Un lavoro inadatto a una donna. Parte seconda 

A partire dagli anni Duemila anche in Italia quello dell’investigatrice non è più un lavoro inadatto a una donna. Dagli anni Novanta, dopo il successo di Camilleri e poi Carlotto, Carofiglio, Lucarelli etc. anche le scrittrici del genere investigativo hanno raggiunto una discreta riuscita e soprattutto una proliferazione incredibile, anche se in ritardo di circa 10 anni rispetto ai loro colleghi maschi.  
In questo breve excursus nella sterminata produzione femminile italiana ho voluto limitare la ricerca solo a quelle autrici che hanno sentito il bisogno di inserire come protagoniste altre donne sia come rappresentanti delle istituzioni (poliziotte, magistrate o mediche legali) sia come dilettanti. In questo lavoro ho cercato di cogliere come i mutamenti della società nei confronti delle questioni di genere vengano rappresentati nella cosiddetta letteratura d’evasione che (a mio parere) riflette molto più velocemente, se non in tempo reale, la società di cui è espressione perché ne coglie gli aspetti macroscopici senza eccessive finezze e analisi e li riporta senza giudizi, spesso incarnandone i cliché. 

Cosa è cambiato dopo il Duemila nella produzione poliziesca in Italia? Sicuramente è aumentata la presenza delle professioniste, quasi esclusivamente rappresentate però nelle forze dell’ordine o nelle anatomopatologhe che, emuli della celeberrima Kay Scarpetta, si dilettano di investigazioni tra una storia rosa e l’altra. A differenza di quanto si può cogliere nella realtà (magistrate 53% e poliziotte 13%) tutte queste professioniste sono in genere a capo di squadre adoranti e perfettamente funzionanti, come nel caso di Giovanna Guarrasi, personaggio frutto della fantasia di Cristina Cassar Scalia, o di Lolita Lobosco, creata da Gabriella Genisi. La loro lotta alla criminalità, sia nei ruoli della magistratura sia in quelli della polizia, non incontra mai ostacoli dovuti al genere. Non viene mai sfiorato il problema delle molestie sessuali mentre è spesso presente quello degli abusi in famiglia con mariti violenti, come in Uno sbirro femmina di Silvana la Spina, dove la protagonista, commissaria Maria Laura Gangemi, ha nel passato un marito campione di abusi psicologici che le hanno lasciato in eredità una fragilità che le ha fatto attraversare tutte le fasi della ricerca di autodistruzione (abusi di alcol e sesso) e con la quale deve tuttora lottare. 
Il romanzo, ambientato a Catania, segnala un’arretratezza della situazione femminile al sud sconcertante, mettendola in parallelo con la presenza mafiosa come se la disparità di genere dipendesse dalla mafia.  

L’unico esempio trovato da me dove si accenna a un tentato stupro da parte di un collega è presente in Di rabbia e di morte di Annamaria Fassio, in cui la poliziotta Erica Franzoni subisce e non ne parla con nessuno, né tantomeno denuncia. A riprova di quanto questi personaggi non vogliano rappresentare una situazione di rottura con i modelli dominanti ma, anzi, ne riproducano gli aspetti solo più superficiali. Lo stesso discorso vale per l’aborto, grande assente in tutti i testi.  
A differenza delle vicende americane il mondo famigliare è molto presente, a volte rasserenante come nel caso di Imma Tataranni (di Mariolina Venezia) o di Libera, la dilettante ficcanaso di Rosa Teruzzi. Ma il più delle volte disturbante come nei rapporti con la famiglia d’origine: abbondano i padri morti e le madri impiccione. Del resto, la famiglia d’origine conta, siamo in Italia. Padri morti in servizio nelle forze dell’ordine determinano la carriera delle figlie, ma soprattutto abbondano i padri putativi: maturi colleghi (che non molestano mai!!!) ma anzi sono mentori affettuosi di queste talentuose ragazze. Spesso le giovani poliziotte si innamorano dei loro capi, ampiamente ricambiate dai maturi commissari, resi opportunamente vedovi o divorziati. Perché queste giovani donne non riescano mai a intrecciare una relazione con un loro coetaneo rimane una delle caratteristiche più curiose di questa produzione, che finisce per assomigliare molto alle trame rosa delle generazioni passate. E poi ci sono madri, suocere, sorelle, cognati, nipoti – figli pochissimi – e tutte/i rientrano nelle dinamiche del racconto con i loro pranzi (qui a differenza del mondo anglosassone si mangia e bene, si sa: siamo in Italia). Ci sono poi le ricorrenze canoniche alle quali non si può mancare, o almeno è molto difficile, perché non c’è delitto che tenga: al pranzo di Natale non sfugge nessuna. 

Le madri esistono e rappresentano un problema perché sono ficcanaso come la Jole di Teruzzi, oppure bisognose di attenzioni, e queste figlie in carriera non accettano di doversi assumere il ruolo tradizionale di figlia accudente, ma ne provano rimorso. Nel caso specifico di Teruzzi l’investigatrice Libera ha una madre fricchettona che svolge il compito dell’aiutante, mentre la figlia Vittoria, che è una poliziotta in memoria del padre (ma va’?), rappresenta l’ostacolo, l’impedimento all’indagine, che è più un ficcanasare che altro. 
Ma la caratteristica più netta, rispetto a tutta la produzione precedente, è la presenza del sesso problematico e di relazioni tormentate per indecisione delle protagoniste. Il sesso non è una gioia bensì un tormento sia in Alice di Allevi sia nella più problematica Vanina di Cassar Scalia, ma anche per la più matura Libera, che si lascia sfuggire il suo commissario e non è nemmeno capace di godere delle gioie del sesso, come sua madre, vecchia hippy, le raccomanda quotidianamente. 
Professioniste o dilettanti, non sono libere dalle angosce amorose, come la procuratrice Imma Tataranni che, anche se felicemente sposata, accarezza l’adulterio con il bel Colagiuri. Ebbene sì, il giallo italiano al femminile contraddice platealmente l’art.3 delle regole di S.S. Van Dine (pseudonimo di Willard Huntington Wright) su come scrivere un buon poliziesco: «Non ci dev’essere una storia d’amore troppo interessante. Lo scopo è di condurre un criminale davanti alla Giustizia, non due innamorati all’altare». Invece nella stragrande maggioranza dei testi presi in considerazione nessuna va all’altare, ma tutte si preoccupano molto della loro vita sentimentale. 
A differenza delle anglosassoni, le autrici italiane dal Duemila in poi hanno caratterizzato i loro personaggi con un marcato spessore psicologico affettivo e che rappresenta il filo rosso che lega ed evolve nella produzione spesso seriale di queste, frequentemente consacrate da un notevole successo anche televisivo. Nella produzione del genere dei primi vent’anni del XXI secolo il conflitto tra professione e vita privata appare ampiamente superato pur nelle incertezze della vita amorosa, nessuna delle investigatrici dubita mai della scelta professionale, o per hobby, che ha deciso di fare. Dal punto di vista professionale queste “ragazze” appaiono molto determinate a ricavare soddisfazioni personali dal loro lavoro anche se tradizionalmente schive (come i loro colleghi maschi) ad accettare riconoscimenti pubblici, valga per tutti Salvo Montalbano. Invece il lato affettivo mostra tutta la loro fragilità di esseri umani in cerca di una nuova dimensione più rispettosa delle loro individualità. Il sesso presente in molte occasioni ci fa capire come la società si sia emancipata sull’argomento. Spesso le investigatrici sono divorziate e/o separate, ma non per questo rinunciano ad avere una vita sessuale più o meno soddisfacente, pur sempre occasionale come i vecchi detective americani vicini a una bionda disponibile, ma mai sposati. L’omosessualità invece è ancora un tabù e solo recentemente Genisi ha sdoganato la carabiniera Chicca Lopez con una relazione omosessuale in Pizzica amara. Anche Deborah Brizzi (che è una vera poliziotta milanese) ha inventato Norma Gigli, investigatrice lesbica, mentre nel mondo anglosassone l’investigatrice lesbica Lauren Laurano di Sandra Scopettone è in voga già da molti anni, giusto per citare la più famosa. 
Sicuramente l’influenza di Camilleri è riscontrabile anche nel tono leggero, spiritoso, a volte autoironico con cui la vicenda è narrata. Spesso viene usata la prima persona come nella produzione degli anni Ottanta, ma qui lo scopo potrebbe essere duplice, perché almeno metà della vicenda è relativa ai sentimenti, e quindi permette una immedesimazione più forte alle lettrici, sia per quanto riguarda il lavoro di indagine sia per i patemi sentimentali che sempre lo accompagnano. Quello che più colpisce è la tranquilla accettazione dei colleghi maschi (sogno/fantasia?) davanti alla superiorità delle protagoniste. Il maschilismo è riservato ai cattivi: mafiosi, criminali vari che siano, mentre le forze di polizia brillano per la mancanza di qualsivoglia atteggiamento sessista (!!!). 

Un’altra caratteristica che differenzia molto la produzione delle autrici italiane è la cura dell’ambiente e della loro persona. Le investigatrici si diversificano parecchio sia per età (Teresa Battaglia di Ilaria Tuti ha quasi 60 anni), sia per taglia (Imma Tataranni ha un corpo piccolo e tondeggiante), ma tutte devono fare i conti con la mania nazionale per la moda e per l’aspetto: dimagrire, curare l’alimentazione e la forma fisica sono temi che ritornano e le scarpe Louboutin e la taglia quinta di reggiseno sono assai comuni. Nella produzione di Genisi, Lolita va addirittura dal parrucchiere e siamo quindi molto lontano da tutti quei personaggi femminili che si tagliavano i capelli da sole degli anni Ottanta. Anche per quanto riguarda l’attività fisica siamo lontane chilometri dalla Signora in giallo che nelle prime stagioni anni Ottanta correva in tuta tutte le mattine per inciampare nel cadavere a colazione ed essere già libera per cena. No, qui in Italia ci si iscrive in palestra, ma poi il fatto di frequentarla è un altro paio di maniche. 
L’impegno sociale, mai sbandierato, è però sottilmente presente in tutte le autrici sia nella lotta alla mafia delle scrittrici siciliane come Cassar Scalia, sia nella difesa delle donne contro la violenza famigliare (Teruzzi) e di bambini e bambine. Non è un impegno politico alla Camilleri, ma un generico appello alla solidarietà anche verso il migrante (vedi Maria Morgana di Fassio). Anche se in genere quasi la metà del racconto è riservata alle vicissitudini private della protagonista-narratrice, le trame autenticamente investigative sono ben congegnate e, tranne qualche eccezione, soddisfacenti per i palati di cultori e appassionate del genere.  
In conclusione, le investigatrici degli anni Ottanta aderivano principalmente al modello “hard boiled” e tentavano di interpretarlo al femminile, mancando per lo più l’obiettivo, perché facevano una caricatura di Marlowe mantenendo ben salde le divisioni di genere; ma anche quelle del Duemila, pur sbandierando la loro emancipazione sessuale, sostanzialmente riflettono la società italiana che permette alle donne di lavorare addirittura in posti di potere, ma a conti fatti fa ancora pagare, almeno sul piano sentimentale-psicologico, il prezzo delle loro scelte. Nella sostanza, queste protagoniste, pur non mettendo mai in dubbio la propria scelta professionale, vivono ancora tutte le contraddizioni che la donna attuale vive circa il suo diritto a essere sé stessa. Le italiane del XXI secolo soffrono sicuramente meno di virilizzazione rispetto alle protagoniste degli anni Ottanta, ma la realtà lavorativa che esprimono è di fantasia, mentre il contesto famigliare in cui si muovono è imperniato sui sensi di colpa per le scelte che devono affrontare. 

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Articolo di Mariantonietta Antelli

Ho insegnato per 40 anni negli istituti superiori di Milano. Adesso mi dedico agli amati libri gialli e alla difesa dei diritti delle donne.

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