I silenzi abitano quegli stretti spazi che esistono tra le parole e il rumore. Lì si dilatano e restringono, come il mantice di una fisarmonica che respira e si inclina nel mutismo assordante di chi ha troppo da raccontare. Sono un’arma, i silenzi. Una resistenza arrogata e pretesa, salvifica, soprattutto quando intorno si hanno — o si hanno avuto — grida, boati, frastuoni abominevoli. A volte, essi avrebbero da dire fiumi incontenibili di fatti e avvenimenti; altre volte, sono lì, a raschiare il fondo dell’immobilità. Sempre e comunque testimoni di ciò che hanno visto e che mai avrebbero voluto vedere, sospesi a galleggiare e pesare come la calaverna gelata che ti inchioda al suolo. Con questa afasia narrativa e loquace, con queste parole non dette e solo immaginate, è intrecciato e costruito Dietro quei silenzi… il racconto di Maïssa Bey. Uno scritto in prima persona, nel quale, però, la prima persona è tenuta a distanza, trasformata in un “lei” che sa di distacco e sopravvivenza, come se si volesse dare poca confidenza a un destino che, invece, si è preso delle libertà che non avrebbe potuto permettersi.
Tre i personaggi: una donna, un uomo e una ragazza, compagni di viaggio nel vagone di un treno pomeridiano. Nulla che li leghi, a parte la voglia di starsene per contro proprio e passare in solitudine il tempo che sono costretti a condividere. Almeno finché un piccolo incidente costringe alla buona educazione dei convenevoli. E così, parola dopo parola, la diga del silenzio inizia a mostrare qualche crepa e qualche fessura. E tutto il fango nascosto dietro gli argini comincia a colare, senza, però, che nessuna inondazione arrivi ad affogare e seppellire quel presente ferroviario. Perché la tempesta, alla fine, si scatena. Ma lo fa negli animi e nelle teste delle due viaggiatrici e del viaggiatore, che si scoprono accumunati, in maniera ovviamente diversa, da un passato atroce e insanguinato: la Guerra di Algeria. La donna è la stessa autrice. Sue, le vicende accadutele. Suo, il ricordo dolce e crudele di un passato che è stato vita e che ora ha il sapore cattivo di ciò che è strappato per sempre.
Eppure, ella sceglie di descrivere tutto dall’alto, dall’esterno. Sceglie di corazzarsi contro l’orrore vissuto per evitare che esso possa tornare a spezzarla. Un dolore troppo grande e profondo, anche solo da rievocare, che impone delle pause per riprendere il fiato e reimparare a respirare. Perché la guerra, ci mostra questo libro, non finisce. Nessuna guerra finisce, una volta che il primo colpo è stato sparato. E trattati di pace, armistizi, accordi, nulla serve a tacitare la furia delle armi e delle esplosioni, l’abominio delle urla e della paura. Le vittime sono vittime anche con le munizioni ferme. Continuano a esserlo. Forse per sempre.
Al rumore infernale del conflitto, si risponde, tra queste pagine, con il diritto al silenzio. E con il diritto a gridare i propri pensieri e il proprio dolore nell’intimità delle private pieghe dell’animo, senza che il mondo sappia e, con il suo sapere, alleggerisca ciò che deve avere il peso specifico della memoria. Almeno fino a che con questo stesso dolore, con i sensi di colpa dei sopravvissuti e delle sopravvissute, con il rimorso di chi un futuro comunque è riuscito o riesce a intravederlo, si viene, in una qualche maniera a patti. E allora, solo allora, si può iniziare a raccontare.
Questo libro è dunque la gestazione di una sofferenza, il parto di una vita nuova che, se non in pace, è, almeno, pacificata. Con sé, e con le altre che le si muovono attorno.
I silenzi abitano quegli stretti spazi che esistono tra le parole e il rumore. Ed è lì, proprio lì, che i pezzi possono essere raccolti. È da lì, proprio da lì, che l’aria pulita può tornare a circolare.

Maïssa Bey
Dietro quei silenzi…
Astarte, Pisa, 2020
pp. 112
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Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.