Prime considerazioni intorno alla nuova legge sulla parità salariale

«Onorevoli colleghi, l’articolo 33 (ora 37) riguarda la donna lavoratrice e certi suoi particolari problemi. Questo articolo è un riflesso vivo delle gravi ingiustizie che ancora si registrano nella vita italiana. Da qui a pochi anni noi dovremo perfino meravigliarci di aver introdotto questo articolo nel testo costituzionale e per avere dovuto sancire nella Carta Costituzionale che a due lavoratori di sesso diverso, ma che compiono lo stesso lavoro, spetta una uguale retribuzione. Così pure ci dovremo meravigliare di aver dovuto stabilire come norma costituzionale che le condizioni di lavoro, per quanto riguarda la donna, debbono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e materna. Cioè dovremo meravigliarci di aver dovuto introdurre una norma tanto naturale ed umana». Così si espresse Maria Agamben Federici, democristiana, aquilana, antifascista e partigiana, nell’Assemblea Costituente nella seduta antimeridiana del 10 maggio 1947. 

La questione della parità di retribuzione tra uomini e donne era ben nota alle Madri Costituenti, 21 pioniere che fecero uno sforzo incredibile per consegnarci una Costituzione accogliente e paritaria. E proprio «la via solenne del diritto», come ricordava Teresa Mattei alla Costituente, ha sempre dovuto essere percorsa nella nostra storia per affermare ciò che è assolutamente naturale e che era scritto nella Carta fondamentale della Repubblica e cioè che: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore». Eppure ancora 27 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, disciplinando l’impresa familiare, in occasione della riforma del diritto di famiglia che, nel 1975, dava finalmente attuazione ai principi costituzionali all’interno della famiglia, l’articolo 230 bis del codice civile doveva affermare che «il lavoro della donna è equivalente a quello dell’uomo» mentre si deve alla prima ministra del Lavoro Tina Anselmi la legge 903 del 1977 “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro” che all’articolo 2 dice testualmente: «La lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore. I sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retribuzioni debbono adottare criteri comuni per uomini e donne». 
Salutiamo quindi con gioia la legge definita “sulla parità salariale”, approvata il 26 ottobre dal Senato all’unanimità in Commissione lavoro (con procedimento in sede deliberante). La proposta era già stata approvata all’unanimità nell’identico testo dall’assemblea della Camera dei Deputati solo quindici giorni prima, il 13 ottobre e porta la firma, tra gli altri e le altre, delle deputate del Pd Chiara Gribaudo e Valeria Fedeli. È da valutare con soddisfazione l’esiguo numero di giorni intercorsi tra l’approvazione della Camera e quella del Senato, segno della considerazione dell’importanza del tema nel calendario delle attività parlamentari e della consapevolezza da parte del Parlamento che la parità di genere nel lavoro sia fondamentale per la ripresa dopo la pandemia e per lo sviluppo sostenibile. Giudicheremo l’efficacia di questa legge alla prova dei fatti. Per il momento limitiamoci ad esaminarne il testo, con l’ausilio di pochi articoli di commento.  

Una parità effettiva tra uomini e donne nel mercato del lavoro non c’è e lo dimostra la necessità di doverla sempre ribadire nei molti testi legislativi che si sono susseguiti in Italia dalla Costituzione ad oggi. Come scriveva Vaclav Havel: «La legalità è il potere dei senza potere. Il potere non ha bisogno delle leggi». A fine 2020 l’Italia aveva uno dei peggiori tassi di occupazione femminile nell’Ue (48,5 %), con 14 punti percentuali al di sotto della media europea. Secondo Eurostat (https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Gender_pay_gap_statistics), i differenziali salariali in Italia sono del 4,7 % contro una media nell’Unione europea del 14,1 %, con enormi differenze tra settore pubblico e privato: 3,8 nel primo e 17  nel secondo. Per ridurre i differenziali salariali di genere occorre intervenire sul settore privato e sulle dinamiche retributive all’interno delle imprese. Durante la pandemia di Covid proprio le donne lavoratrici, e soprattutto le madri, hanno pagato il prezzo più alto della crisi occupazionale, sovraccaricate anche dalla cura della casa, dei figli, dei genitori anziani al punto da dover lasciare molte volte la propria occupazione. Se precarie o con contratti part time non volontari, sono state le prime a perdere il posto di lavoro nella misura del 70% nel 2020. 

Ma veniamo all’esame della legge “Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo”, immediatamente denominata “legge sulla parità salariale”, che introduce alcune modifiche al Codice delle pari opportunità (conosciuto e applicato pochissimo) con lo scopo di ridurre le discriminazioni e promuovere la parità salariale tra uomo e donna. Le proponenti di tale legge e anche l’ex Presidente del consiglio Giuseppe Conte hanno fatto commenti entusiasti su questo testo, che al momento in cui scrivo non è ancora entrato in vigore. Esaminiamone le norme più importanti: l’articolo 1 rende più efficace l’informazione e il controllo delle Camere sull’applicazione della legislazione in materia di pari opportunità; valorizza il ruolo della consigliera nazionale di parità, che procederà a trasmettere ogni due anni una relazione di monitoraggio sulla disparità di genere in ambito lavorativo. Essendo la consigliera nazionale non soggetta a spoil system ed essendo invece i nostri Governi soggetti a cambiare molto frequentemente, questa è una buona notizia.  

L’articolo 2 aggiunge tra le discriminazioni indirette, cioè quei comportamenti apparentemente neutri che possono però mettere le donne in quanto tali in una posizione di svantaggio, limitare le opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali o limitare l’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera, ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che avvengano in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti. 

L’articolo 3 interviene sulla situazione del personale per la verifica del rispetto del principio della parità di genere da parte delle imprese sia pubbliche che private con riferimento ai processi di selezione e reclutamento, all’accesso alla qualificazione e alla formazione professionale e alle misure adottate per promuovere la conciliazione di tempi di vita e di lavoro. Tra le maggiori novità c’è la modifica dell’art. 46, al comma 1, che prevedeva per le imprese con più di 100 dipendenti, ogni due anni, la compilazione di un rapporto sulla situazione del personale, con un’attenzione speciale all’occupazione e alla retribuzione di uomini e donne, tenendo conto di molti indicatori, dai salari agli inquadramenti, dai congedi al reclutamento. Ora la legge sulla parità salariale obbliga alla redazione di questo rapporto anche le imprese che hanno fino a 50 dipendenti. La conseguenza è quella di ampliare enormemente il numero delle aziende e quindi dei lavoratori e delle lavoratrici interessate. Si passa dalle circa 13 mila imprese con più di 100 dipendenti alle 31 mila con più di 50 dipendenti. L’elenco delle aziende che trasmetteranno il rapporto, e quello di chi non lo trasmetterà, saranno pubblici, i dati saranno consultabili dai lavoratori e dalle lavoratrici, dai sindacati, dagli ispettorati del lavoro, dalle consigliere di parità e si prevedono sanzioni fino a 5000 euro per mancata o fallace trasmissione dei dati. La legge impone anche la pubblicazione, in chiave di trasparenza, sul sito internet del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali dell’elenco delle aziende che hanno tramesso il rapporto e di quelle che non lo hanno trasmesso e, sempre in nome della trasparenza, contempla specifiche modalità di accesso al rapporto da parte dei lavoratori e delle lavoratrici nonché delle rappresentanze sindacali nel rispetto della tutela dei dati personali; con apposito decreto il Ministero regolerà le modalità di trasmissione alla consigliera o consigliere nazionale di parità e consigliere e consiglieri di parità regionali e delle città metropolitane dell’elenco delle aziende tenute all’obbligo entro il 31 dicembre di ogni anno, prevedendo specifiche sanzioni per rapporti mendaci o incompleti o per inottemperanza oltre i 12 mesi. La visibilità dell’elenco richiama un meccanismo di name and shame, che può forse avere maggiore efficacia per le imprese di grandi dimensioni. 

Con l’articolo 4 invece viene istituita la certificazione della parità di genere, peraltro già prevista nel Pnrr, per attestare le politiche e le misure concrete adottate dalle imprese per ridurre il divario di genere. Gli sgravi fiscali fino a 50 mila euro per le aziende che ottengono tale certificazione sono descritti all’articolo 5. I dettagli sui requisiti da soddisfare per ottenere la certificazione  sono demandati a futuri decreti, e qui sarà il Governo a dovervi provvedere, mentre sgravi contributivi sono destinati, entro certi limiti, alle imprese certificate come eque. Mentre la visibilità per i percorsi rispettosi della parità è condivisibile, il “premio” monetario suggerisce che alla base della legge è presente una mentalità superata, quella che considera ancora un costo per le imprese un trattamento rispettoso del genere (per cui le imprese stesse devono essere compensate), invece di considerarlo un vantaggio. Si rafforza anche il quadro sanzionatorio. L’articolo 6 si occupa dell’equilibrio di genere negli organi delle società pubbliche estendendo quanto prevede per le società private la legge Golfo-Mosca. 

La nuova legge però rischia di nascere già vecchia. Nel marzo 2021, infatti, la Commissione Europea ha elaborato una proposta con un contenuto ancora più stringente di quelli previsti dalla legge italiana, che estende le tutele e i diritti a lavoratrici e lavoratori assunti con qualunque tipo di contratto. La relatrice di questa direttiva alla Camera dei Deputati è stata Linda Laura Sabatini, in un’audizione alla IX Commissione (Lavoro pubblico e privato) del 22 giugno 2021. La direttiva riconosce a tutti i lavoratori e lavoratrici il diritto di richiedere ai propri datori di lavoro informazioni sui livelli salariali, ripartite per genere. Sulle imprese e su ogni datore di lavoro, Ong e Onlus comprese, graverebbe l’obbligo di informare i candidati e le candidate sul livello retributivo interno in riferimento alla posizione per cui concorrono e il divieto di chiedere informazioni sulle loro precedenti retribuzioni. Questa direttiva si applicherebbe a qualsiasi rapporto di lavoro tra i molteplici contratti atipici creati in Italia dalle leggi Treu, Biagi e seguenti che, in nome della cosiddetta globalizzazione, hanno precarizzato il rapporto di lavoro e indebolito lavoratori e soprattutto lavoratrici: persone assunte a tempo parziale, a tempo determinato e persone che hanno un contratto o un rapporto di lavoro con un’agenzia interinale; lavoratrici e lavoratori domestici, lavoratrici e lavoratori a chiamata, intermittenti, a voucher, lavoratrici e lavoratori tramite piattaforma digitale, tirocinanti e apprendisti se ricorrono determinate condizioni. Gli organismi per la parità saranno competenti anche per quanto riguarda i diritti e gli obblighi in materia di trasparenza retributiva previsti dalla direttiva. Disporranno di poteri rafforzati, ad esempio potranno agire non solo a sostegno delle vittime, ma anche a loro nome, in qualsiasi procedimento giudiziario o amministrativo. Inoltre, la direttiva proposta prevede la possibilità che gli organismi per la parità o i/le rappresentanti dei lavoratori presentino un’azione congiunta a nome di diverse vittime, in modo così da affrontare eventualmente la discriminazione strutturale nelle strutture retributive. 

La legge sulla parità salariale, pur apprezzabile nelle sue disposizioni, è solo una “parte” della risposta sia in termini culturali che di strumenti concreti, che l’Italia deve dare al riequilibrio di un sistema che penalizza le donne nella distribuzione dei tempi di vita e di lavoro, nelle opportunità di carriera, nei salari, «uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa» come lo ha definito anche il Presidente del consiglio Mario Draghi nel suo discorso programmatico al Senato. Il rischio è che queste previsioni legislative, che per essere pienamente attuate necessitano di una serie di decreti attuativi, si trasformino in un comodo pink washing. Per una vera svolta serve una visione molto più lungimirante e globale nella prospettiva degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030 e del Pnrr, che ha inserito la parità di genere tra le priorità trasversali, ricordando che il nostro Paese ha il terzultimo posto in Europa per tasso d’impiego femminile. Lo scarto tra uomini e donne che lavorano è quasi del venti per cento: 48,5 contro 67,5%, mentre a livello europeo le percentuali sono rispettivamente 66% e 78%. Banca d’Italia ha stimato che se colmassimo solo metà del nostro scarto e raggiungessimo lo scarto medio europeo il Pil Italiano crescerebbe del 7%. 

Le donne italiane assumono su di sé il carico dei lavori di cura della prole e delle persone anziane perché mancano servizi di welfare efficienti, sia asili nido che case di cura con costi accessibili per chi non è più autosufficiente. A poco a poco sono le donne stesse a ritirarsi dal mondo del lavoro perché non sostengono questo carico. Per non parlare del Gender pension gap. Per comprendere il problema e approntare soluzioni efficaci bisognerebbe tornare, come ricorda la giovane studiosa e giornalista Roberta Covelli, allo strumento principale che la nostra Costituzione prevede per la rimozione degli ostacoli socio-economici, il lavoro, non inteso come un qualunque rapporto di impiego, ma, secondo il combinato disposto dagli articoli 1, 4, 36, 41, come un diritto, una libertà e un dovere, quello di «concorrere al progresso materiale e spirituale della società». 

Non è stato difficile trovare l’unanimità in Parlamento su queste disposizioni, che peraltro necessitano di decreti attuativi per poter fare in modo che il sessismo in materia salariale sia accertato nei luoghi di lavoro e punito. Non è chiaro se il nuovo Codice delle pari opportunità si applicherà a qualunque datore di lavoro e non solo alle imprese, ma soprattutto se riguarderà quella congerie di contratti atipici contemplati dalla proposta di direttiva Ue e che sono quelli che spesso riguardano le donne. Molto più arduo sarebbe stato intervenire sul vero ostacolo che si trovano di fronte le donne e i giovani: la precarietà. Non dimentichiamo che il tanto decantato jobsact, depotenziando ulteriormente la tutela contro il licenziamento illegittimo, è riuscito a rendere persino i contratti a tutele crescenti, che hanno preso il posto dei vecchi contratti a tempo determinato, un tempo fonte di stabilità e sicurezza economica, rapporti di lavoro insicuri e precari, come hanno recentemente ricordato la Corte Costituzionale e il Comitato economico e sociale dell’Ue. Sostiene Roberta Covelli a conclusione del suo articolo sulla legge sulla parità salariale: «Quello promesso dalla Costituzione è un lavoro dignitoso, con una retribuzione proporzionata e sufficiente, con tutele sociali irrinunciabili, in un contesto di mercato in cui la libertà di impresa, pur garantita dall’articolo 41, non può essere in contrasto con l’utilità sociale. Se la parità di genere è utilità sociale, se la dignità nel lavoro è utilità sociale, allora dovremmo pretenderle. Lo Stato dovrebbe essere garante dei diritti ed esigerne il rispetto anche da parte delle imprese. Ancora una volta, invece, la scelta è di proclamare principi ed elargire, a carico della collettività, incentivi alle imprese, per il semplice fatto di non comportarsi troppo male». «Le imprese devono essere accompagnate» cioè premiate se rispettano la legge, afferma Fedeli nel suo articolo di commento al nuovo testo del Codice delle pari opportunità. Questo atteggiamento resta per me inspiegabile, a meno che anche Fedeli, paladina da sempre dei diritti delle donne, si sia piegata alla interpretazione imperante secondo cui l’uguaglianza di genere è ancora un costo per le aziende. A che titolo questo costo debba essere addossato alla comunità è ciò che appare ancora più inspiegabile. 

In conclusione, bene ha fatto il Parlamento a rafforzare il Codice delle pari opportunità nei punti nei quali era di fatto difficilmente applicabile, ma questo è solo un piccolo passo verso la realizzazione di un mondo del lavoro rispettoso della parità di genere. Occorrerà far conoscere tali modifiche a un vasto pubblico di lavoratrici, ai sindacati, agli ispettorati del lavoro, occorrerà attivarsi perché vi sia data attuazione e occorrerà vigilare sulla parte attuativa delle modifiche, che spetta al Governo. Ma soprattutto occorrerà battersi contro la precarietà del lavoro. 

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Articolo di Sara Marsico

Ama definirsi un’escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la c maiuscola. Docente per passione da poco in pensione, è stata presidente dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano e referente di Toponomastica femminile nella sua scuola. Scrive di donne, Costituzione e cammini.

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