisione e l’emarginazione da parte delle sue compagne troppo diverse da lei. Un evento che scuote potentemente i suoi riferimenti affettivi è l’arrivo in famiglia di Cili, un’orfana di quattro anni, sua coetanea, che gli Szabó decidono di adottare. Cecilia, questo il nome della nuova arrivata, è una vittima della Storia: i suoi genitori, infatti, sono morti durante la fuga da Zenta nella Voivodina, uno dei territori sottratti all’Ungheria dopo la sconfitta subita nella Prima guerra mondiale. Dodi in un primo momento rifiuta la piccola, ma in breve le due bambine, riconoscendo il valore della loro diversità, si scoprono complementari e si legano di un affetto profondo che non finirà nemmeno con la morte precoce di Cili. Anche se nella forma dell’autobiografia, la narrazione non segue un andamento lineare, ma, con la maestria di sempre, Szabó procede utilizzando analessi e prolessi, accompagnandoci avanti e indietro nel tempo con un uso ricercato della lingua, che le viene da un’antica e costante dimestichezza con la parola.  

La stessa materia autobiografica è al centro di Il vecchio pozzo. Qui i capitoli affrontano ognuno un argomento come un racconto a sé: i genitori, gli animali, le immagini, la vita religiosa, le arti, la poesia, la scuola, l’educazione sentimentale…Ma in tutta la sua ricca produzione si possono riconoscere echi e trasfigurazioni di momenti che hanno segnato la sua biografia. E alcuni passaggi sono stati davvero dolorosi. 

Dopo la laurea in lettere classiche, si sposa con Timor Szóbotka, scrittore e traduttore, e inizia ad insegnare in collegi e istituti privati. Le atmosfere di questa dimensione scolastica, vissuta prima come alunna e poi come docente, sono presenti nel romanzo di formazione Abigail (1970) in cui la protagonista, Giorgina detta Gina, orfana di madre, viene inspiegabilmente espulsa, per volontà del padre, dal suo nido domestico, luogo privilegiato della Budapest benestante, riscaldato dall’affetto del genitore e dell’istitutrice francese. È il 1943, l’Ungheria sta per essere invasa dalle truppe naziste e le buie nubi della Storia si addensano anche sulle vite di Gina e di suo padre. La sua nuova dimora è un prestigioso ma tetro collegio calvinista, il Matula, in una cittadina di provincia, lontanissima sia fisicamente che culturalmente dalla città di Budapest in cui l’adolescente è vissuta. Gina (come Magda nella vita reale) si ribella alla nuova condizione, fatica ad accettare le regole e a integrarsi, rifiuta la credenza delle sue coetanee che Abigail, la statua posta nel giardino del collegio, abbia la capacità di proteggere le alunne a patto che queste non ne rivelino i poteri straordinari. In realtà, come scopriranno Gina e chi legge il romanzo, la Storia con la S maiuscola penetra nella vita dei personaggi e la modifica, orientandone le scelte e le azioni: è il coinvolgimento nella Resistenza ungherese che ha spinto il padre ad allontanare da sé Gina per proteggerla e persino dietro l’inquietante figura di Abigail si muovono forze molto più reali di quelle “magiche” immaginate dalle educande.
Ciò che Szabó ci dice attraverso questo romanzo è che non si sfugge alla presa della Storia e che la comprensione ritardata, parziale e superficiale di quanto accade produce danni irreparabili, come nel caso dell’inadeguatezza dimostrata da molti magiari nei confronti delle persecuzioni razziali contro la popolazione ebrea ungherese. La stessa Magda, nel ruolo di insegnante, ha provato in prima persona la vergogna di non sapersi opporre alle leggi razziali entrate in vigore nel suo Paese dopo l’invasione tedesca, non ha infatti potuto premiare una sua alunna, la migliore nella lingua ungherese, proprio perché ebrea. Non solo romanzo di formazione, quindi, ma testimonianza di un senso di colpa individuale e collettivo che cerca espiazione attraverso la scrittura.  

Ma la carriera letteraria di Magda Szabó non era iniziata con la narrativa, in un primo momento il suo mondo interiore si era espresso attraverso il linguaggio poetico. Siamo dopo la fine della Seconda guerra mondiale e, con l’inclusione dell’Ungheria nel blocco dei Paesi satelliti dell’Unione Sovietica, la sua scrittura “intimista” non è ritenuta rispondente ai canoni della cultura di regime. Nel 1949 il Premio Baumgarten, appena assegnatole, le viene revocato e, in rapida successione, è licenziata dal Ministero della Pubblica istruzione, esclusa da ogni incarico ufficiale e costretta a ripiegare sull’insegnamento elementare. Ma, a differenza di altri intellettuali ungheresi, non se ne va dal suo Paese (come ad esempio Sándor  Márai) e continua a scrivere e a chiudere nei cassetti testi che, in attesa di tempi migliori, per il momento riserva al suo uditorio di relazioni più intime e fidate, senza mai abbassarsi a compromessi con il regime.  

Il primo frutto di questa scrittura “clandestina”, che segna anche la conversione dalla poesia alla prosa, è Affresco. Dopo il 1956 il contesto politico cambia e così quest’opera, scritta tre anni prima, può vedere la luce. Viene tradotto in 40 lingue e, chiave di volta del successivo riconoscimento internazionale dell’autrice, è apprezzato e segnalato da Herman Hesse. L’affresco del titolo è un affresco reale, dipinto anni prima da Annuska, la protagonista, artista mancata, il cui disvelamento serve, sin dalle prime pagine, a presentare i personaggi; ma la vicenda stessa è un affresco dell’Ungheria oppressa dal Comunismo in cui il regime limita la libertà di espressione, non esclusa la sua forma artistica, e in cui anche la Chiesa è al servizio del potere. Così quest’opera è significativa sia per la comprensione dell’ambiente culturale in cui la scrittrice è cresciuta, impregnato com’è di fede ed etica calvinista, sia per la conoscenza del periodo storico in cui si svolgono i fatti raccontati. Il romanzo è incentrato sulla giornata che precede il funerale della madre di Annuska, ma l’apparente semplicità della situazione è presentata facendo ricorso a una struttura narrativa complessa che mostra i fatti attraverso lo sguardo dei diversi personaggi e ricostruisce le vicende e le relazioni dei membri della famiglia con la tecnica del flashback, così che il graduale rilascio di particolari permette di comporre il quadro completo e definitivo solo nell’ultima pagina. Già in questo primo romanzo brillano la bellezza, la forza e la grazia dei personaggi femminili: Mammina, la madre defunta, presentata come un angelo biondo, Janka, la sorella della protagonista, votata al sacrificio, sottomessa all’autoritarismo paterno ma vero cardine della famiglia, e Annuska che incarna la libertà intellettuale, l’aspirazione artistica, la curiosità e le istanze della femminilità, viste come pericolose dai maschi garanti dell’ordine patriarcale.  

Le donne, giovani o vecchie, sposate o sole, di qualsiasi condizione sociale, sono figure centrali nelle opere di Szabó, e così forte è l’urgenza di entrare nella loro anima e di vedere il mondo con i loro occhi che l’autrice non esita a rileggere la vicenda dell’Eneide in chiave femminile. Il momento. Creusaide, così si intitola l’opera scritta nel 1990 ma concepita molti anni prima, presenta la vicenda della fuga da Troia in fiamme dal punto di vista di Creusa, la sposa di Enea che Virgilio esclude e cancella, lasciando sulla scena solo la stirpe maschile: Anchise, Enea, Ascanio. Nella finzione narrativa, Szabó parte dal ritrovamento di un lacunoso poema in versi dell’immaginario poeta dell’età augustea Sartorio Saboade che celebra le gesta di Creusa, sopravvissuta e sostituitasi ad Enea nel viaggio verso la salvezza. Ma, oltre a questa originale rilettura del classico virgiliano, il testo vuole, ancora una volta, denunciare la limitazione alla libertà creativa subita dalla scrittrice durante il tempo del regime filosovietico di Mátyás Rákosi. Nella finzione narrativa, infatti, il poema dell’immaginario Saboade è messo all’indice e il poeta ridotto al silenzio perché non organico al consenso costruito attorno al potere di Augusto, così come era stato sciolto il circolo di poesia “Luna nuova”, di cui Szabó faceva parte al tempo della sua prima produzione letteraria in forma poetica.  

I personaggi femminili e le relazioni che intessono tra loro sono al centro di tre grandi romanzi: La porta, il primo ad aver fatto conoscere Szabó in Italia, La ballata di Iza e L’altra Eszter. In L’altra Eszter (1959) la protagonista è la Eszter del titolo, attrice affermata, che ha saputo emanciparsi da un’infanzia di povertà materiale e affettiva. La sua antagonista, senza saperlo né volerlo essere, è Angela, ex compagna di scuola, più fortunata di lei perché ricca, bella e felice, tutto ciò che Eszter non è ma avrebbe voluto essere, verso la quale nutre per tutta la vita sentimenti di invidia, rancore e odio. Nella forma del monologo interiore, Eszter racconta di sé e ripercorre la sua vita, con grande consapevolezza dei suoi stati emotivi che Szabó descrive con precisione chirurgica. Ma anche questo personaggio, che ha caratteristiche sgradevoli e può risultare antipatico, ha le sue ragioni: non è stata amata e non può amare. Solitudine e incomunicabilità sono dunque temi centrali nel romanzo, temi che ritornano nel successivo La ballata di Iza (1963): anche questa storia ha al centro due figure femminili, una madre anziana, vedova da poco, e una figlia che ha conquistato la sua autonomia attraverso lo studio e la realizzazione nel lavoro. Dopo la morte del padre, Iza, primaria in un ospedale della capitale, pensa che la cosa migliore per la madre sia non lasciarla sola nel paese d’origine, ma portarla a vivere con sé, nel suo appartamento di Budapest. Il dramma della relazione tra le due donne consiste nel fatto che, pur essendo legate da un affetto profondo, non sono capaci di comunicare reciprocamente la natura dei loro sentimenti e le motivazioni delle proprie scelte. Sono i temi complessi e potenti dell’ambivalenza emotiva, dell’impossibilità di comunicare compiutamente i propri vissuti, della difficoltà di agire per il bene dell’altra persona, temi che ritornano di nuovo in La porta. Anche questo romanzo mette al centro la relazione tra due donne, Magda, la scrittrice, io narrante, e Emerenc, una domestica molto particolare che impiega il suo tempo offrendo servizi qualificati a diverse famiglie più o meno importanti della città. La materia autobiografica è assai evidente: Magda, la protagonista, che ha lo stesso nome dell’autrice e come lei è stata da poco politicamente riabilitata, è parecchio impegnata fuori casa per presentare le sue opere, partecipare a eventi pubblici e ricoprire incarichi ufficiali in cui rappresenta il proprio Paese all’estero. Un aiuto domestico le è dunque diventato indispensabile. Ma non sarà la “padrona” a scegliere la “serva”, bensì il contrario, proprio a illuminare da subito la statura del personaggio di Emerenc. Questa anziana signora, ostentatamente ostile alla modernità e al mondo intellettuale, laconica e bizzarra, nasconde dietro a quella porta che mai si apre a vicini e conoscenti, (la porta del titolo, quella di casa sua) il distillato di una vita i cui segreti hanno radici nelle vicende storiche dell’Ungheria del Novecento. La scrittrice avrà infine il privilegio di essere messa a parte del mistero che avvolge l’esistenza di Emerenc, ma, nel tentativo di salvarle la vita, tradirà la fiducia che la vecchia le ha accordato e finirà per farle del male volendo fare il suo bene.  

Non è possibile dar conto di tutta la vasta produzione letteraria dell’autrice che conta una cinquantina di opere e spazia dalla poesia al teatro, dal romanzo all’autobiografia e alla narrativa per l’infanzia e l’adolescenza. Ma di un romanzo ancora è necessario parlare: Via Katalin, lopera più complessa di Szabó, per alcuni il capolavoro, per altri la meno riuscita proprio a causa della più ambiziosa e ardita concezione. In via Katalin, a Budapest, durante la guerra, abitano tre famiglie: i Bíró, gli Held e gli Elekes. Bambini e bambine giocano insieme, crescono e provano i primi turbamenti amorosi. Una delle famiglie è ebrea e, quando anche in città iniziano le retate e le stragi antisemite, in seguito all’uccisone dei genitori, i vicini di casa cercano di mettere in salvo la piccola Henriette. Ma il loro tentativo non ha successo e la piccola muore. Negli anni seguenti, mentre le vite di chi è sopravvissuto continuano a scorrere, tornerà per essere ancora presente in via Katalin come un’entità fantasmatica, a perenne memoria della tragedia vissuta anche in Ungheria da innocenti uomini e donne, ragazzi e ragazze, bambini e bambine, la cui unica colpa è stata quella di nascere e appartenere alla stirpe ebraica. È un romanzo corale in cui i tratti identitari dei personaggi emergono con grande vivezza attraverso sentimenti e pulsioni basilari come l’amore, l’ambizione, il tradimento, l’istinto di conservazione, il senso di colpa, la meschinità, la tenerezza. Via Katalin è un mondo in sedicesimo dove la Storia, anche se non travolge e cancella la vita delle persone, segna l’esistenza di chi accetta di vedere cosa essa produce e decide di darne testimonianza a futura memoria, un mondo in cui chi è vivo e chi non lo è più possono continuare a tessere un dialogo amorevole. La particolare struttura e l’uso di diverse voci narranti, se da una parte, almeno inizialmente, ne rendono un po’ difficile la lettura, dall’altra costituiscono la cifra stilistica dell’autrice, grande tessitrice di trame narrative mai banali.   

Una grande scrittrice, amatissima in Ungheria e apprezzata in tutto il mondo, testimone di quasi un secolo di vita della storia del suo tormentato Paese. Muore nel 2007 mentre è intenta a svolgere l’attività a cui, oltre alla scrittura, si dedicava da sempre con immenso piacere… leggere. 

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Articolo di Daniela Fusari

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Daniela Fusari, docente di materie letterarie nella scuola superiore, è nata a Lodi dove vive e insegna. In qualità di archivista, ha curato, il riordino e l’inventario di fondi documentari. Fa parte della Società Storica Lodigiana e ha svolto ricerche di carattere storico in ambito locale e per la valorizzazione dei Beni culturali. Riesce ancora, per sua fortuna, a divertirsi in tutte, o quasi, le cose che fa.

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