Ni una más va in scena a Morbegno

Mi chino leggermente, inarcando la schiena, alla ricerca dei suoi occhi, che intuisco azzurri sotto la cascata di riccioli biondi, piuttosto ribelli, che gli coprono la fronte. Leon tiene lo sguardo fisso sul pavimento, mi parla a voce bassa, un pochino impacciato, mi dice come si chiama, che classe frequenta. Se fossimo a dicembre, penserei che sia stato coinvolto dalla scuola in una rappresentazione sulla Natività: sarebbe un perfetto Gesù Bambino. Di un metro e settantacinque, però. Gli chiedo che cosa ci stia a fare lui, unico rappresentante del genere maschile, in questo gruppo di ragazze dell’Istituto Saraceno-Romegialli di Morbegno, riunito per le prove dello spettacolo teatrale del prossimo 25 novembre. Il tempo stringe, ormai: Ni una más andrà in scena tra una settimana all’Auditorium – gratuitamente concesso dal Comune, da anni molto sensibile al tema della violenza sulle donne – alle nove e alle undici per le scuole; alle diciotto per la cittadinanza. «Prof» mi spiega Leon «io sono giovane, ma ho già visto diverse forme di violenza contro le donne. Soprattutto verbali, ma è violenza anche quella, eccome. Come maschio penso di dover rimediare in tutti i modi a questa ingiustizia». Sparita la timidezza, ora la sua voce ha la fermezza di quella del re della savana, proprio come evoca il suo nome. Gli domando come si possa fare a rimediare a un fenomeno globale, ancora così maledettamente radicato e diffuso. Mi risponde come avrebbe potuto fare il migliore dei filosofi o dei pedagogisti, col tono di chi palesa a una sprovveduta un’assoluta ovvietà: «Lo strumento è l’educazione. Per questo sono qui. Ci sono solo io di maschio, ma ci sono. Meglio uno che nessuno. Uno magari ne educa altri». Mi emoziono. Finalmente. Dalla voce di un quattordicenne esce ciò che da insegnanti andiamo predicando da decenni. Seminare, seminare sempre.  

Mi guardo attorno. Siamo nell’Aula Magna dell’Istituto Saraceno, un salone a perdita d’occhio, ma qui di ragazze ne conto solo otto. Più lui, Leon. E naturalmente le due insegnanti che promuovono l’attività. Mi avvicino a un paio di adolescenti, chiedo se ci sia qualche ritardataria, ancora qualcuna da aspettare, ma mi informano di no: quest’anno il gruppo teatrale è composto solo da loro. Sara, appoggiata al muro a braccia incrociate, scuote la testa: «Essere attenti, dedicare tempo a questo tema dovrebbe interessare tutti. Invece non è così. Siamo ottocento a scuola, qui nove. Io spero che sia perché le persone si sentono già informate, perché è un tema che conoscono già a fondo, altrimenti sarebbe un segno di menefreghismo e non ci voglio credere, voglio essere ottimista». La prof-regista richiama alle prove della coreografia. Il suo nome è Marzia. Come il dio Marte, il guerriero. E così è lei: energia, organizzazione, forza, autorevolezza. I pantaloni a coste, in velluto, svolazzano qua e là mentre mostra a tutte/i i passi da fare, scandendo il ritmo. Con una guida così, penso subito che il successo sarà assicurato. In fondo alla sala, dietro alle ragazze, di fianco a Leon, c’è la sua collega, Rosita. Capelli rossi mossissimi, da una che la vita la prende di petto (perfettamente in tema con lo spettacolo), battuta sempre pronta (si ride, si scherza, si sta bene insieme), non azzecca un passo nei balletti, ma è proprio questo il bello, quello che dà senso e che fa la differenza. In questa aula sospesa tra le montagne della Valtellina e quelle della Bergamasca, sto assistendo alla scuola come dovrebbe essere: quella in cui la figura adulta si mette in gioco alla pari di ragazze e ragazzi, in cui non si ha alcuna vergogna a mostrarsi per ciò che si è, in cui si abbattono le maschere senza perdere i ruoli, dove le insegnanti organizzano, animano, ma le vere protagoniste non sono loro. Al centro ci sono sempre le alunne. E Leon, che decisamente non è un ballerino, ma che ce la mette tutta, nelle retrovie, perché il messaggio che vuol dare è più importante di tutto, anche del suo essere scoordinato. Per fortuna, pensa, ci sono pure delle parti recitate, oltre alle coreografie. Do un’occhiata furtiva al copione e, caspita, lo trovo intenso. È decisamente bello. Mi spiegano che il testo nasce dalla riflessione condivisa di studenti e docenti sul tema della violenza, in cui attori e attrici si alternano nell’interpretazione di sé e dei personaggi che mettono in scena. I monologhi sono tratti dalla raccolta di Serena Dandini Ferite a morte, a partire proprio dal racconto omonimo da cui deriva il titolo. «Ma» mi prende in disparte Francesca «una parte l’ho scritta io. Non voglio che si pensi che sono cose che a noi non capiteranno mai, perché io racconto un fatto successo a una persona a me vicinissima, giovane, colpevole solo di avere avuto fiducia nel prossimo. Siamo tutte possibili vittime». Me la fa leggere, quella parte di copione. L’ha intitolata “Margherita”, come il fiore con cui si interroga l’amore, strappandone i petali candidi e delicati.

Del resto sono tante le simbologie dello spettacolo, tutte molto intense, dirette. Il nero è il colore dominante, ma ogni personaggio, ogni storia di donna, ha un suo dettaglio colorato, in forte contrasto col resto degli elementi presenti sul palco. Noto delle croci, in un sacchetto appoggiato in un angolo. Tutte uguali, in legno, color rosa. Non quel rosa principessa, però, in stile confetti, ma una tinta pastello, quasi color carne, a dare i brividi, appunto. E poi guardo loro, le ragazze che recitano e ballano. Faccio timidamente qualche domanda sulla loro storia, la loro provenienza. Ci sono almeno quattro etnie diverse, qui. Su nove presenze. Un piccolo angolo di mondo, unito da un linguaggio universale – quello del teatro – e da un valore comune: la necessità di opporsi con ogni mezzo alla violenza, alla cultura del possesso, ai femminicidi, alla misoginia. Il finale è un inno all’amore. Nonostante tutto, sopra tutto. Io guardo ciò che sta accadendo qui, oggi, dentro questa scuola. Mentre fuori le ragazze afghane muoiono di terrore, negli anni in cui il Califfato è tornato ancora a legittimare la schiavitù e lo sfruttamento sessuale delle prigioniere di guerra. Dalla mia sedia traballante di questa Aula magna ascolto alcuni passaggi del testo («Ma perché esiste il dolore?» «Per raccontarlo»; «Devo nascondere tutto, perché la fogna subito se lo prende»; «Perché anche il più esiliato degli uomini possa scoprire di avere una dimora dentro sé stesso»; «Insieme possiamo rompere il silenzio e gridare al mondo che noi siamo donne, madri, insegnanti, meravigliose creature») e mi viene da sorridere, perché queste undici persone, davanti a me, tra qualche giorno ne educheranno alcune centinaia. E lo faranno con tutto quello che hanno e che sono: la voce, il corpo, il pensiero, il movimento, gli sguardi, i gesti, le emozioni. Fuori dalla finestra, sorride anche il monte Legnone (in copertina), già un pochino imbiancato in vetta. In fondo qui lo sanno bene: è sufficiente un piccolo smottamento, due o tre frammenti di neve che si staccano, a far partire una valanga inarrestabile. 

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Articolo di Chiara Baldini

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Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.

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