Giulia e le altre. Le donne della Casa del Popolo di Montaretto

«Le donne sono l’anima reale della Casa del Popolo di Montaretto, quella che le ha permesso di vivere e di fare le feste, perché c’erano dieci donne che lavoravano indefessamente. Tutte si trovavano prima, a pulire pesce e verdure, a preparare gat(t)afin e ravioli, c’era la festa e poi c’era tutto il lavoro di pulizia il giorno dopo. Questa è la cosa incredibile: io arrivo dall’università, insegnavo in laboratorio, sono una chimica… sono arrivata qui, in cucina: ognuna era al proprio posto, in un silenzio assoluto, un lavoro di squadra che non te lo immagini, con una severità, un rigore… Ma non è tanto il lavoro ad avermi colpita, quanto l’attitudine mentale: perché per dare continuità alle cose auree ci vuole anche il piccolo lavoro di tutti i giorni, ci vuole tener pulito quando si cucina, sapere cosa ordinare, tener pulito il giorno dopo. I grandi pensieri si fondano sulle piccole cose quotidiane e su un’attitudine mentale di comunità, di cura, di attenzione. Tutte hanno lavorato fino allo stremo e questo modo di lavorare insieme, in silenzio, con consapevolezza, è sempre stato nella storia delle donne: e le donne della Casa del Popolo sapevano perfettamente perché erano lì. In questo c’è un nucleo, un nodo, un’intensità che per me rappresenta il paradigma della storia delle donne».

Sfilati i guanti gialli di gomma e la mascherina FFP2 per la polvere, appoggiata al manico dello spazzolone con cui ha letteralmente tirato a lucido il pavimento della rinnovata cucina della Casa del Popolo, Henriette, sessantanove anni, già ordinaria di Risonanza Magnetica Nucleare (e non solo) presso l’Università degli Studi di Verona, ha casa a Montaretto dal 2010 ed è ormai, a pieno titolo, una donna di qui. Piccola frazione del comune di Bonassola, nel Levante ligure, Montaretto non è un luogo: è un’utopia, un unicum per lo spirito di comunità che connota le persone che vi risiedono e che le danno vita, donne e uomini che si riuniscono nella Casa del Popolo, annunciata all’ingresso in paese, dopo una brusca curva in discesa lungo la provinciale tra Levanto e Deiva, resa se possibile ancora più nota dal film documentario Zum Beispiel Montaretto (Per esempio Montaretto) di Farhad Payar e Yasmin Khalifa (Germania, 2010).

Giulia al bancone del bar della Casa del Popolo
(archivio Laura Coci, giugno 2022)

«La Casa del Popolo è la nostra seconda casa, noi tutti i giorni siamo presenti, se non stiamo male. E ci ricordiamo tutto: tutte le battaglie che abbiamo fatto per aprirla… allora sembrava una cosa impossibile, invece ci siamo riusciti». È Giulia, anzi «la Giulia», a parlare («Il capo qua è la Giulia», dirà Sandra): settantasette anni, vive da sempre a Montaretto e della Casa del Popolo è l’anima; tutti i pomeriggi, fin quasi al crepuscolo, quando le è dato il cambio, tiene aperto il bar con l’ampio salone dal quale guardano con benevolenza i grandi padri progressisti d’Occidente e d’Oriente, le bandiere della pace e del Quarto Stato, i ritratti di partigiani e partigiane, e anche un sorridente Fabrizio De André.

In una narrazione corale, che si è articolata dal 4 al 7 giugno 2022 – e non potrebbe essere altrimenti, perché questa è una storia collettiva – le fa eco la sorella Rosa, ottantacinque anni: «Ci abbiamo messo i soldi, quei pochi che avevamo, per aprirla, e anche adesso, per rimetterla in piedi. Venivamo qui anche dopo il lavoro, per mangiare tutti insieme, ed era festa». Ancora più categorica Sonia, di una generazione più giovane, che di anni ne ha cinquantasei: «La Casa del Popolo rappresenta tutto. Mi ricordo che quando c’erano le feste da ballo portavamo con noi i bambini, che poi dormivano tutti sul biliardo, coperti con le giacche. La Casa del Popolo per Montaretto è stata tutto».

È il 1964: «La Casa del Popolo è stata costruita per le esigenze di noi giovani che non sapevamo dove andare» racconta Sandra, settantaquattro anni (ma «era importante anche per gli anziani», sottolinea Rosa). L’idea di realizzare non soltanto una sala da ballo, ma un «luogo comunitario aperto ad ogni tipo di attività culturale, sociale e, naturalmente, politica» (come si legge nel volumetto Casa del Popolo. Montaretto 1970-2020, Bonassola [2021]) è di Ivelino. Passo dopo passo – con la tenacia di chi sa camminare a testa bassa, sotto il sole, per i sentieri tra costa e montagna, portando ceste di uva o di olive, acqua di mare per cavarne il sale o legna per fare il fuoco – il progetto prende forma: nel 1965 sono avviate le trattative per l’acquisto del terreno ed è richiesta la licenza edilizia per la costruzione dell’edificio; nel 1966 è avviata la sottoscrizione, alla quale partecipano i capifamiglia montarettini (ma sono le famiglie intere a mettere a disposizione i propri risparmi) e la locale squadra di calcio, la Stella Rossa, attiva anche nell’organizzazione di iniziative per raccogliere fondi. Nel 1967, quando i lavori sono iniziati da pochi mesi, i primi eventi e nel 1970 l’apertura: da allora le feste per il 25 aprile e il 1° maggio, gli incontri e i dibattiti, le sagre a base di piatti della cucina locale, dai calamari alla griglia ai leggendari gat(t)afin (sorta di grossi ravioli di pasta non lievitata, con ripieno a base di erbette selvatiche e ricotta, fritti in olio bollente fino a doratura).

Le donne e gli uomini di Montaretto non sono nuovi a imprese ‘impossibili’. «Mi ricordo quando abbiamo fatto la strada, che prima non c’era»: è Teresa questa volta a parlare, ha settantanove anni ed è la madre di Sonia. «Quando è nata mia figlia – aggiunge subito Liliana, novantenne, la decana del piccolo gruppo che si riunisce nello spiazzo antistante la Casa del Popolo – mi hanno portata a spalla all’ospedale: la bambina doveva nascere in casa ma poi ho avuto delle complicazioni… Mi hanno portata a spalla fino a Bonassola, perché la strada non c’era». Di qui, l’episodio, epico ma reale, dello «sciopero al contrario», perché quando è troppo è troppo, e allora non resta che l’azione collettiva: Montaretto, infatti, ancora nel dopoguerra non ha una strada carrabile di collegamento con Bonassola e con Levanto (che si affacciano sulla costa).
E poiché il progetto presentato nel 1949 non ha seguito, il 21 agosto 1955 si dà inizio una singolare forma di rivolta: «Tutta Montaretto si era riversata su quel sentiero [di proprietà dell’allora sindaco di Bonassola, che si opponeva al suo ampliamento e dunque alla costruzione della strada] e mentre una parte di noi allargava con i picconi il tratto più a valle, le donne e i bambini ostruivano con i sassi il passaggio più a monte. La cosa suscitò grande scalpore». È il racconto di un testimone di allora, Stefano De Franchi, riportato su Il Secolo XIX di martedì 21 agosto 1990: i montarettini la strada se la costruiscono da soli, con l’aiuto delle donne e di tutta la comunità. «Mi ricordo quando non c’era la strada… – Loredana (Lori), settantanove anni, sorella di Liliana – La strada l’abbiamo fatta noi, eravamo tutti sul ponte, anche i bambini, proprio come nella fotografia».

La popolazione di Montaretto in posa durante la costruzione della strada, nell’estate 1955
(dal volume Casa del Popolo. Montaretto 1970-2020, Bonassola, 2021)

Non è questo il ricordo più lontano. Quelli più antichi e dolorosi riguardano la guerra – la guerra che irrompe nella memoria, travolgendola, come travolge la vita – e se Giulia fa cenno al bombardamento di Bonassola durante la Seconda guerra mondiale, nel 1944 («Bonassola è stata bombardata a giugno, io sono nata ad agosto»), Rosa, di qualche anno più anziana, è in grado di dare corpo all’episodio con tasselli della propria storia personale: «Mi ricordo la guerra, quando mia mamma mi faceva mettere la carta blu alle finestre perché passava Pippo e bombardava. – sì, il nome popolare degli aerei da caccia alleati, solitari incursori notturni in Italia settentrionale, è noto anche qui – Mi ricordo il bombardamento di Bonassola… Mamma mia, veniva su un fumo da Bonassola (Montaretto si trova a trecento metri di altitudine), arriva uno e dice “A Bonassola ci sono i morti come le mosche” e allora gli uomini sono scesi a vedere cos’era successo».

Nell’atrio del Comune di Bonassola una lapide senza data ricorda undici militari, tre partigiani, otto civili e sei «caduti causa bombardamento aereo» (due donne e quattro uomini). Il bombardamento del comune rivierasco si colloca nel quadro delle azioni aeree alleate che tra l’autunno 1943 e l’estate 1944 colpiscono a ripetizione nodi ferroviari, ferrovie e ponti (nonché centri minori e loro dintorni) per impedire i rifornimenti tedeschi, fino al 28 giugno 1944, quando sono distrutti i viadotti ferroviari di Recco e Zoagli e di fatto tagliate le comunicazioni tra Genova e il Levante.
Emergono in Rosa, con l’urgenza del dramma, altri ricordi: «Mi ricordo i partigiani che dormivano nascosti nella nostra soffitta. Mia mamma mi diceva: “Se senti che arriva qualcuno, prendi la scopa e bussa sul soffitto con il manico, così loro stanno fermi”. E poi, una sera che mia mamma stava male, io sono uscita a prendere le pigne per fare il fuoco e farle la camomilla, un carabiniere che era lì appostato in paese mi ha puntato il fucile addosso e io sono scappata urlando. Mi ricordo anche di un ragazzo del Salice, avrà avuto quattordici o quindici anni, che è morto perché aveva trovato una bomba inesplosa e se l’era messa in una scarpa; siamo andati tutti giù (la località Salice si trova a circa duecento metri di altitudine, sul sentiero per la vicina Framura) e mia nonna mi ha detto: “Non dire niente a tua mamma, che perde il latte”, perché mia sorella era piccola».

Lidia e il piccolo Lucio sulla Vespa di Sandrino durante la costruzione della strada, nell’estate 1955 (dal volume Casa del Popolo. Montaretto 1970-2020, Bonassola, 2021)

La guerra è certamente uno spartiacque: ma vi è una continuità di vita, pur con alcuni distinguo, per le donne di Montaretto. Bambina, nei primi anni Quaranta, Liliana scendeva alle scogliere con le donne per portare in paese secchi di acqua marina da cui estrarre, per ebollizione, il sale. Rosa e Giulia, anch’esse bimbe, pure davano aiuto alla famiglia: «Papà aveva fatto diversi lavori: nella ferrovia, come spaccapietre, nelle cave, come contadino… allora c’era poco. – ricorda Giulia – Noi bambine davamo da mangiare agli animali, andavamo a fare la legna per scaldarsi. Qui fino al mare la terra era coltivata a vigneti e oliveti, fino a su, al monte, a grano e c’erano gli orti. Sì, qui dal paese ti affacciavi ed era tutto coltivato fino al mare; portavamo su l’erba per gli animali, le olive… Va’, abbiamo faticato tanto ma siamo vissute! E da giovani ci siamo anche divertite…» conclude con la saggezza consapevole che la contraddistingue.

«Papà era cantoniere provinciale, aveva una tratta da qui al bivio fin sul [Passo del] Bracco e andava a piedi, allora non c’era neanche la strada. – racconta ancora Sandra, vivace e comunicativa, e a un ricordo ne segue subito un altro – La mamma era nata a Levanto, da piccolina è venuta ad abitare a Montaretto, qui ha conosciuto mio papà, a diciotto anni era già sposata. Succedeva che quando due andavano a braccetto allora dovevano sposarsi, perché… già c’era troppa intimità, si diceva. Quando avevo quattro anni a mio papà hanno assegnato la casa a Pian Pontasco (località alle spalle di Montaretto, a circa cinquecento metri di altitudine). E siamo partiti a cavallo di un mulo, con tutte le nostre cose, siamo andati. Da Pian Pontasco venivamo a Montaretto con mia sorella più grande, alle elementari, su e giù a piedi, più di mezz’ora di strada. Ho fatto il primo anno, poi mi sono ammalata, allora mi hanno portato dai nonni materni che abitavano qui, la nonna faceva la bidella, e ci sono stata fino a nove anni. Ho avuto un’infanzia un po’ solitaria, non c’erano molti bambini, della mia età una sola. I giochi me li inventavo: andavo nel campo delle pannocchie e dicevo che quello era il collegio. Mi piaceva molto leggere, papà mi comprava dei giornalini. Avevo il primo numero di Superman! Leggevo anche Topolino…».

Da alcuni decenni bambine e bambini di Montaretto non hanno più la possibilità di frequentare la scuola in paese: se la generazione di Rosa, Giulia e anche Sandra non ha proseguito gli studi per l’urgenza di trovare occupazione e aiutare la famiglia, Sonia, pur lavorando d’estate («Già a quattordici anni facevo la stagione…»), non ha dovuto ricorrere a mezzi di trasporto per recarsi alle elementari, a differenza delle sue due figlie (di trentasette e trentaquattro anni), che sono andate a Bonassola. «Ora neanche a Bonassola ci sono più scuole, elementari e medie sono a Levanto, dove di superiori c’è solo il liceo scientifico, per le altre bisogna andare a Chiavari o a Spezia»: i tre bambini (o ragazzi) e le due bambine (o ragazze) in età scolare che vivono attualmente a Montaretto impiegano dunque venti minuti per raggiungere la scuola con il pullmino e altrettanti per tornare a casa, ogni giorno.

Da sinistra: Sonia, Rosa e Giulia all’interno della Casa del Popolo
(archivio Laura Coci, giugno 2022)

Il principio di uguaglianza, in base al quale gli esseri umani nascono liberi ed eguali, e il valore inviolabile della dignità, che si afferma oltre ogni smentita, si traducono a Montaretto in pratica quotidiana (e non è un caso che l’antifascismo e la Resistenza abbiano connotato con forza l’identità locale): «Ognuno è sempre stato libero, da vivo e da morto. – così Giulia – Mia mamma era credente, mio papà no. Dopo morto mio papà voleva la festa e voleva essere messo in terra: al suo funerale abbiamo aperto la cantina, c’erano vino e salame… Mia mamma voleva il funerale religioso e voleva essere messa nel loculo. Li abbiamo accontentati tutti e due».

La ritualità che, in Italia almeno, la cultura tradizionale affida alla religione, perché sugelli i momenti fondanti di una comunità (nascita, matrimonio, morte), a Montaretto assume, o è libera di assumere, una connotazione laica: «Mi sono sposata in comune, la prima – rivendica con orgoglio Rosa – mia mamma era disperata, mio padre ha detto a me e a mia sorella: “Fate come volete”». E Carla, sessantadue anni: «Quando mi sono sposata, ho fatto la festa qui, alla Casa del Popolo. Ogni famiglia di Montaretto ha dato le sue tovaglie, e ci ha messo su un punto con l’ago, per ritrovarle: questo vuol dire mettersi a disposizione degli altri, nei momenti belli, ma anche in quelli tristi. Qui, a Montaretto, ho visto il primo funerale civile (a Framura, dove ho vissuto fino ai ventun anni, non se ne facevano, perché altrimenti la gente parlava). Io non abitavo ancora qua, ed era mancata la mamma di Liliana e Loredana. Ero venuta a fare visita e venivano tutte queste persone, tutte con una borsa con della roba da mangiare. La borsa la portavano come regalo, per aiutare i familiari della persona che era morta, almeno nei primi giorni».

«Quando perdevi una persona della famiglia, –a parlare è Liliana, ora – gli altri, per due o tre giorni, ti facevano da mangiare»; non solo: «E chi aveva gli animali veniva aiutato ad accudirli» aggiunge Sandra, prima che Carla riprenda il discorso e lo concluda: «Mi ricordo la Giulia in prima fila con la Rosa che preparavano da mangiare dopo i funerali, per le persone che venivano da lontano e si fermavano». Per Sonia il ricordo è ancora doloroso, eppure le sue parole esprimono sobrietà e fierezza: «Quando è morto mio marito (si chiamava Nanni, gli hanno intitolato l’ostello, che era la sua vita), il giorno del funerale c’erano forse duemila persone, hanno chiuso le scuole, e a mezzogiorno le donne hanno fatto un pranzo per oltre cento persone. Mio marito è morto all’improvviso, la domenica, dopo la donazione degli organi e la cremazione, Adastro è andato a prendere le ceneri e le ha portate qui il venerdì per il funerale. Tutti mi hanno aiutata».

Da sinistra: Sandra, Carla, Henriette all’esterno della Casa del Popolo
(archivio Laura Coci, giugno 2022)

Lo spirito di comunità a Montaretto è prassi quotidiana, è l’elemento che ha mantenuto viva e coesa la popolazione (ora di circa centosettanta persone, qualche decennio fa di oltre trecento), nella felicità e nella disgrazia; Giulia ancora una volta se ne fa interprete: «Abbiamo sempre rispettato le idee di tutti; io cerco di aiutare le persone, credo più in questo che nell’andare alla messa. Ora che mio marito Mario non c’è più (e sono sette anni), mi occupo di mio cugino, che non ci vede. Qui a Montaretto siamo sempre stati un paese che ci siamo sempre aiutati: noi tutti ci ricordiamo le notti in ospedale, ad assistere chi aveva bisogno, e tutti nel paese a turno facevamo le notti, perché soldi non ce n’era, e se una persona ha bisogno la aiuti. Ce lo ha insegnato papà, che era comunista, come tutti qui: mi ricordo che avevamo una pianta di pere, papà ne dava un cestino a tutti, a volte non ne restavano neanche per noi».

Non solo, a Montaretto la parità tra uomo e donna è obiettivo raggiunto da molte famiglie e da più generazioni: «Tra me e mio marito eravamo pari, lui faceva quello che voleva e io anche. – afferma Giulia – Certo, questo si deve alle nostre idee. Ricordo che ci fu un problema per dei familiari che avevano bisogno urgente di un prestito: io quanti soldi avevo glieli ho dati, mio marito, quando è tornato (veniva sempre a casa col sorriso…) mi ha detto: “Hai fatto bene, se potranno li restituiranno, se no li rimetteremo insieme”. Poi ci hanno restituito tutto, ma io ho preso la decisione da sola, perché mio marito non c’era e lui non ha avuto niente da dire». Le donne di Montaretto sono sedute composte nello spiazzo antistante la Casa del Popolo e la Bottega, ove sventolano la bandiera del Che (Hasta la victoria siempre) e quella della pace; sono ogni volta un poco più numerose, in un cerchio che si allarga, disponibili a raccontarsi, un ricordo dopo l’altro, con qualche esitazione iniziale nel farsi fotografare: «Non siamo fotogeniche… io vengo sempre con gli occhi chiusi… abbiamo le rughe…», fino a che, con riconosciuta autorevolezza, Liliana non mette fine alla discussione: «Anna Magnani diceva di lasciarle tutte le rughe, perché ci aveva messo tutta la vita a farsele», e allora, sorridendo, accettano i miei scatti maldestri col cellulare.

Da sinistra: Teresa, Loredana e Liliana all’esterno della Casa del Popolo
(archivio Laura Coci, giugno 2022)

Il discorso torna alla Casa del Popolo, aperta accanto a noi, e al suo significato nella vita di tutte e di tutti i montarettini: «Rappresenta tanto perché siamo sempre qua tutti i giorni, quando possiamo» (Liliana); «Io ci ho vissuto qui dentro, ho sempre fatto volontariato, poi ho cominciato ad aiutare alle feste, a lavorare come barista, a servire ai tavoli, ora sono in cucina. La Casa del Popolo è un posto dove giocare a carte, chiacchierare, ballare» (Sandra); «È un punto di incontro, unico. A Framura, per esempio, non c’è un punto di incontro come qui» (Carla). Interviene Giorgio, settantasette anni, seduto accanto a Ivelino e Adastro: «È un luogo di incontro, per noi sì, soprattutto per me che non vedo più, dove poter parlare, con persone del posto e anche di fuori, venute qui». E il discorso va alla Bottega (si chiama proprio così, Bottega di Montaretto), non un semplice esercizio commerciale ma un servizio alla comunità (vi si trova un po’ di tutto, comprese frutta e verdura a chilometro zero), in particolare nei mesi invernali, quando è aperta, in pratica, per le sole persone residenti e quando per queste, in buona parte anziane, sarebbe ancora più disagevole raggiungere Bonassola o Levanto per rifornirsi di generi alimentari e di prima necessità. «La bottega l’ha aperta la Rosa – dopo che Teresa l’ha ricordata, Sandra ne ripercorre la storia – bar e bottega, poi c’è stata la Sonia e adesso mio figlio Enrico, che prima lavorava all’Acam (servizi idrici e ambientali spezzini), ha comperato e ha riaperto. Fa questo lavoro per sé e per il paese».

Da sinistra: Giorgio, Ivelino e Adastro all’esterno della Casa del Popolo (archivio Laura Coci, giugno 2022)

Un paese che si è stretto intorno alla Casa del Popolo all’inizio della primavera 2021, quando, appena compiuti cinquant’anni, l’edificio ha rischiato di collassare: sono apparse infatti vistose crepe sulla facciata e nei locali interni posti al piano terreno (sala e cucine) e sono stati rilevati un cedimento del terrapieno antistante e il conseguente parziale scivolamento della pavimentazione interna del salone, che affaccia sul terrazzamento esterno. Il Levante ligure, è noto, è un territorio fragile: «A Castagnola (frazione di Framura) – commenta Sonia – c’è per grandezza la seconda frana in Italia, monitorata ma in movimento. Occorrerebbero, anche, opere di manutenzione che nessuno fa più (o sa fare più), come quella dei muretti a secco che sostengono i terrazzamenti dove si coltivavano viti e ulivi».

È stata dunque avviata una sottoscrizione alla quale hanno risposto le tante persone amiche della Casa del Popolo, non solo per effettuare le necessarie opere di consolidamento (ora finalmente giunte alla conclusione), ma anche e soprattutto per «resistere e portare avanti un’idea di futuro solidale e condiviso», come si legge nel lancio della campagna. «Ci abbiamo messo i soldi, quei pochi che avevamo, per aprirla, e anche adesso, per rimetterla in piedi» aveva detto Rosa: è così, perché i primi a dare il proprio contributo, in solido e attraverso il lavoro, sono stati proprio gli abitanti e le abitanti di Montaretto. Queste ultime, con la sintonia di una storia comune e partecipata, esprimono ciò che il paese rappresenta per loro (e lo fanno in momenti diversi, con risposte che all’insaputa l’una dell’altra appaiono sovrapponibili in modo commovente).

«Tutto rappresenta per noi Montaretto» (Rosa); «Noi siamo qui e stiamo qui. Se arriva uno da fuori, se arriva una persona che ha bisogno, lo aiutiamo» (Giulia); «Rappresenta tutto, siamo nate qui, qui è la nostra vita: infanzia, gioventù, vecchiaia… Non ci siamo mai spostate» (Liliana e Teresa); «Tutto, la vita, abbiamo passato qui tanto tempo. Siamo nate qui, siamo cresciute qui. È il ricordo di tutta una vita, come di questa Casa, che è la casa di tutti» (Loredana); «Adastro lavorava a Chiavari, ma ha voluto rimanere a Montaretto e anch’io non me ne sarei andata via. Io adoravo (e adoro) questo paese, non mi sarei mai mossa» (Sandra); «È la mia casa ormai, sono tanti anni che abito qua, non andrei più a Framura. Si sta bene, siamo una famiglia. Perché siamo qui, ci incontriamo, passiamo del tempo insieme, ci divertiamo» (Carla); «Ho passato a Montaretto tutta la mia vita, non ho mai avuto l’ambizione di andarmene; io mi sono sposata giovane, mio marito era di Genova, è venuto qui e non ci siamo mai mossi. Anche adesso non me ne andrei mai, qui ho tutto: mia madre, le mie figlie, le mie nipoti» (Sonia). E perché anche tante persone “foreste” amino Montaretto lo spiegano bene Sandra e Carla: «Per questa nostra unità, per il nostro modo di essere…», dice la prima; «Perché quando arrivano qua respirano quest’aria e se ne ricordano» aggiunge la seconda.

A sinistra: nel salone della Casa del Popolo, Enrico e Giulia preparano piatti con dolci tipici in occasione della festa per un matrimonio; a destra: il buffet allestito dalle donne della Casa del Popolo per la medesima festa (archivio Laura Coci, 21 maggio 2022)

I problemi del passaggio di testimone, da una generazione all’altra, purtroppo non mancano: la popolazione è anziana, persone giovani ce ne sono poche e forse, pur condividendo gli ideali delle madri fondatrici, non ne hanno l’entusiasmo; queste, d’altra parte, sono consapevoli delle forze che vengono meno, come Loredana, che, quando mi vede strofinare con paglietta e sgrassatore i fornelli che andranno ricollocati nella nuova cucina della Casa del Popolo, si rammarica di non potermi aiutare, e a me che le oppongo che lei è comunque al mio fianco con il cuore, ribatte, gandhiana, che lo è anche con la mente ma che vorrebbe esserlo con le mani.

Eppure, a Montaretto vi sono due giovanissime che rappresentano una solida speranza per il futuro: se Giada – (quasi) quattordici anni – sogna di danzare alla Scala di Milano e all’Opéra di Parigi, per poi tornare qui di tanto in tanto, Bianca – undici-barra-dodici anni (testuale) – sembra già possedere il sapere antico, legato alla terra e ai gesti quotidiani delle donne della sua comunità, quei piccoli gesti silenziosi che salvano il mondo: ed eccola mostrare orgogliosa l’albero di mimosa più grande del paese (e forse dell’intero Levante, mi viene da pensare); rievocare la raccolta dell’asparago selvatico in primavera, alla quale tutte le donne partecipano; seppellire pietosa la sfortunata lucertola artigliata da una gatta di città («Voleva farti un dono», mi dice). E ancora, come racconta Sonia, perdere il pullmino per la scuola per tentare di salvare un uccellino caduto dal nido, scacciare a bastonate la faina entrata nel pollaio e dopo aver contato le galline annunciare trionfante «Tutte vive!». Giovani donne crescono, a Montaretto. Bianca declina seria e solenne la propria genealogia matrilineare: «C’è Teresa, la mia bisnonna; e da Teresa c’è Sonia, la nonna; e da Sonia c’è Silvia, la mamma; e poi ci sono io, Bianca!»

Paesaggio dalla terrazza esterna della Casa del Popolo: orti e alberi da frutta, boschi e sullo sfondo il mare (archivio Laura Coci, giugno 2022)

«Stai diventando una vera donna di Montaretto» mi dice al telefono mia figlia Azra, quando le annuncio che andrò a dare una mano a Giulia e alle altre nella preparazione dei gat(t)afin per la festa del 2 luglio, che segnerà la riapertura della Casa del Popolo dopo l’interruzione forzata causata dalla pandemia e dai necessari lavori di consolidamento e ristrutturazione seguiti al cedimento della primavera dell’anno scorso.

Lo status di donna di Montaretto «non si eredita, ma si consegue – come la mediterraneità per il grande Predrag Matvejević – è una decisione, non un vantaggio», un onore che comporta consapevolezza, responsabilità, scelta. Ogni giorno della mia vita, mi impegnerò per esserne degna.

In copertina: la Bottega e la Casa del Popolo di Montaretto (archivio Laura Coci, giugno 2022).

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Articolo di Laura Coci

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Fino a metà della vita filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano, negli anni della lunga guerra balcanica ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Già docente di letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. Scrive ascoltando Coltrane e crede nella forza e nella bellezza del camminare.

4 commenti

  1. E allora viva la Casa del Popolo di Montaretto e brava a Laura Coci che ha scritto l’articolo e permette di far conoscere una bella realtà tra passato e presente.👏👏👏😊

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  2. Ho letto con grande piacere immedesimandomi e anche invidiando la vostra esistenza in questo luogo meraviglioso che mi sembra quasi di farne parte perché ho la fortuna di vivere a Sestri Levante dal 2010. Io e mio marito siamo nati a Genova e sposati giovanissimi ( io 22 e lui 23) ma le nostre vacanze le abbiamo sempre passate appunto a Sestri, con caparbietà pur lavorando ancora (io all’università e mio marito in porto), abbiamo deciso di trasferirci.
    Non ricordo decisione migliore di questa
    È un vivere diverso, riallacciare i rapporti con la natura, usare la bicicletta, coltivare l’orto imparando tutto da zero, no non mi manca la città e invidio benevolmente chi ha vissuto l’infanzia e la gioventù in luoghi così paradisiaci.
    Ora che siamo in pensione e siamo in un momento critico della nostra vita perché dobbiamo cambiare casa, i nostri sogni eternamente avventurosi ci porterebbero a cercarla in posti campestri con pochi abitanti mentre l’età anagrafica ci suggerisce di rimanere più vicino alla comunità! Ma la vostra Comunità è ineguagliabile e vi stimo e lodo l’essere parte della casa del popolo
    Un piacere immenso sapere che esistano persone come voi
    Grazie

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  3. Un article émouvant qui résume parfaitement ce que je ressens à chaque fois que je viens à Montaretto (tous les ans au mois d’août). Ces gens sont incroyables de gentillesse et de générosité. Si le monde pouvait ressembler à ce village, chacun sur terre aurait sa part de bonheur. Merci d’avoir si bien décrit avec des témoignages cet endroit et ses habitants. R. B.

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