Žemaitė, anima, spirito e parola di Lituania 

Più di Prometeo poté la scrittura.  
Più di qualunque fiamma, scintilla, tizzone, fu la parola a salvare l’umanità. Con il fuoco si riuscì a cuocere la carne; con la lingua si poterono tramandare le ricette. Esse – la scrittura, la parola, la lingua – sono rivoluzione e resistenza. Sono muro e breccia nella battaglia, identità e cambiamento, come una vecchia bandiera tutta da reinventare. 
Spesso, sono tutto ciò che le donne e gli uomini hanno a disposizione per conoscere e riconoscere sé stesse e sé stessi, nella lotta strenua e atavica che contrappone supremazia e diritto di esistere. Sulla scacchiera infame, dove il bianco e il nero sono luce e oblio, fare letteratura significa prendere una posizione netta, schierarsi, vestirsi da partigiane e partigiani.   

Questo, tutto questo, doveva esser chiaro anche a Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė, Žemaitė come i Lituani e il mondo intero la conosce. 
Žemaitė racconta la sua terra già dal nome, che nel suono e nella grafia riecheggia di Samogizia, di verdi prati e di folti boschi di conifere, del profondo lago Plateliai e del placido fiume Nemunas. Il fazzoletto, che sempre veste e che le contorna il volto, parla anch’esso della patria alla quale ella costruisce un perimetro di carta e inchiostro che la narra e la fa rimanere, ferma e orgogliosa. 

Quando Žemaitė nasce, nel 1845, la Lituania non esiste più da ormai cinquant’anni. Unita alla Polonia nella Rzeczpospolita – dinasticamente a partire dal 1385 e politicamente dal 1569 – è assorbita insieme a quest’ultima dall’impero russo (e dalla Prussia e dall’Austria) dopo la cosiddetta “terza spartizione” del 1795. E, da questo momento in poi, sarà talmente fitta e martellante la campagna di russificazione che la parola scritta diventa merce di contrabbando preziosissima.  In realtà, Žemaitė camminerà sul ciglio linguistico, culturale e identitario sempre, e lo farà vivendo quasi costantemente in un ambiente rurale, in una di quelle bolle contadine dove niente pare mai modificarsi. Ma se la terra divelta è uguale a sé stessa nei solchi, nelle zolle e nei germogli, le tracce lasciate dal nero aratro e dai neri semi sul bianco campo porteranno qualcosa di mai visto prima.  
La sua famiglia appartiene alla nobiltà decaduta e, nonostante il proprio status alto-borghese non esista più ormai da tempo, impone comunque alla figlia l’utilizzo della sola lingua polacca a evidenziare e rimarcare una condizione sociale che – però – è ormai finita. Eppure Žemaitė, che cresce con i figli dei contadini nel maniero dei conti Pliateris Bukantė – dove suo padre lavora come amministratore e sua madre come governante –  masticherà tra denti e lingua il dialetto della Samogizia più di qualsiasi altro idioma, e sarà da lì, proprio da lì, che aprirà e si aprirà il varco sul mondo della letteratura. Frequenta la servitù, ne comprende le difficoltà e la vita di stenti, si schiererà dalla loro parte e sarà di loro, soprattutto di loro, che parlerà nelle sue opere. 
Perché ella è più di una scrittrice, vuol essere più di questo, vuol essere la forbice che trancia e illumina e fa comprendere. 

Nel 1863, sostiene convintamente la grande rivolta che i territori della vecchia Rzeczpospolita intraprendono contro la Russia zarista, col fine di restaurare l’antico regno e di strapparsi dal gioco moscovita, e ne sposa un partecipante attivo, Laurynas Žymantas, conosciuto due anni dopo nella tenuta di Džiuginėnai. E qui entrambi lavorano, lei come domestica e lui come guardaboschi, finché non decidono – anche a seguito della mobilità sociale venutasi a creare dopo l’abolizione della servitù della gleba da parte di Alessandro II Romanov nel 1861 – di trasferirsi e di affittare un terreno nei pressi di Kolainiai, dove rimangono per quasi vent’anni, provando a crescere quattro figlie e due figli e a strappare un qualcosa che li allontanasse, almeno un poco, dalla miseria. Nel 1883, la famiglia decide di spostarsi a Ušnėnai, vicino al confine con la Prussia orientale, regione nella quale si è creata una vera e propria enclave di resistenza. Dopo la rivolta del 1863, infatti, e a partire dal 1865, la Russia ha messo al bando tutti i testi di carattere latino – alfabeto usato nelle lingue polacca e lituana – imponendo così una supremazia atta a soffocare l’anima più intima delle terre conquistate. Lo zar vuole uniformare le vecchie popolazioni della Rzeczpospolita all’interno dell’apparato culturale e identitario russo e, per far ciò, ha bisogno, tra le altre cose, di allontanare quanto più possibile l’influenza che la Chiesa Cattolica opera in questi territori, anche alla luce della secolare diatriba cultuale e autoritaria tra Roma e Mosca. Essi, però, non mollano, non cedono, non smettono di parlare, di scrivere, di fare letteratura. Si crea così una rete strettissima di partigianato che ha, nella carta stampata, la sua arma più temibile. E in questo angolo di confine, Žemaitė incontra Povilas Višinskis, attivista politico e intellettuale, un contrabbandiere di libri e cultura, che la introduce nella resistenza lituana.

Višinskis convince Žemaitė a scrivere, ed ella racconta e narra ciò che conosce, la terra e i contadini di Samogizia, quel  mondo oscuro che è anche il suo, che le ha dato la vita, le parole, che l’ha formata in ogni ruga di volto, che con lei ha dialogato, in un costante scambio che ha permesso a entrambe di esistere. La sua prima opera, Rudens Vakaras, che ella ha composto quando era già a Ušnėnai, viene pubblicata nel 1895 sul Tikrasis Lietuvos ūkininkų kalendorius 1895 metams, il Calendario reale degli agricoltori lituani per il 1895. E su suggerimento di Jonas Jablonskis, il grande codificatore e stabilizzatore della lingua lituana, Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė diventa Žemaitė: è a lui che Višinskis la presenta. 
Da questo momento in poi, la penna di Samogizia lavorerà incessantemente. Durante tutta la sua carriera, scriverà circa 354 racconti brevi, una dozzina di opere teatrali – tra cui Trys Mylimos , PiršlybosMūsų gerasisValsčiaus sūde – romanzi, saggi e articoli. Pare quasi che le parole non possano fermarsi, come non può fermarsi la lotta della Lituana per il diritto all’esistenza.  
Žemaitė racconta la realtà che conosce e che vive, quella povera dei contadini, quella crudele, ingiusta e sofferta delle donne, vittime ancor più vittime di un mondo schiacciato da soprusi e prepotenze. I dettagli che narra sono prosaici; la lingua che usa è ciancicata, inciampata, dialettale. Tutto è vero, nei suoi scritti. Tutto è reale. I nobili – che fino a quel momento erano stati i protagonisti della letteratura – vengono chiusi e inamidati nei loro salotti. Non serve immaginazione o fantasia. Serve la vita. 
La corrente realistica lituana nasce qui, con Žemaitė, e con il suo bisogno di dare riscatto, raccontando ciò che è: perché la parola fa esistere. E quello che esiste può essere cambiato, migliorato o abbattuto. Per esso si può combattere, vincere o soccombere. Ciò che non si nomina, invece, è destinato all’oblio ben prima che quest’ultimo arrivi con la fine. 

Tra le sue opere più celebri, ci sono sicuramente i racconti brevi e, tra essi, degni di nota sono TopilysPetras KurmelisSučiuptas velnias (Diavolo catturato), SutkaiGera galva (Buona testa) e, soprattutto, Marti (la Nuora). In quest’ultimo racconto, il punto di vista, il sentire, lo sguardo, tutto è femminile. La protagonista, Katre, è obbligata a sposare un uomo dedito all’alcool, pigro, aggressivo e rabbioso. La sola cosa che quest’individuo può portare di buono è una tenuta, ma tanto basta ai genitori di Katre per costringere la figlia al matrimonio. La giovane sposa proverà – dopo le nozze – a influenzare il marito, a cambiarlo, ma dovrà affrontare anche la violenza, il sadismo e i maltrattamenti della suocera. Si ammalerà gravemente, nessuno avrà la premura di curarla e morirà, nella solitudine di questa famiglia così piena  di dolore e disperazione. Katre è una donna brillante, una donna che proverà a lottare per riscattare sé stessa dalla peggiore situazione possibile – la privazione del diritto di scegliere – ma che sarà costretta a soccombere alla miseria umana e a uno status quo che pare ineluttabile. 

Così come il suo personaggio, anche Žemaitė si batterà per le donne, perché esse prendano coscienza dei propri diritti, perché abbiano la consapevolezza di potersi unire e opporsi a tutto ciò che le relega, le zittisce, le soffoca.  
Nel 1907 partecipa al primo Congresso delle donne lituane a Kaunas e, nel 1908, al Congresso delle donne russe a Pietroburgo. E’ ormai una personalità di rilievo del panorama culturale dell’epoca e il suo punto di vista viene ricercato e ascoltato. Scrive su diversi giornali e lavora, a partire dal 1912, nella redazione del Lietuvos Žinios, divenendone editrice. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, decide di traferirsi, prima in Russia e poi negli Stati Uniti, dove da anni viveva suo figlio Antanas e dove tiene discorsi, scrive per la stampa locale  e raccoglie fondi per le vittime lituane del conflitto. Nel 1921 rientra a Marijampolėje e qui morirà, nello stesso anno, per una polmonite. Žemaitė, Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė, è annoverata nei classici della letteratura lituana e, proprio, in questi ultimi anni, sta vivendo una vera e propria rinascita, grazie alle nuove generazioni che la stanno riscoprendo.  


Ella, che non ha mai parlato correttamente il lituano, ma che ha conosciuto il dialetto della Samogizia, è stata la madre della letteratura della sua terra, unica donna ad apparire sulla litas. Tutta la sua esistenza, che prima sembrava pencolare nella bruma claustrofobica del mondo contadino, pare cominciare insieme alle sue opere.  Žemaitė è scrittrice perché inizia a vivere solo in quanto tale, come se tutto quello che le è capitato fosse servito ad arrivare a quella prima parola. È scrittrice perché che sa che per esistere, uomini, donne, nazioni, popoli, hanno bisogno di qualcuno che parli di loro. 
È scrittrice perché conosce l’impatto rivoluzionario di una penna e ne usa tutto il clangore per portare luce laddove prima vi era solo un pesante e soffocante buio imposto. È scrittrice, Žemaitė, e partigiana e fondatrice. Perché ha tessuto, in calce alla storia, l’essenza della terra che ella ha salvato dall’oblio. 

Qui le traduzioni in francese e inglese.

***

Articolo di Sara Balzerano

FB_IMG_1554752429491.jpg

Laureata in Filologia Moderna, è giornalista pubblicista e ha collaborato, con articoli, racconti e recensioni, a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la musica di Einaudi, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è avere, sempre, la forza di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché crede nei dubbi più che nelle certezze; perché domandare significa — in fondo — non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

3 commenti

  1. Cara Sara, finalmente faccio la tua conoscenza.. ho letto la bella biografia di Zemaité a cui hai dedicato la tua versatile penna, e anche il tuo profilo… anche io sono amante di gatti e belle storie…Ti saluto con affetto . E’ stato bello collaborare a questo progetto che ci ha aiutato a guardare avanti in tempo di lock down, esaltando la danna!

    Piace a 1 persona

Lascia un commento