Fantascienza, un genere (femminile). Giulia Abbate, Elena Di Fazio, Elisa Emiliani

Nove racconti in antologie collettive e cinque in riviste, due romanzi, due raccolte di racconti da lei stessa curate e una a proprio nome, un saggio; e – ancora – un’attività di editor e coach per l’agenzia di servizi letterari Studio83, aperta nel 2007 con l’amica di sempre Elena Di Fazio; e tutto in neppure quarant’anni di vita. È Giulia Abbate: già tra le autrici più promettenti e originali della science fiction italiana contemporanea, è ora presenza affermata e autorevole in questo ambito (il dettaglio delle pubblicazioni in giulia-abbate.it)
La capacità di guardare al genere da più punti di vista – scrittrice, studiosa, curatrice – rappresenta un valore aggiunto nell’opera di Giulia, oltre allo standard qualitativo dei suoi testi, sempre accurati sotto il profilo stilistico e stimolanti nello specifico dei contenuti. Per questo non è facile, nel breve spazio di un contributo dedicato a più voci femminili di scrittura dell’immaginario, effettuare una scelta: il rischio di sacrificare racconti e romanzi significativi è concreto, e, d’altra parte, sarebbe altrettanto ingiusto procedere semplicemente per elencazione. Dunque, la scelta è stata operata da Abbate stessa, che, cortesemente, ha stilato una graduatoria dei testi che le sono più cari: ed ecco la ragione di questa silloge (una tra le tante possibili).

Elena Di Fazio e Giulia Abbate insieme alla prima edizione di Stranimondi, Milano, 10 ottobre 2015 (archivio Elena Di Fazio)

Giulia Abbate è nata a Roma il 6 febbraio 1983 (e di Roma conserva un’eco ridente nell’accento); qui consegue la maturità classica nel 2001 e la laurea in comunicazione nel 2004, l’anno in cui si trasferisce a Milano; già esperta di editoria, si perfeziona in questo specifico ambito grazie alla laurea magistrale nel 2006; continua a studiare, coniugando la propria passione per la lettura e la formazione umanistica con le nuove tecnologie e le esperienze professionali nei settori dell’informatica, dell’editoria e, naturalmente, di editing e coaching.

«Ho il pallino della scrittura fin da bambina, così a un certo punto mi sono detta: se lavorerò nel settore dei libri, potrò continuare a scrivere. Poi quando con Studio83 ho iniziato a lavorare sul serio… ho smesso di scrivere. Dovevo studiare ancora, seguire gli autori, leggere e bloggare, non avevo più tempo né forza per le mie scritture! – dichiara l’autrice in un’intervista a Filippo Radogna di lazonamorta.it, ascrivibile alla primavera 2016 – Poi qualcosa è cambiato. Ho avuto due figlie. Il tempo è diminuito ancora: ma le forze si sono moltiplicate e l’energia creativa mi è cresciuta al volo, come le bambine. La tecnica “accumulata” negli anni di Studio83 mi è venuta in aiuto. E delle persone mi hanno dato fiducia».

In effetti, la produzione di Giulia Abbate data a partire dal 2013, anno del primo racconto (le sue figlie, Stella e Sara, hanno ora rispettivamente dodici e otto anni), ed è una storia familiare intensa, che pone da subito la scrittrice nel filone della fantascienza sociale, capace di proiettare nel futuro le smagliature del presente, di costruire scenari legittimamente fondati sulle contraddizioni della contemporaneità e in ultima analisi, rovesciando prospettive, di indurre alla riflessione che rende possibile il cambiamento. Nove anni (ora ristampato nella raccolta Quando il sole bruciava, a cura di Delos Veronesi e Franco Ricciardello, Delos Digital 2021) si articola nell’arco di un sessantennio, tra 1991 e 2051, tra Albania e Italia (e ritorno), tra crisi economica, libere elezioni, finanziarie piramidali, crisi kosovara, disordini e migrazioni e un inatteso (ma non imprevedibile) ribaltamento di ruoli. La storia albanese recente è raccontata attraverso lo sguardo di un protagonista, Bashkim, che ha visto «non uno, ma due mondi crollare», che avrebbe potuto essere «un signore della guerra balcanico» e che invece, nel 2014 (la rovina è collocata nell’immediato futuro) organizza la salvezza per sé e i propri cari, quando «l’Italia sonnecchiava sull’orlo del burrone». Malinconia e fierezza, amore e senso della famiglia (per Marta, la donna «colta e curiosa» che ha sposato, per i genitori, per le figlie e i figli) connotano Bashkim, che nel 1991 aveva nove anni e ora, nel 2051, ne ha quasi settanta, eppure, nella miglior tradizione del paese delle aquile, ha ancora in sé uno spirito non domato, e non pacificato.

L’Albania nel cuore: così è anche nel racconto Il nostro seme inquieto (in Terra promessa. Dieci racconti di fanta-decrescita, a cura di Gian Filippo Pizzo, Tabula Fati 2014), nel quale l’ambientazione è italiana, ma il titolo rinvia a un’espressione che i parlanti albanesi pronunciano incontrandosi: «Gjaku ynë i shprishur!». Significa: «Il nostro sangue disperso!» e oppone dolorosamente chi va e chi resta, il giovane (migrante) in cerca di sé stesso e del proprio posto nel mondo, del luogo ove dar vita ai propri desideri e aspirazioni da una parte, dall’altra la famiglia d’origine che vorrebbe trattenerlo, che stenta a comprenderne le ragioni ed è in pena per l’incertezza del viaggio che lui sta per compiere. Il quadro è quello di un futuro desolato, in cui la decrescita è necessità e la sopravvivenza del genere detta le proprie regole rispetto alle ambizioni degli individui.

Giulia Abbate con il marito e le figlie Stella e Sara a Korçe (Albania), nel 2015 (archivio Giulia Abbate)

Dello stesso anno, il 2014, il bellissimo Uno e Trifasico, pubblicato però nel 2017, giocato sull’antinomia (o meglio, sull’ambivalenza) umano/non umano, che altro non è che l’eterna dialettica tra padrone e servo, oppressore e oppresso. Elvex450 ed Ella610 sono due soltanto tra i tanti Elvex, le tante Ella, eppure sono dotati di capacità di provare dolore (il trauma della guerra) e di riflettere sulle proprie azioni («corpi umani e chimerici maciullati»), dunque di consapevolezza di sé e di coscienza individuale; gli androidi, maschi e femmine, sono però condannati alla formattazione quando le loro caratteristiche umane, troppo umane, interferiscono con gli scopi per i quali sono stati costruiti, ma… Due “veri” umani, Hans e Fritz, accidentalmente, rendono loro possibile la permanenza di sé, della propria storia, della speranza per il futuro, in corpi mutati, ora quasi interscambiabili, che danno vita a una coscienza collettiva e composita, capace di agire per il mondo giusto che verrà, di cui il sogno è fondata premessa.

Di taglio decisamente altro, e comunque riuscitissimo, è Sinfoniade, pure del 2014, ove sono uniti gusto fantastico (nella scia di Lovecraft e soprattutto di Buzzati, che Giulia Abbate legge «per vivere») e fantascientifico, con un colpo di teatro finale – il tema centrale è la sfida diabolica tra due violinisti in una Milano frivola e straniata – degno di Philip Dick.
La certezza della necessità della lotta (dal basso e non violenta, non a caso è citata la pratica gandhiana del Satyagraha) per un mondo migliore possibile anima anche Calendario della semina, che presenta l’elogio dell’agricoltura tradizionale (biologica), fondata sulla lentezza dell’agronomia antica e sull’ascolto del respiro della terra: Cecilia e Delia Ferro, contadina e avvocata, sono due combattenti senza armi – la prima ha la forza della tenacia, la seconda quella della parola – che operano per il bene comune, con ferma opposizione al potere dei parlamenti proni alle multinazionali; queste, in un futuro prossimo distopico, vorrebbero imporre colture «geneticamente perfezionate», cancellando i grani antichi (al centro della contendere sono i semi d’orzo di famiglia, che Cecilia rifiuta di consegnare) e con essi la biodiversità. Il testo è attualissimo, non solo per il tema dell’alimentazione, ma anche nello specifico delle intimidazioni e delle violenze e che in questi anni, in America Latina e non solo, subiscono le attiviste per l’ambiente (basti pensare a Berta Cáceres Flores, assassinata nel 2016 su mandato di Desa, l’impresa honduregna titolare della concessione per la costruzione della diga di Agua Zarca) e delle lotte del movimento Sem Terra. Il racconto, del 2015, è costruito attraverso una sequenza di documenti che esprimono differenti linguaggi e punti di vista: lettere private, verbali di interrogatori (nel carcere punitivo di Opera, ove Cecilia è ristretta), discorsi in occasione di manifestazioni, comunicati stampa, articoli di giornale, con risultato di grande efficacia.

Nel 2017 Abbate ripubblica, con Elena Di Fazio, la silloge di testi brevi Lezioni sul domani, per Delos Digital e, in proprio, Stelle umane, raccolta di nove racconti fantastici e di fantascienza già editi su rivista. Con lo splendido Fuga da Calypso 14 vince il prestigioso Premio Italia per il miglior racconto su pubblicazione amatoriale (Nuove vie, leggibile in rete). Un testo poetico, spiritoso, garbato, fiabesco nel registro e profondo nel contenuto (piace pensare a Giulia che ne fa narrazione serale per le figlie Stella e Sara), che ha per protagoniste le tenere lapine, in particolare le due sorelle Kaisilinna e Yanileva, che oltrepassano d’un balzo gli stereotipi sulle deboli coniglie dando prova di coraggio e tenacia: coadiuvate dall’anziana tartaruga Tuk, che ha la memoria storica necessaria per progettare il futuro, le leprottine sanno prendere in mano la propria vita, guidare la comunità, affiancarsi nel riscatto agli altri animali traditi e abbandonati dai perfidi esseri umani, in una vicenda in cui epos e mito si declinano secondo la sensibilità e la cultura lapina. Imperdibile, «Parola di Fritz!».

Copertine delle antologie Lezioni sul domani, racconti a firma di Giulia Abbate ed Elena di Fazio (Delos Digital 2017), e Materia Oscura, a cura di Emanuela Valentini (Delos Digital 2018), che contiene un racconto di Abbate e uno di Di Fazio

In questi anni, sono dati alle stampe il romanzo ucronico Nelson (Delos Digital, 2016), quello storico La cospirazione dell’inquisitore (Fanucci, 2018), e il saggio, redatto con Franco Ricciardiello, Manuale di scrittura di fantascienza (Odoya 2019).

Liquefatio H.G. (citazione esplicita del romanzo post-apocalittico Dissipatio H.G. di Guido Morselli, del 1977) data al 2018 ed è pubblicato nell’antologia al femminile Materia oscura, a cura di Emanuela Valentini, per Delos Digital. È una combine di elementi diversi, che vanno a comporsi in una narrazione potente, senza cedimenti grazie alla sicura regia dell’autrice: i problemi di piccole persone in una immensa tragedia (la protagonista Fenzileh e la figlia Aviva), la catastrofe climatica e ambientale («siamo a mollo nelle paludi e il mare continua ad avanzare»), le migrazioni e le religioni («quei maledetti disgraziati si inventavano qualsiasi cosa pur di passare i confini»), la persistenza del dolore («Alcuni ce la facevano. Tutti gli altri sono lì. Sotto la neve»), l’ur-fascismo (le pittoresche figure di Vittorio, Galeazzo e Italo, manovalanza della Grande Alba, il partito al potere, che stendono il braccio destro in un «saluto romano», aggiungendo un «segno della croce»). Il liquefarsi dei ghiacciai porta un effetto imprevisto, una inaspettata invasione dall’altrove assoluto, che si intreccia con il mistero dell’aldilà, con il ritorno dalla luce e alla luce, con la memoria della Grande guerra e della violenza ustascia, con la considerazione che i confini sono «finzioni, sovrastrutture» e che violarli è «incidentale, inevitabile».

Nel 2020 tre racconti tra i più cari a Giulia Abbate: La città della gioia (in Lo zar non è morto, a cura di Nico Gallo e Lukha Kremo, Kipple); Il libro di Flora (in Assalto al sole, a cura di Franco Ricciardiello, Delos Digital; e con Franco Ricciardiello, Romina Braggion, Silvia Treves, Giulia dà vita nel 2021 al movimento Solarpunk Italia), La vita segreta dei cicloni (in Robot n. 90 dell’estate 2020).

Romina Braggion, Elena Di Fazio e Giulia Abbate alla settima edizione di Stranimondi, Milano, 11 settembre 2021 (solarpunk.it/stranimondi-milano-2021/2021/)

Il primo è un testo ucronico, che traccia la storia di un Biennio Rosso alternativo, seguito alle ferite della Rivoluzione russa: si colloca infatti, con narrazione alternata, tra il dicembre 1916 e il giugno 1920, tra San Pietroburgo ed Ekaterinburg, da una parte, e Korçe, Valona e il Mare Adriatico, dall’altra; inanella una corona di donne grandi o celebri, in un filo rosso teso a evidenziare come il governo femminile – auspicato nel libro La città delle dame, luogo ove «vivere in pace, uguali e libere, sotto un governo indipendente e secolare» – possa essere strumento di prevenzione della violenza del potere e di medicazione della guerra: e sono la letterata Cristina de Pizan, la santa guerriera Giovanna d’Arco, Maria Antonietta d’Asburgo Lorena regina di Francia, Vittoria sovrana d’Inghilterra, Aleksandra Fëdorova Romanova zarina di Russia, fino all’ultimogenita di lei, Anastasia. Riscrivere la storia (optando, per esempio, per un finale di salvezza e non di morte per Rosa Luxemburg) è un azzardo che fa bene, perché apre alla possibilità di camminare verso un orizzonte di libertà e giustizia.

Così come ne Il libro di Flora, racconto a tesi credibile nella resa di ambienti e personaggi, nel quale, pure, la rivolta che verrà è affidata a un libro capace di sfuggire alla censura e alla persecuzione, venuto al mondo da una genealogia femminile, quasi matrilineare; nel quale il cambiamento nasce da una donna, Flora, capace di ascoltare la voce segreta delle piante, di mantenere in sé l’amore per le origini, di portare a compimento una missione avvertita come propria ma necessaria al genere umano.

La vita segreta dei cicloni è, infine, uno struggente viaggio nel dolore e nell’elaborazione del lutto, in un’Italia che, sullo scorcio del XXII secolo, è in buona parte sommersa a causa dei cambiamenti climatici e ridotta a un «moncone» battuto dagli uragani. Ed è, anche, una profonda riflessione sul tempo: «Il tempo si misura, si sminuzza, si compone, ma una cosa non può cambiare: va solo in avanti. E prima o poi lascia tutti indietro privi di qualcosa: persone, pezzi di sé stessi, pezzi di ricordi allocati anch’essi nella carne che fanno un dolore cane».

Qui si conclude questa rassegna imperfetta dell’opera di Giulia Abbate, autrice eclettica di racconti (misura che nulla ha da invidiare a quella del romanzo, ma che certo è meno redditizia), che spazia in ambito science fiction sempre con attenzione ai valori della dignità e della libertà, dell’umanesimo e dell’ecologia, sempre con gusto e personalità, grazie a vicende ben costruite, prosa espressiva, sintassi impeccabile. Che altro dire? Avanti così!

«Elena-e-Giulia-una-e-binaria» (è la bella definizione di Abbate) si fondono nella scrittura del racconto Guerra fredda (in Strani Mondi, Urania Millemondi 84, luglio 2019), pure ambientato in un futuro di apocalisse climatica, nell’Artico desolato, con elementi drammatici e spiritosi a un tempo (impagabile la citazione da A qualcuno piace caldo di Billy Wilder, del 1959).
«Editor per mestiere, autrice per vocazione, viaggiatrice per passione»: così si definisce Elena Di Fazio sul proprio profilo Instagram. Nata a Roma il 19 gennaio 1983, esordisce giovanissima con un breve racconto – Fiocchi di panna dall’oltrecosmo – pubblicato in Robot n. 51 dell’estate 2007, quando è ancora studente universitaria di Teorie della comunicazione: un testo ancora acerbo ma gradevole. Passano soltanto quattro anni ed Elena, con l’amica Giulia (con lei fonda l’agenzia Studio83), pubblica la bella, già menzionata antologia Lezioni sul domani, poi ristampata da Delos Digital nel 2017, che comprende due racconti scritti da entrambe, tre di Abbate e sette di sua mano, nei quali, nonostante non abbia ancora trent’anni, dà prova di notevole maturità e conferma il proprio talento. Nel 2012 Di Fazio si trasferisce a Faenza; nel 2017 vince il Premio Odissea (e successivamente il Premio Italia) con il romanzo Ucronia, pure dato alle stampe da Delos Digital, la casa editrice per la quale è curatrice, ancora una volta con Giulia Abbate, della collana “Futuro Presente”, dedicata alla fantascienza sociale («un viaggio nel tempo, con soste suggestive e inaspettate, in molteplici domani fioriti dai nostri oggi» si legge nell’Introduzione all’antologia Italia Futura Presente, curata dalle due autrici). La consacrazione avviene però nel 2020, quando – terza donna dopo Nicoletta Vallorani nel 1992 e Francesca Cavallero nel 2018 – ottiene l’ambito premio Urania con il suo secondo romanzo, Resurrezione, come di consueto pubblicato l’anno successivo, nel 2021.

Elena Di Fazio, 7 settembre 2021 (dal profilo Instagram dell’autrice)

Il bombarolo, Perky Moon, Ho toccato il cielo, Lezioni sul domani, Niagara, Sette contro il mondo, La guerra è finita: sono i titoli dei sette, brevi racconti di Elena contenuti nell’antologia che da uno di essi prende il nome, vicende autenticamente fantascientifiche, talvolta di ispirazione o gusto “dickiano”, connotate da un sentimento di malinconica sconfitta, generato inevitabilmente dalla riflessione sulla paura, la meschinità, la disgrazia degli esseri umani; storie nelle quale i personaggi sono psicologicamente ben tratteggiati, attraverso brevi dialoghi o piccoli gesti, le ambientazioni e le situazioni claustrofobiche e desolate, il nostro genere condannato a vivere e rivivere una realtà senza speranza né futuro.

E se il bio-modem impiantato direttamente nel corpo delle persone per permettere loro di essere connesse con la rete fosse infettato da un virus? Un virus subdolo e potente, Il Bombarolo, capace di cancellare i ricordi, sovvertire lo spazio-tempo, produrre ombre che appaiono, e sono credute, reali? Il testo è scandito in cinque movimenti, in un crescendo di dubbi e incertezze (quasi esplicito il rimando a Impostore di Philip Dick, del 1953), cinque quante sono le regole dettate dal Ministero della Difesa per «salvarsi dal Bombarolo», che ne disvelano in lenta progressione (tecnica questa cara a Di Fazio) la natura e il modus operandi. Perky Moon è, invece, il titolo di una canzone, «l’ultimo successo di Tinetta Cham, la ragazzina con i capelli rossi che da MTV aveva colonizzato tanto il web quanto il mondo reale», un successo che letteralmente «fa impazzire i robot», in particolare quelli dell’obsoleta generazione SX, «i più datati ancora in circolazione», già utilizzati «per costruire la Colonia su Marte, quando la cupola protettiva ancora non esisteva e l’atmosfera era mortale per gli esseri umani», poi rispediti su Terra. Il Nonno è uno di questi: sa incantare bimbe e bimbi con le sue «mille storie su Marte, sulla Colonia, sull’infinita distesa di sabbia rossa del pianeta»; ma anche i piccoli umani diventano adulti e nel passaggio perdono la propria umanità («ora i miei occhi vedevano le cose in modo diverso»), umanità che, guarda caso, è trasferita a chi umano non è, a chi ora appare soltanto «un cantastorie assente che custodiva memorie lontane», sacrificabili senza rimorso o rimpianto.

Ho toccato il cielo è forse, a parere di scrive, il racconto più bello, dolorosamente bello, della silloge, della bellezza tanto cara a Faust che vorrebbe fermarla nell’attimo in cui la assapora. Ma si muore per caso, allungando il passo, senza una ragione, per la fine del mondo o forse no… Lo sanno la giovane madre Nadia, il compagno di lei, Leonard, con il quale è stato condiviso così poco, il bambino Enoa: ancora una volta tre piccole persone, sulle quali si soffermano lo sguardo e la pietas dell’autrice, in una tragedia universale. Nostalgia e straniamento connotano anche Lezioni sul domani, che presenta, in nuce, temi del primo romanzo, Ucronia: l’idea di partenza è quella della Convergenza, il collasso temporale che determina, appunto, la convergenza tra la fine degli anni Sessanta del secolo scorso e la metà del Ventunesimo secolo, con effetti letteralmente fantascientifici: «La Terra del futuro si mescola con il nostro presente: è fantascienza!» titola il Quotidiano nazionale il 9 ottobre 1968, e ancora, il 21 luglio 1969 (il giorno successivo all’allunaggio dell’Apollo 11): «la Convergenza continua a riassorbire la Terra del futuro, lasciando i suoi abitanti nel nostro tempo, senza casa e senza lavoro». Eppure, in questa contingenza eccezionale, donne e uomini tentano comunque di condurre la propria vita normalmente, ammesso che la normalità esista. Di sapore “dickiano” anche Niagara: il protagonista Brando è infatti un androide dal corpo sintetico, «endoscheletro metallico sotto il rivestimento di pelle in plastylon», che in una impossibile fuga senza fine è perseguitato da un olo-avvocato (un software implacabile e, lui sì, disumano). Anche in questa vicenda la verità si disvela poco a poco, sempre più complessa e inafferrabile, fino al colpo di scena conclusivo. Sette contro il mondo è semplicemente terribile: i sette sono Pa’ e Ma’, i gemelli Uno e Due, il piccolo Tre, la sorellina Quattro, il cane Cinque («in guerra nessuno ha un nome»); la suggestione che diventa ossessione è quella di «un vecchio film in bianco e nero che Tre non aveva il permesso di guardare, perché parlava di invasioni aliene e di orribili ultra-qualcosa» (trasparente riferimento a L’invasione degli ultracorpi, ovvero Invasion of Body Snatchers di Don Siegel, del 1956, tratto dal celebre romanzo The Body Snatchers di Jack Finney, dell’anno precedente), alieni che «prendono la forma delle persone dopo averle fatte sparire», ma che «non sono persone», nonostante ne abbiano l’aspetto, eccome se ce l’hanno…

Fotogramma dal film Invasion of Body Snatchers di Don Siegel (1956), menzionato nel racconto Sette contro il mondo di Elena Di Fazio

La guerra è finita è un sogno dentro a un sogno, o, meglio, un incubo dentro a un incubo, dal finale sospeso: l’io narrante, come gli uomini e le donne che popolano una Roma grigia e militarizzata, indossa quotidianamente una maschera antigas, «la mia seconda faccia, la meno infelice», secondo l’io narrante, un lavoratore schiavo del Reich che riceve in cambio delle proprie fatiche scarse razioni alimentari (cipolle, patate, il lusso di una scatoletta di tonno sott’olio) e vive in una Baraccopoli senza riscatto né domani. Qual è la realtà? È quella «di un’Europa ferita, di un’Italia che non ci apparteneva più», oppure quella che I difensori della Terra (titolo di un inquietante, meraviglioso racconto di Philip Dick) vogliono far credere alle sventurate creature umane?

«Quando avevo sedici anni mi hanno prestato Ubik di Philip K. Dick ed è stato subito amore» afferma Elena Di Fazio in un’intervista a minuticontati.com del 13 febbraio 2018. L’omaggio a Ubik è esplicito in Ucronia, attraverso le notizie di cronaca che scandiscono i diciannove capitoli del romanzo, stralciate dal futuribile Quotidiano nazionale, con date variabili tra 2050 e 2051, o, ancora, grazie ai passaggi pubblicitari in Carosello, sì, proprio il programma televisivo cult degli anni Sessanta: perché l’idea centrale dell’opera è proprio la Convergenza temporale, il cataclisma che ha ibridato passato e futuro, facendo sì che donne e uomini della metà del Ventunesimo secolo siano sbalzati indietro di ottant’anni e più; che intere zone di Roma – ove è principalmente ambientata la narrazione – siano inghiottite dall’altrove, lasciando le persone che le abitavano senza casa, nella condizione di sfollate; che i pagamenti siano effettuati contemporaneamente in vecchie lire o nuovi euro.

L’inizio è folgorante, straniante: la coppia costituita da Eva e Adam si muove nel reticolo sotterraneo di una Berlino del futuro, guidata da un passeur (ovvero uno Schtzgeist, spirito protettore) inseguita da droni e agenti, perché la smagliatura nel tempo l’ha intrappolata nella DDR, anche se la donna è nata trent’anni dopo il crollo del muro. L’effetto sorpresa è intrinseco al romanzo: a chi legge, dunque, è implicitamente richiesto di entrarvi prima per orientarsi poi; sarebbe scellerato in questa sede rendere ragione delle relazioni tra i personaggi, che si scoprono e acquisiscono consistenza nel corso della vicenda: oltre a Eva e Adam, il giovane Vittorio e il suo socio in (loschi) affari Fiorani, gli studenti (compagni a intermittenza) Roberto e Angela, il misterioso Roberto Maia, già agente dei servizi segreti. Nel seguirne i movimenti, occorre però sempre considerare la contaminazione tra passato e futuro, che determina l’incontro tra generazioni in apparenza coetanee, in realtà (quale realtà?) distanti, e che nessuno è chi sembra essere. Nella vicenda hanno poi spazio creature marziane, sia animali sia vegetali; le prime sono i nanuq: sei occhi, corpo molliccio, indole mite, sono proibiti dalla legge e ricercatissimi sul mercato clandestino perché le loro lacrime hanno l’effetto di potenziare la connessione alla rete umana di neuro-modem; le seconde sono le nepenthes martis, piante parlanti quasi oracolari, incapaci di dire il falso. Bellissime ambientazioni, tra cultura Sixties e cyberpunk: hippies e Woodstock, Simca 1000 e Valle Giulia, anarchismo e missione Apollo 11 di Amstrong, Aldrin e Collins da una parte, un’invasione aliena (non violenta e lisergica) dall’altra, quest’ultima sulla scorta dei classici di John Campbell, Jack Finney, Clifford Simak. In questa «storia sul cambiamento e sulla capacità di adattarsi» (definizione dell’autrice dall’intervista rilasciata nel 2018), Elena Di Fazio, pur con qualche breve cedimento e punto non risolto, si dimostra narratrice di classe. Una considerazione conclusiva: spunti, elementi, vicende sono davvero molteplici; una scrittrice statunitense ne avrebbe fatto una serie di mille pagine, ma che Elena non abbia ceduto alla tentazione della mole è un bene.

Copertine dei romanzi Ucronia (Delos Digital 2017) e Resurrezione (Urania 1696 del novembre 2021) di Elena Di Fazio

Se il testo breve Lezioni sul domani è la premessa di Ucronia, Campi di fragole è quella di Resurrezione: nel racconto sono infatti presenti luoghi (in particolare l’immaginaria Isla de Fresas, posta nell’Atlantico) che saranno centrali nel romanzo vincitore del Premio Urania. Pubblicata nel 2017 in Materia Oscura, la short story è giocata sulla teoria degli universi paralleli: nel primo il volo Aerolíneas Sur 327 in partenza da Buenos Aires va incontro a un destino, nel secondo a un altro. Non è dato sapere ai 226 passeggeri (225, uno manca all’appello…) se si trovino “di qua” o “di là”, se non ponendo una domanda chiave ai propri interlocutori, ovvero «Chi è Ronald Reagan?»; dalla risposta («Il quarantesimo presidente degli Stati Uniti» oppure «Un attore») potranno dedurre la propria collocazione, con la consapevolezza che non esiste una sola risposta corretta, così come non esiste una storia sbagliata, perché «di storia ce n’è più d’una», e ad alcuni pochi “scivolatori” è permesso passare dall’una all’altra, attraverso varchi nello spazio-tempo. Ottima ambientazione, personaggi intensi, intreccio avvincente, riflessione filosofica, scrittura efficace: Elena Di Fazio è pronta a compiere il grande balzo che la porta a Resurrezione.

«L’alieno è l’allegoria dell’altro, diventa uno specchio più o meno distorto attraverso cui parlare dell’essere umano» (da un’intervista a Filippo Radogna per lazonamorta.it, ascrivibile al 2021): originale, avvincente, ben scritto, non sorprende che Resurrezione abbia vinto il Premio Urania.
L’originalità risiede nella natura dei pemberiani, alieni di forma geometrica (tetraedri di ascendenza platonica) provenienti da una luna abitata di Upsilon Andromedae d. A, che giungono su Terra in nove delegazioni successive attraverso un wormhole, un corridoio spazio-temporale; e anche nell’approccio multidisciplinare con cui gli alieni sono avvicinati dagli umani nel centro di ricerca fondato su Ile des Fraises, nell’Atlantico: militari, in primis, ma anche esobiologhe, linguisti, filosofe, religiosi e… uno scrittore di fantascienza, perché, chissà – dice la protagonista Aurora Ferlito –, magari «sarebbe più qualificato di noi», privi delle «adeguate categorie mentali» per comprendere l’altro. Originale è la protagonista, un’antieroina «alta e smilza con gli occhiali e l’espressione di chi è costantemente braccato da un fantasma», con un vissuto doloroso e una radicata paura di affrontare la vita e assaporarne la bellezza (incarnata nelle fragole dolcissime che crescono sull’isola), al contrario dell’amica antagonista Gaia Vallauri (entrambi i nomi riecheggiano opere di Frederick Nietzsche); originale è la capacità di inserire in modo credibile riflessioni sui grandi interrogativi umani, il senso della vita e il perché della morte, il rapporto tra corpo e anima, l’incomprensione sempre in agguato: il perno della narrazione è infatti un tragico fraintendimento, «l’ingrediente principale di un sacco di conflitti», perché «parlarsi è un continuo lavoro di interpretazione e riscrittura del messaggio altrui. La comprensione reciproca è utopia». Il romanzo è avvincente in quanto dotato di un solido impianto thriller, movimentato nell’alternarsi della narrazione principale (passato) e degli opprimenti intermezzi (presente), ricco di colpi di scena, capace di aprire progressivamente a risposte che giungono a comporre l’insieme e a dargli significato, con un finale al cardiopalma, che pure sa sciogliersi in una parola ineffabile. Infine, Resurrezione è ben scritto (grande qualità) e dotato del raro dono di coniugare lessico puntuale e rigoroso, sintassi impeccabile e scorrevolissima, piena comprensibilità. Dopo la recente pubblicazione del racconto di gusto solarpunk Sorelle della prateria (Delos Digital, 2022) non resta ora che attendere il terzo romanzo di Elena Di Fazio.

«La Romagna rappresenta la mia connessione con l’infanzia e l’adolescenza: qui ho vissuto fino a diciannove anni e qui sono tornata a trenta. Ho ricordi vividi di quando la mia famiglia mi portava in giro per i boschi e i piccoli paesi del territorio»: parla Elisa Emiliani (a chi scrive, il 16 aprile 2022), giovane autrice nata a Faenza il 6 settembre 1986 e che a Faenza risiede, come Elena Di Fazio, e che, come quest’ultima, è stata fulminata sulla via della fantascienza dalla lettura di Philip Dick, al quale ha dedicato la propria tesi di laurea, suscitando – come lei stessa afferma − «più sdegno che entusiasmo» (dalla scheda che le ha dedicato Romina Braggion nel Diario di ErreBi, rubrica La Metà del Mondo, il 26 novembre 2019). E chissà che tra le due autrici faentine non nasca una bella collaborazione letteraria…

Dopo il liceo, Elisa frequenta l’Università degli studi di Torino, laureandosi in filosofia e specializzandosi in semiotica; si trasferisce in Inghilterra e, successivamente, in Galizia, per poi fare ritorno in Romagna, ove «l’aria è più dolce e l’estate è più bella» e ove sono ambientati i suoi testi di genere science fiction, quelli presi in esame in questa sede (ha scritto anche weird e thriller). Vive ora nuovamente a Faenza con il marito, il pittore Martino Neri; lavora come freelance per organizzazioni del terzo settore, occupandosi di progettazione europea, coaching e mentoring per gruppi internazionali, di orientamento per lo Sportello Informagiovani della sua città; si definisce «scribacchina con una musa capricciosa» (così sul suo sito verdeinchiostro.academy) e si dedica alla scrittura come a «una pratica spirituale, quasi una religione».

Elisa Emiliani alla Quinta da Regaleira, Sintra (Portogallo), nel 2018 (archivio Elisa Emiliani)

Il paesaggio romagnolo, dunque, è ben riconoscibile in Cenere, il romanzo d’esordio di Emiliani, pubblicato da Zona 42 nel 2019 (è scritto però qualche anno prima), che ne consacra l’affermazione. È un’opera sulla libertà (insopprimibile), sulla responsabilità (nei confronti di sé e degli altri, le altre), sulla resistenza (agita per scelta): tre le protagoniste, giovanissime di sedici o diciassette anni (l’amicizia è altro tema forte nella vicenda), che vivono e sopravvivono in una società distopica, collocata in un futuro indeterminato ma per molti aspetti assai simile al presente, nelle sue tentazioni sovraniste e totalitarie. Ash (Maddalena il nome di battesimo, assai poco amato: meglio il soprannome, che significa cenere), la Reba (all’anagrafe Rebecca) e Anna frequentano il liceo; e sono amiche – con la dedizione assoluta propria dell’adolescenza − a dispetto delle famiglie di origine, rispettivamente di ribelli attivi contro il governo corporativista imperante, di persone rassegnate alla povertà e al conformismo per necessità, di dipendenti ben inquadrati nel sistema capace di inglobare «ogni forma di dissenso». Lo sguardo privilegiato è quello di Ash – «pallore vampiresco, capelli rosso fuoco (tinti), stivali texani di cuoio (veri)» −: contraddittoria, disincantata, generosa, la giovane non esita a «bere, masticare cristalli, mangiare patatine» (il liquore è distillato in famiglia, lo stupefacente sintetizzato da lei stessa); a sostenere l’amica Reba nell’acquisto di nuovi, indispensabili impianti che le consentano di camminare; a ripercorrere la storia di persone invise al regime in cerca della «più fornita biblioteca di libri proibiti del mondo. O d’Italia, comunque». Con la leggerezza dolorosa e un po’ folle di chi non teme la morte, di chi sa che vi sono contingenze in cui la scelta è indifferibile e che il tempo non è molto, Ash percepisce «che le persone diventavano più accorte riguardo alla propria vita man mano che invecchiavano. Quindi le cose eroiche bisognava farle prima. Prima che quell’incrostazione di attaccamento alla vita ti si appiccicasse addosso. Prima di avere delle responsabilità, o qualcuno da perdere». Intorno a lei le amiche e altri personaggi intensi ed emozionanti: il padre Tommaso, ruvido e insieme affettuoso («artigiano in un contesto rurale di dissesto socio-economico»), la saggia anziana Maria, lo «smanettone nerd» Sam, il fuggitivo suonatore di viola Alessandro e, con la sua musica, il cantore degli ultimi Johnny Cash, in un contesto di comunità ove nuove tecnologie e realtà virtuali convivono con motorini Gilera e panini con la frittata. Cenere è un romanzo di pensiero piuttosto che di azione, per quanto vi sia nell’ultima parte un’accelerazione che forse non giova all’equilibrio interno; presenta alcune idee originali, altre che attingono dal patrimonio della letteratura speculativa e non solo (Ray Bradbury e Hannah Arendt, di cui è ricordato La banalità del male, del 1963); è scritto in una prosa asciutta, mimetica del parlato giovanile, con frequenti spezzature, di grande espressività.

Copertine del romanzo Cenere (Zona 42 2019) e del racconto lungo Johnny Parafango (Delos Digital 2021) di Elisa Emiliani

Nel 2019 Elisa Emiliani pubblica il breve racconto di fantascienza sociale e resistenza possibile L’attesa (nell’antologia Italia futura presente, già menzionata), quindi, nel 2021, per Delos Digital, il racconto lungo Johnny Parafango: come recita il lancio sulla copertina, il protagonista «ha quattordici tatuaggi, legge Bakunin e può vedere il futuro». Lo scenario è ancora una volta l’entroterra romagnolo (il paese di Russi, nel Ravennate, qui «declassato a frazione»), con le strade deserte e le casette di pietra, i bar modesti e i circoli anarchici; il tempo è quello successivo alla metà di questo secolo: una bella storia, densa di emozioni trasmesse dai personaggi caratterizzati con pochi tratti efficacissimi (ed effettivamente «indimenticabili»), dalle atmosfere autentiche e riconoscibili, per quanto proiettate tra qualche decennio. La vicenda è scarna ma la regia narrativa sicura: l’affetto che muove Johnny, che gli fa fronteggiare e affrontare il volto violento del potere, è per la figlia Mariangela, la Mari: per lei questo padre di «cinquant’anni suonati» − che si lega i capelli «in una coda strettissima» e che, con Bakunin, identifica lo stato con «forza, autorità, predominio» e dunque «ineguaglianza di fatto» − vorrebbe una vita «leggera, luminosa», la vita degna alla quale l’umanità ha diritto e per la quale, nella narrativa della scrittrice, si sceglie la resistenza e la lotta.

In copertina. Gino Andrea Carosini, Elena Di Fazio, Elisa Emiliani, Giulia Abbate.

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Articolo di Laura Coci

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Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.