Fantascienza, un genere (femminile). Sara Pinsker, Aliette de Bodard, Amal El-Mohtar

Sarah Pinsker è statunitense, ha quarantacinque anni, ha all’attivo tre Nebula Awards (il riconoscimento attribuito da scrittori e scrittrici di ambito science fiction all’opera di uno o una di loro edita nell’anno precedente) e un Hugo Award (assegnato dal pubblico presente al Worldcon, convention annuale delle persone appassionate del genere, con la medesima modalità): nel 2016 per la novelette (racconto lungo) Our Lady of the Open Road, nel 2020 per il novel (romanzo) Song for a New Day, nel 2021 per la novelette Two Truths and a Lie (quest’ultima sia Nebula sia Hugo).

Una precisazione: l’anno di riferimento indicato talvolta è discorde: entrambi i premi, infatti, sono attribuiti l’anno successivo rispetto a quello di pubblicazione (quello dell’assegnazione è il criterio seguito in questa sede).

Sarah Pinsker in una fotografia di Karen Osborne del 2020 circa

In Italia sono stati pubblicati i due racconti lunghi, entrambi dalla rivista Robot: Nostra signora della strada nella traduzione di Marco Crosa sul numero 78 dell’estate 2016, Due verità e una bugia nella traduzione di Annarita Guarnieri sul numero 93 dell’autunno 2021.

Nostra signora della strada è una vicenda on the road che ha per protagonista una band sgangherata e vivace, i Cassis Fire: Luce, cantante e chitarrista («la nuova Joan Jett, il secondo avvento di riot grrl») e convinta no-com (utilizza ostinatamente il contante e rifiuta lo star system), Silva al basso elettrico, Jacky alla batteria. Il gruppo attraversa gli States sul vecchio, amato furgone Daisy, dal motore alimentato con olio vegetale esausto (idea, questa, che risale allo stesso Rudolf Diesel), mangiando cibo di risulta, pagando un’ora di soggiorno in motel per una doccia di pochi minuti ciascuno, constatando di persona il degrado e la solitudine della comunità sociale, suonando dal vivo in locali improbabili (come non sorridere al ricordo dei Blues Brothers?), orgogliosamente non piegandosi al «lato oscuro» dell’industria musicale, lo StageHolo, che propone l’esibizione di ologrammi anziché di artisti in carne e sangue, perché non c’è tecnica in grado di eguagliare «il dolce crepitio da vecchia scuola della mia [Gibson] Les Paul che usciva dai tubi del Marshall, le note sinuose del basso di Silva, il ritmo insidioso di Jacky».

Nella vita reale Sarah Pinsker – nata a New York l’8 aprile 1977, risiede a Baltimora – è leader di una garage band, gli Stalking Horses, a dire il vero piuttosto anonima, che ha per modello di riferimento la E Street Band di Bruce Springsteen, per altro ampiamente menzionato nel racconto (l’anno di ambientazione, il 2030 circa, si deduce dall’età che avrebbe il Boss se fosse ancora vivo): l’idea di partenza della novelette è simpatica, le descrizioni sono efficaci ed è sacrosanta, almeno per chi crede nella musica come condivisione di emozioni ed esperienze, la critica all’orrenda moda della “resurrezione digitale” di musicisti che non sono più, iniziata negli Stati Uniti nel 2012 e culminata nel 2019 con il tour dell’ologramma rock di Frank Zappa (che ci lasciò nel 1993). È noto, poi, che la fantascienza è un genere fluido, ma i riferimenti specifici sono davvero residuali (non basta certo la menzione di «memorie neurali a basso costo»); ancora, nella seconda parte il racconto perde compattezza e il finale, oltre che assolutamente prevedibile, sarebbe forse accettabile per un non professionista: per un Nebula Award è francamente imbarazzante.

Gli Stalking Horses, il gruppo di cui Sarah Pinsker è la leader, nella fotografia di copertina della propria pagina Facebook (www.facebook.com/stalkinghorses/)

Vale ancora meno Due verità e una bugia, racconto dark fantasy o horror che dir si voglia: costruito assemblando idee e suggestioni molteplici, la sensazione di déjà vu che tormenta la memoria della sventurata filologa è costante, tanto che l’indicazione degli ascendenti della vicenda richiederebbe tanto, troppo spazio in relazione al valore della novellette, che pone al centro la quarantenne bugiarda seriale Stella e un inquietante reality degli anni Ottanta del secolo scorso, Uncle Bob Show, scomparso dalla rete ma ancora presente con i suoi effetti nefasti nelle vite di bambine e bambini che vi partecipavano.

La legge di Sturgeon, nella sua riformulazione semplificata, recita: «il 90% della fantascienza è spazzatura; però, in effetti, il 90% di tutto è spazzatura». È vero, ma da un Nebula e Hugo Awards sarebbe legittimo aspettarsi un po’ di più. E tuttavia la lezione è necessaria e salutare: consente una valutazione oggettiva dello stato della science fiction statunitense, tuttora dominante; invita a guardare alle culture altre e a dialogare con loro (il che avviene grazie alla collana Future Fiction a cura di Francesco Verso); permette di apprezzare le scrittrici italiane della generazione di Pinsker (quarant’anni o poco meno, cinquant’anni o poco più), le nostre Valeria Barbera, Romina Braggion, Francesca Cavallero, Giulia Abbate, Elena Di Fazio, dotate di originalità e talento, in grado di costruire testi coerenti e coesi, capaci di trasmettere emozioni autentiche, in una parola, veramente brave (e meritevoli di ben altri riconoscimenti)!

In Francia la fantascienza vanta una tradizione di lunga data, che precede quella italiana: Fleuve Noir Anticipation, la leggendaria rivista dell’immaginario francofono, inizia le sue pubblicazioni nel settembre 1951, un anno prima rispetto a Urania (ottobre 1952) e contribuisce a creare una scuola che privilegia la dimensione dell’avventura fantastica rispetto a quella tecnologica.

Soprattutto agli esordi, non sono molte le autrici pubblicate: a partire da Nathalie Henneberg (1910-1977, in sodalizio con il marito Charles, il che rende arduo individuarne la produzione), Chris [Christine] Renard (1929-1979, edita prima in Italia che oltralpe), Joëlle Wintrebert (nata nel 1949, purtroppo poco tradotta nella nostra lingua), per giungere, in tempi più recenti, a Sylvie Denis (1963), Jeanne-A Debats (1965), Catherine Dufour (1966), pressoché sconosciute a lettrici e lettori italiani.

Pur essendo francofona e pur avendo eletto Parigi a propria città (qui vive e lavora), Aliette de Bodard non appartiene a questa tradizione importante: scrive infatti in lingua inglese (che possiede perfettamente) e pubblica (tanto, tantissimo) negli Stati Uniti, ove incontra notevole successo; è considerata «uno dei nomi di maggior rilievo nella fantascienza contemporanea emergente», secondo il suo editore italiano, Delos Digital, che, avvalendosi delle traduzioni di Marco Crosa, ne ha proposto un romanzo e sette racconti (altri tre, nella traduzione di Annarita Guarnieri, sono compresi in antologie Urania Millemondi).

Aliette de Bodard in una fotografia di Lou Abercrombie del 2015 circa

Nata a New York il 10 novembre 1982, di padre francese e madre vietnamita, Aliette trascorre l’adolescenza tra Parigi e Londra, ricevendo una formazione francese di alto livello («a French upper-class upbringing», la definisce in un’intervista rilasciata nell’ottobre 2009 a Dario Ciriello di Internet Review of Science Fiction): frequenta il Lycée Français Charles de Gaulle di Londra e il Lycée Louis le Grand di Parigi; è ammessa alla prestigiosa Ecole Polytechnique, ove studia informatica e matematica applicata, impiegandosi poi come system architect, ovvero progettatrice di sistemi informatici, e dedicandosi alla scrittura. Vive «in un appartamento con più computer che persone e con una serie di piante tentacolari lovecraftiane che tentano di prendere il sopravvento. – così sul proprio sito aliettedebodard.com − Nel poco tempo libero che le rimane, si occupa dei bambini e cucina piatti franco-vietnamiti». L’amore per la science fiction data agli anni del liceo londinese: dopo il ciclo robotico di Isaac Asimov e quello di Ursula Le Guin dedicato a Earthsea (da lei, nell’intervista dell’ottobre 2009, afferma di avere imparato molto in termini di «prospettiva sulle relazioni, le società e i ruoli di genere»), legge l’opera omnia di Orson Scott Card, compreso il saggio didattico How to Write Science Fiction and Fantasy (Come scrivere di fantascienza e fantasy), grazie al quale matura la consapevolezza di poter diventare scrittrice a sua volta. L’esordio data al 2006 e consta di alcuni racconti: da allora non si è mai fermata.

Non è questa la sede per compulsare in modo esaustivo il catalogo dell’opera di de Bodard (al quale è dedicata una specifica voce di Wikipedia, che può essere collazionata con quella presente sul sito di lei). Basti ricordare che dal 2006 al 2021 l’autrice pubblica una prima serie di tre romanzi, Obsidian and Blood (2010-2011), di ambientazione neo-azteca, cui si uniscono tre short stories; e una seconda, Dominion of the Fallen (2015-2019), con sette short stories; due romanzi sciolti (nel 2018 e nel 2021); quattro romanzi brevi di Xuya Universe (tra 2012 e 2021, di cui soltanto il primo tradotto in italiano) e, in questo stesso ambito, ventinove racconti; vi sono, infine, sessantanove other short stories non riconducibili ad alcuna serie.

Proporzionato il numero dei premi e delle nomination: dieci i primi, diciannove le seconde; in particolare si segnalano il Nebula e il Locus Award per Immersion (short story), nel 2012, e ancora il Nebula Award nel 2013 e nel 2018 rispettivamente per The Waiting Stars (novellette) e The Tea Master and the Detective (novella).

«Xuya è una serie di romanzi brevi e racconti ambientati lungo una linea temporale in cui l’Asia è dominante e ove l’era spaziale prende forma in imperi galattici confuciani, di ispirazione vietnamita e cinese: intellettuali amministrano i pianeti e astronavi senzienti si ascrivono a genealogie familiari»: è questo l’inizio della presentazione redatta per il proprio sito da Aliette de Bodard relativa al ciclo di Xuya, al quale appartengono quasi tutti i suoi testi tradotti in italiano; a dire il vero tale presentazione è molto più estesa e articolata e comprende un denso Kit di partenza, nonché Note sulla cronologia e Cronologia propriamente detta. Ancora una volta, basti qui ricordare che la premessa è che una flotta dell’impero cinese sia approdata nelle Americhe prima della spedizione guidata da Cristoforo Colombo, mutando il corso della storia planetaria secondo lo schema di una classica ucronia.

Aliette de Bodard in una fotografia di Chloe Vollmer Lo del 2020 circa, per il sito dell’autrice aliettedebodard.com

The Jaguar House, in Shadow (La casa del Giaguaro, nell’ombra, Delos Digital 2017) è un racconto del 2010 che formalmente appartiene alla serie, per quanto l’ambientazione sia azteca, con richiami al grande impero Mexica e all’antica capitale Tenochtitlán, nonché alla cultura religiosa di quel popolo, con sacrifici rituali al dio sole e ossessione per la fine del mondo («Tonatiuh ha bisogno di sangue per continuare a brillare su di noi. Nonna Terra ha bisogno di sangue per far nascere frumento, cotone e nanomacchine»). L’elemento di novità consiste nell’elevare al ruolo di protagoniste donne guerriere: Onalli e Tecipiani sono portatrici di visioni differenti e inconciliabili dell’identità e dell’onore; si scontrano in un duello combattuto con le armi e con le parole, in una vicenda in cui i piani temporali si alternano rendendo ragione dell’inevitabile corrompersi e decadere delle civiltà. Atmosfera simile – per quanto il racconto sia catalogato tra gli Others − in Prayer of Forges and Furnaces (Preghiere di fucine e fornaci, Delos Digital 2015), «una storia steampunk azteca, immagino?» secondo la definizione di de Bodard. La storpia, povera ed emarginata Xonochipil (per vivere vende oggetti di risulta) si trova suo malgrado al centro della lotta tra il dio-macchina e gli antichi dei: uno di questi si manifesta nello «straniero», «fuggiasco», «eretico» al quale lei dà rifugio nella propria squallida stanza sotto l’imboccatura del Pozzo di Mictlan. È preferibile un dio-macchina, che fa «tremare la terra riempiendo di energia i binari» tuffati «nell’oscurità vertiginosa sotto la superficie», oppure un dio «crudele, perverso e spietato», che tuttavia «ha buona cura dei suoi seguaci»?

Il 2010 è anche l’anno di The Shipmaker (La creatrice di astronavi, Delos Digital 2015), che dà propriamente inizio all’universo Xuya e alle sue navi senzienti, strutture biomeccaniche nel cuore delle quali è posta una mente umana, generata con dolore da una donna. Questo universo, con i suoi abitatori e strumenti, le sue guerre e nazioni, si viene definendo progressivamente, di racconto in racconto (almeno per quanto è dato comprendere dai testi tradotti e pubblicati in Italia): così in Two Sisters in Exile (Due sorelle in esilio, in Urania Millemondi 66 del febbraio 2014), ove si apprende che «le Menti nascevano in un grembo umano, prima di essere impiantate nelle navi, e questo le rendeva membri di una stirpe». Pur essendo teoricamente destinata a una vita senza fine, se la nave è colpita nella «stanza del cuore» ove risiede la mente che la anima, «nella sua culla di fibre ottiche», nulla può impedirne la morte. Ecco, dunque, in seguito alla morte accidentale di una nave, a fronteggiarsi Nguyen Dong Huong, guerriera del popolo Nam, e Rong Ahn, portavoce del pacifico popolo del Nord: due concezioni della vita antitetiche, con filosofie e rituali profondamente diversi, e un folgorante pensiero conclusivo, che fa comprendere come una dissertazione accademica sulla pace e sulla convivenza diventi un selvaggio grido di guerra quando si è colpiti nel profondo. Un finale straordinario, da non rivelare, connota anche The Waiting Stars, del 2013 (Le stelle che ci aspettano, in Robot 72 dell’autunno 2014), dando senso al doppio binario narrativo che vede protagoniste da una parte le giovani cugine Lan Nhen e Cuc, impegnate in una missione di salvataggio della Mente di una nave ferita e abbandonata, dall’altra le giovani collegiali Johanna e Catherine, sottratte bambine alle famiglie d’origine in nome di un bene superiore. Il racconto – tra i più belli ed emozionanti della scrittrice – è una trasparente allegoria del colonialismo, che volontariamente distrugge le culture native rubandone anche, in questo caso, memorie e ricordi, cancellandone l’identità. Eppure, ogni persona, ogni stile di vita, ogni specie ha in sé del buono, che inevitabilmente andrà perduto quando si dovrà scegliere tra due appartenenze, quando si dovrà optare per il proprio nome (l’antico o il nuovo) nella consapevolezza che non è possibile mantenerli entrambi e che, d’altra parte, ricordare il nome dato dalla madre significa riappropriarsi di sé. Ship’s Brother, del 2014 (Fratello della nave, Delos Digital 2015) conclude idealmente questa silloge di quattro, affrontando il tema della nascita della mente di una futura nave dal punto di vista della madre umana e del fratello, pure umano, di quella.

«Sono una costruttrice di mondi ossessiva: impiego di solito molto tempo nel ricercare e raccogliere informazioni per creare un mondo, un sistema di credenze, un sistema politico», dichiara de Bodard in un’intervista rilasciata nel dicembre 2011 a Jeremy L.C. Jones di clarkesworldmagazine.com: questo interesse è evidente nell’unico romanzo apparso in Italia − On a red station, drifting (letteralmente Su una stazione rossa, alla deriva), del 2012 − con il titolo Stazione rossa, Delos Digital 2013, con la forza di una nomination ai premi Hugo, Nebula e Locus.

Silvio Sosio, presidente di Delos Digital, con Aliette de Bodard alla prima edizione di Stranimondi (Milano, 10 ottobre 2015): il libro che Sosio tiene tra le mani è Stazione rossa

Più che per la vicenda in sé − che ancora una volta (e non è l’ultima) oppone due donne legate da parentela ma distanti per carattere, ruolo sociale, visione del mondo, della comunità, della famiglia – l’opera si segnala per la sontuosa ambientazione nella cultura Dai Viet (il regno vietnamita del sud est asiatico fiorito nell’arco temporale tra X e XIX secolo): cerimoniali, liriche, vesti, profumi e naturalmente gastronomia (aglio, citronella, salsa di pesce simile al garum di Roma antica) sono descritti con cura e finiscono per prevalere sull’esilità dell’intreccio. Protagoniste sono Le Thi Linh, magistrata in fuga dal Ventitreesimo Pianeta, e la cugina di lei Le Thi Quyen, destinata per la sua mediocrità a essere «coniuge secondaria in qualunque matrimonio», che si trova ad amministrare la stazione di Prosperità, in un rigido sistema familiare nel quale le donne sostituiscono gli uomini in una linea matriarcale che non sa evitare gelosie e intrighi, guerra e morte, un sistema ormai lontano dalla «Vecchia Terra» ma che terribilmente la ricorda nei suoi aspetti peggiori: il controllo oppressivo del potere e l’eliminazione dei dissidenti. La stazione è posta sotto il controllo saggio ma onnipresente, e perciò soffocante, dell’Onorevole Antenata, «non abbastanza umana da capire relazioni e sentimenti», che inizia a mostrare – diciamo − segni di demenza senile; tutte e tutti, poi, hanno impianti memo innestati nel cervello, che li pongono in diretto contatto con antenate e antenati, con l’effetto di un brusio di fondo che può essere rassicurante ma anche fastidioso. I sentimenti prevalenti nel romanzo sono la nostalgia e l’ineluttabilità, per ciò che di bello è stato e non sarà più, a causa della pazzia della guerra e della stoltezza del genere umano: Linh, con dolore, pensa «ai lunghi pomeriggi sotto il sole rosso, a guardare le nuvole muoversi alla deriva sul volto del cielo; alle voci che ridevano, ai calici che tintinnavano quando venivano riempiti di vino; ai bigliettini tirati fuori dai cappelli da funzionario e alle poesie scritte nell’ardore dell’alcol di riso. Tutte cose da cui era fuggita, tutte cose che la guerra aveva inghiottito e masticato nelle sue fauci fino a ridurle in polvere».

È il senso di perdita la cifra migliore di Aliette de Bodard, che, altrimenti, non offre molto di più rispetto alle opere di successo della science fiction statunitense, che finiscono per sovrapporsi tanto sono stereotipate nella costruzione delle vicende, nell’alternarsi di punti di vista e piani dello spazio-tempo, nella descrizione di ambienti, poco importa se occidentali o meno, anzi, l’esotismo rappresenta un elemento di curiosità per il lettore o lettrice di altra cultura (come avviene per i testi africaneggianti di Nnedi Okorafor), ma non è un valore in sé, se non è accompagnato da originalità inventiva e soprattutto da autentico talento.

Immersion, pure del 2012 (Immersione, in Robot 70 dell’autunno 2013), disegna un ambiente leggermente diverso rispetto ai precedenti: un ristorante forse cinese, comunque orientale, trasposto in una dimensione galattica, gestito da una famiglia nella quale, come sempre, le esigenze della collettività sono anteposte a quelle del singolo, con odori e sapori di cucina speziata, ospiti di riguardo e trattative di rito. Il vero tema, però, è quello del vissuto di inferiorità del dominato nei confronti del dominante, sia questo persona o cultura, del travestimento (mediante uno strumento tecnologico denominato “immersore”, capace di creare avatar credibili ma divoranti) che porta a negare sé e la propria origine. Occorre riconoscere l’altro per accettare la propria identità, saper ascoltare ma anche saper chiedere, affrontando il dolore e iniziando un percorso di rinascita, reso possibile dalla solidarietà tra donne. È quello che accade tra Agnes – no, non è il suo vero nome, ma è «l’unico che Galen e i suoi amici riescono a non storpiare quando lo pronunciano» − e le giovani sorelle Quy e Tam, che saranno di grado di riportare la donna a sé, all’accettazione della propria cultura Rong pur essendo sposa di un Galattico, e «ci vuole un Galattico per credere di poter prendere un’intera cultura e ridurla ad algoritmi». Aliette de Bodard stessa offre del testo una chiave di lettura convincente, nell’intervista del 2009: «i personaggi delle mie storie alternative sono tutti immigrati che tentano di farsi una vita nel nuovo paese e si relazionano in modo diverso con la propria origine». Il che vale, naturalmente, anche per lei stessa, come dimostra il racconto Scattered Along the River of Heaven, del 2012 (Lungo il fiume del cielo, Delos Digital 2016), «la prima storia che ho scritto a farmi veramente male, perché è così intima… parla di diaspora e memoria» (e della tragedia del popolo vietnamita nella seconda metà del Novecento), dichiara presentandola sul proprio sito. Tre generazioni di donne a confronto: Xu Anshi, la figlia Ming Xia, la nipote Xu Wen: la prima poeta e rivoluzionaria, fuggita dall’oscura prigione totalizzante di Pino frantumato con la compagna di lotta Zhiyng, «condottiera cupa e intensa», alla quale sarà poi opposta da una diversa idea di governo del proprio mondo liberato dall’oppressione; la seconda incapace di comprendere la madre (quella «vecchia zuccona»), la sua ostinazione rivoluzionaria e il suo intangibile senso della giustizia; la terza, infine, alla quale è affidato il compito della riconciliazione, lasciando andare «gli odi del passato» e guardando al futuro. «Sia mia madre vietnamita sia mia nonna hanno avuto un ruolo importante nella mia formazione […] − dall’intervista del 2009) − Sono figlia di due mondi e tento di fare carriera in un terzo».

Copertine di racconti di Aliette de Bodard pubblicati da Delos Digital; da sinistra: Immersione (2014), Preghiere di fucine e fornaci (2015), Lungo il fiume del cielo (2016)

A salvaging of ghosts, del 2016 (Recuperare gli spettri, in Urania Millemondi 80 del marzo 2018) è un racconto bellissimo, poetico, struggente: Thuy e la figlia Kim Anh sono tuffatrici che recuperano dalle navi alla deriva nello spazio frammenti di vita che fu, cannibalizzando i morti e sapendo «che un giorno quei morti potrebbero essere loro», quando «quell’ultima immersione ti uccide e lascia il tuo corpo là nel buio». È quanto accade alla giovane Anh, della quale Thuy tenta con lucida disperazione di recuperare le “gemme” che furono il suo corpo, sfuggendo agli «strati di irrealtà, del tutto inadatti all’esistenza umana». Al centro della vicenda il dolore immenso di una madre che perde la figlia – «bambina» per sempre − la profezia che porta alla morte, il desiderio umanissimo di serbare per sé un che di materiale della persona amata, ma anche la necessità di lasciar andare chi non è più, elaborare il lutto, continuare a vivere. L’ultimo racconto di Aliette de Bodard pubblicato in Italia (in Urania Millemondi 86 del marzo 2020) è The dragon that flew out of the sun (Il drago che volò fuori dal sole), del 2017: un apologo sulla follia della guerra, sulla necessità di ascoltare le ragioni di entrambe le parti in contesa (qui incarnate nella bimba Lan, del popolo aggredito Khiet, e nel bimbo Vien, del popolo aggressore Ro), sulla paura che genera odio e sulla colpa: e questo basta a rendere il testo di straordinaria, intensissima attualità.

Amal El-Mohtar, nella propria carriera di autrice, unisce due lingue e due culture: nasce a Ottawa, Canada, il 13 dicembre 1984 da genitori libanesi, transfughi negli anni della sanguinosa guerra civile che sconvolge la nazione, tra il 1975 e il 1990: basti qui ricordare l’invasione da parte della Siria nel 1976 e quella da parte di Israele, limitata, nel 1978 e dell’intero paese nel 1982, nonché, nello stesso anno, l’attentato che provoca la morte del presidente neoeletto Bashir Gemayel, attribuito alla componente siriana, e la strage nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, a opera degli estremisti cristiano maroniti con la complicità dell’esercito israeliano. A sei anni e mezzo (come lei stessa dichiara in un’intervista a storyological.com ascrivibile al 2017), dunque nel 1991, Amal torna in Libano con la famiglia e qui rimane fino al 1993 (farà poi ritorno in Canada, ove vive tuttora); è un periodo breve ma importante per la formazione della futura scrittrice: «sento davvero che gran parte della mia infanzia è là», dichiara. Nella terra d’origine, si innamora di Tolkien e dello Hobbit («il mio libro preferito di tutti i tempi»), scopre la mitologia, alla quale si appassiona, legge poesia romantica (The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge recitata dal padre è per lei «una sorta di favola della buonanotte») e inizia a comporre liriche in proprio, tanto che negli anni 2009, 2011 e 2014 si aggiudica il Rhysling Award per la miglior poesia breve di argomento science fiction, fantasy, horror («ho sempre avuto interesse per la magia, l’occulto, il sovrannaturale»). Dal febbraio 2018 è editorialista del New York Times (per la prestigiosa testata cura la rubrica Otherworldly).

Amal El-Mohtar in una fotografia pubblicata sul proprio profilo Twitter il 7 luglio 2018 (twitter.com/tithenai)

Autrice soprattutto di short stories, si afferma nel 2015 grazie alla vittoria del Locus Award con il racconto The Truth About Owls (La verità sui gufi, in Robot 77 della primavera 2016, traduzione di Marco Crosa), nel quale la fantascienza è occasione per esprimere il dolore di un’adolescente migrante, in equilibrio, appunto, tra due lingue e due culture: la protagonista Anisa, che impara a non odiare i propri occhi neri, è infatti proiezione di Amal stessa (pur, ovviamente, con alcuni distinguo). È «la Bambina Venuta dalla Guerra», da un paese «che è ogni giorno nei notiziari, ogni giorno un mosaico di esplosioni e conteggi di vittime, ogni giorno oggetto delle opinioni di qualcuno», da una terra, però, in cui si può essere felici, in cui vive la famiglia allargata e accogliente, antitetica rispetto all’ostilità che la piccola, poi adolescente, percepisce nella nazione di arrivo, ove si avverte come inesorabilmente diversa e sbagliata provando un senso di inadeguatezza e colpa tanto forte da ascrivere a sé stessa il male che accade intorno a lei. Saranno l’amicizia con una donna di colore (altra minoranza!), custode allo Scottish Owl Center, lo studio da autodidatta del gaelico («una lingua che sembra inglese ma suona come l’arabo») e l’empatia con questi uccelli predatori e notturni a condurla all’accettazione di sé e della propria esistenza non più divisa.

Il racconto Season of Glass and Iron, del 2016 (Stagioni di ferro e vetro, in Robot 82 dell’autunno 2017, traduzione di Marco Crosa), le vale Nebula, Hugo e Locus Award l’anno successivo: si tratta in sostanza di un mashup di fiabe scritto per la nipotina di sette anni. La consapevolezza che muove El-Mohtar è che non vi sono fairy tales in cui le donne siano amiche e non rivali, mentre al contrario vi sono moltissime «storie di donne in attesa di essere salvate, di essere scelte, di essere unite a un marito»: eccola, allora, a unire due fiabe della tradizione popolare europea, quella dello sposo animale e quella della principessa sul monte di cristallo. La prima è scelta nella variante del marito orso (in Italia è diffusa, invece, quella del re maiale), che di notte si trasforma in uomo e che alterna comportamenti gentili e affettuosi ad altri violenti e offensivi nei confronti della moglie, la quale, se vorrà liberarlo dall’incantesimo, dovrà consumare sette paia di scarpe di ferro (come recita una celebre poesia carducciana); la seconda presenta invece lo stilema della bella desiderata da tanti che andrà in sposa a chi darà prova del proprio valore scalando il monte di cristallo ove lei siede su un trono, immobile e insensibile alle intemperie. Il racconto è un atto di accusa ironico e disincantato nei confronti del terribile e maschilissimo mondo delle fiabe, che umilia le donne e ne legittima la sottomissione agli uomini: le due protagoniste, Tabitha e Amira, colgono l’insensatezza della propria condizione femminile l’una negli occhi dell’altra, trovano reciprocamente la forza interiore per ribellarsi e rovesciare un destino non dato, scegliendo l’affrancamento possibile e la libertà negata, lasciando dietro di sé scarpe di ferro (che martoriano i piedi) e troni di cristallo (che impediscono di percorrere il mondo), sensi di colpa (se il marito brutalizza la moglie la responsabilità è sempre di questa, che mal si è comportata), sposi o promessi sposi di cui non hanno bisogno, per andare incontro a belle avventure. L’idea non è nuovissima (occorre almeno citare la straordinaria versione alternativa di Cenerentola data alle stampe in Spagna nel 2009 da Planeta, La Cenicienta que no quería comer perdices, testo di Nunila López Salamero e illustrazioni di Myriam Cameros Sierra), tuttavia il racconto risulta non solo pedagogico ma anche gradevole, come del resto il precedente dell’autrice.

Amal El-Mohtar e Max Gladstone in un montaggio fotografico pubblicato on line da Locus Magazine il 10 febbraio 2020 (locusmag.com/2020/02/amal-el-mohtar-max-gladstone-letter-space/)

Nel 2019 Amal El-Mohtar pubblica il romanzo breve This Is How You Lose the Time War − scritto con il noto narratore statunitense Max Gladstone, amico e coetaneo (è nato il 28 maggio 1984) −, che ottiene il Nebula Award l’anno successivo nella categoria novella; Così si perde la guerra del tempo è poi stampato in Italia da Mondadori nel 2020 nella traduzione di Simona Spano.

La redazione a quattro mani ha senso: la struttura è quella di un romanzo epistolare, nel quale si alternano lettere di Rossa (redatte da Gladstone) e lettere di Blu (redatte da El-Mohtar) –protagoniste entrambe declinate al femminile –, accompagnate da scenari di tempi differenti che seguono a cataclismi naturali e conflitti umani, dall’eruzione vulcanica che nel XVI secolo a.C. distrugge l’antica isola di Thera, nell’Egeo, alla violenta invasione dell’orda mongola, che nel XIII secolo d.C. giunge dalle steppe asiatiche al cuore dell’Europa.

Le due protagoniste sono espressione di due mondi antitetici, eppure complementari (così come loro stesse): Agency rimanda a una utopia, o distopia, cyborg, ove prevalgono tecnologia e solitudine, Garden a un organismo biologico, improntato ai principi di naturalità e collettivismo. Rossa è una guerriera di Agenzia, Blu di Giardino: combattono incessantemente, implacabilmente, per vincere la guerra assoluta, quella che consentirà a una delle due nazioni contendenti non solo di controllare il presente, ma anche il passato e il futuro, disfacendo e riannodando in forma diversa i fili che costituiscono la treccia dello sviluppo del tempo (Rossa, infatti, «lega e slega i capelli della storia»). Un esempio: la stessa Rossa «dissemina il bacino dell’Amazzonia della Ciocca 9 di versioni innocue di superbatteri europei dieci secoli in anticipo rispetto al primo contatto, e al loro arrivo i conquistadores si trovano ad affrontare comunità locali numerose, forti e prospere, che non muoiono per il solo contatto con il mondo al di là delle onde». Di epistola in epistola − redatta secondo i dettami dell’immaginaria Guide to Etiquette and Correspondence dell’altrettanto immaginaria Mrs. Leavitt −, di distruzione in distruzione, le due creature passano dalla sfida e dal duello verbale (e reale) alla schermaglia e alla relazione amorosa, tentando di eludere la sorveglianza di Agenzia e Giardino e facendo pervenire l’una all’altra le proprie lettere attraverso i mezzi più improbabili e bizzarri (una tazza di tè o un sacchetto di semi), conoscendosi, rispecchiandosi, completandosi, con crudeltà e tenerezza, lungo una vertiginosa serie di epoche e luoghi segnati dalla devastazione e dalla morte (ancora, dall’assedio di Stalingrado al Blitz su Londra).

Copertina dell’edizione italiana del romanzo di Amal El-Mohtar e Max Gladstone Così si perde la Guerra del tempo (Mondadori 2020) e disegno di autore non noto (presente in rete) ispirato al medesimo romanzo

La vicenda, in relazione all’ampiezza pur limitata del romanzo, è piuttosto esile e, non poteva essere altrimenti, la descrizione prevale sull’azione, diluita quando non inesistente; pregevole la prosa, immaginifica e metaforica, di cui sono un saggio i mille appellativi d’amore con cui le due nemiche che vorrebbero essere amanti aprono o chiudono le epistole: «azzurrina, iris, oltremare» (così Rossa a Blu) e «mia bacca di tasso, mia ciliegia selvatica, mia digitale purpurea» (questa a quella). Omnia vincit amor, dunque? Sì, e non c’è guerra che tenga…

In copertina: Amal El-Mohtar, Aliette de Bodard, Sarah Pinsker, Gino Andrea Carosini.

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Articolo di Laura Coci

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Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea

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