Non c’è alcun dubbio sul fatto che Teodolinda sia una delle regine più famose dell’intero Medioevo. Nata probabilmente a Ratisbona nella seconda metà del VII secolo da Garibaldo di Baviera e da una principessa longobarda, nel 589 venne sposata dal re longobardo Autari, in quello che fu un vero e proprio matrimonio politico con l’obiettivo di «stringere rapporti d’alleanza con i popoli d’oltralpe» attraverso la creazione di stretti legami familiari (Raffaello Morghen, “Teodolinda, regina dei Longobardi”, treccani.it). Alla morte del marito nel 590, in assenza di figli dall’unione, Teodolinda decise di sposare il cognato del defunto, ossia il duca di Torino Agilulfo, permettendogli quindi di ereditare la corona longobarda (e da cui ebbe due figli, una femmina e un maschio). A lei si deve principalmente la promozione della conversione al cristianesimo del popolo longobardo (all’epoca ariano e pagano), essendo riuscita «a persuadere il marito a convertirsi al cattolicismo…» (ibidem) in vista di «una pacifica convivenza religiosa e politica della popolazione longobarda e di quella italica» (Dizionario di storia, “Teodolinda”, treccani.it). Nel 599, infatti, Agilulfo siglò un trattato di pace con papa Gregorio Magno e fece battezzare secondo rito cattolico il figlio Adaloaldo a Monza nel 603.
Morto Agilulfo, a partire dal 616 e fino al 625 Teodolinda assistette nel governo il figlio, nel frattempo educato cattolicamente da lei stessa. Nel 625 Adaloaldo venne deposto e ucciso dal capo della corrente ariana longobarda, Arioaldo, che ne prese il posto facendo diventare regina Gundeberga (figlia di Teodolinda). Teodolinda seguì nella tomba il secondogenito pochi anni più tardi, nel 627. Oltre che per il determinato impegno cattolico, il periodo di regno di Teodolinda si caratterizzò anche per un certo “mecenatismo”. Infatti: «di rilievo fu l’attività di committenza artistica intrapresa da Teodolinda e Agilulfo, che inaugurò la ricca tradizione regia longobarda proseguita fino agli ultimi sovrani», la quale «spaziava dall’architettura urbana e suburbana, prevalentemente in pietra, come quella di basiliche, battisteri e palazzi, alla scultura, alla pittura, all’oreficeria» (S. Lusuardi Siena, “Teodolinda”, treccani.it). È importante ricordare che a quell’epoca Pavia era la capitale del Regno longobardo; eletta da Clefi nel 572, rimase capitale fino alla venuta di Carlo Magno nel 774. Una scelta che, secondo lo storico Alessandro Barbero, comunque non fu casuale per via della sua non indifferente posizione strategica, essendo posta contemporaneamente sul Ticino e sul Po, «due importanti vie di comunicazione» (Gaia Curci, “Così i longobardi scelsero Pavia come capitale”, laprovinciapavese.gelocal.it, 5 gennaio 2017); senza dimenticare, poi, il fatto che all’epoca di Clefi «Pavia era una zecca dell’Impero romano», ossia «una delle poche città che batteva moneta» (ibidem).
Vorrei concludere la mia serie di articoli con un sentito ringraziamento ai lettori (uomini o donne che siano, giovani e anziani) che mi hanno seguito fino a questo punto. Non è stato facile scrivere tutti questi testi cercando di trovare sempre qualcosa di interessante da dire; anzi, forse a una lettrice o a un lettore colto ed esperto solo alcuni articoli potrebbero sembrare essere venuti “decentemente”, mentre altri potrebbero venire considerati come “rivedibili”. In ogni caso, spero che possano essere serviti per ispirare qualche riflessione o per fornire qualche consapevolezza in più. In tal senso, è intellettualmente onesto ringraziare anche la mia passione per i libri, che mi ha permesso di fare collegamenti alle volte pure inaspettati con le vicende e le azioni delle illustri donne del passato che hanno popolato la storia della città di Pavia. Questo riconoscimento mi ha fatto pensare a quanto oggi sarei “arido” se non avessi avuto la fortuna (per citare Rita Levi Montalcini) di essermi appassionato nel corso della mia tarda adolescenza alla saggistica e di averla coltivata fino ad ora. Seguendo l’esempio della grande scienziata, auguro a chi mi legge di trovare questa stessa passione o, qualora ne sia già in possesso, di mantenerla e coltivarla per il resto della propria vita.
Infine, un ultimo augurio. In una società in cui tutti lottano per catturare la nostra attenzione, spero che voi riusciate a distinguere ciò che è utile da ciò che è inutile, ciò che è informazione da ciò che è rumore, ciò che per voi ha valore da ciò che non ne ha. Se c’è qualche cosa di carente e prezioso nella nostra vita, quello è il tempo, cerchiamo di sfruttarlo bene. Purtroppo, io me ne dimentico spesso.
«Something there outside/Says we’re only/In the hands of time/Falling slowly/It’s there for us to know/With love that we can go/Burn slowly the candle of life».
(Candle of life, The Moody Blues).
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Articolo di Giovanni Trinco

Nasce a Padova nel 1997. Laureato in Scienze Politiche, attualmente è laureando in Comunicazione Digitale presso l’Università di Pavia. Appassionato di giornalismo e saggistica, riguardante la sociologia e la filosofia, spera che un giorno il progressive rock possa tornare di moda.