La donna nel Settecento. Le pastorelle d’Arcadia

Il Settecento è il grande secolo dell’Accademia dell’Arcadia e della scrittura femminile. Per entrare nell’Accademia, fondata a Roma il 5 ottobre 1690 dal letterato e giurista Giovanni Vincenzo Gravina e dal poeta e critico letterario Giovanni Mario Crescimbeni, poiché è a numero chiuso, è necessario possedere tre requisiti fondamentali: avere minimo 24 anni, godere di una certa affidabilità e quindi esibire una storia personale rispettabile, infine essere oggettivamente riconosciuta esperta o esperti in qualche disciplina. Il nome arcadico è costituito da due parti: la prima viene assegnata al momento dell’ammissione con un sorteggio mentre l’epiteto che segue è scelto liberamente dal candidato, previa approvazione dell’adunanza, purché faccia esplicito riferimento a un luogo dell’Arcadia mitologica o geografica.

La banca dati Donne in Arcadia (1690-1800) censisce oltre 450 socie all’Accademia. Le pastorelle arcadi si inseriscono in un contesto più o meno numericamente paritario con gli uomini, con la possibilità di creare una vera e propria sorellanza con le altre scrittrici, cantare i loro versi e pubblicarli liberamente. Le poete arcadiche vagheggiano una vita quieta a contatto con una natura non importa che sia artificiale, illusoria e immaginaria, fatta di verdi boschi e limpidi ruscelletti.

Vive a cavallo tra Seicento e Settecento Maria Selvaggia Borghini (1656-1731), di Pisa, poeta e Accademica degli Stravaganti, poi dell’Arcadia col nome di Filotima Innia. Scrive sonetti e canzoni in cui tratta svariati argomenti, sacri e profani, in diversi metri, che le valgono le lodi, tra gli altri, di Antonio Magliabechi, del maestro Alessandro Marchetti e di Francesco Redi. Con i suoi componimenti poetici si guadagna l’ammirazione di Luigi XIV di Francia, la protezione della Principessa Vittoria della Rovere, moglie del granduca di Toscana Ferdinando II, figlia del principe di Urbino e di Claudia de’ Medici, che la vuole a corte come propria dama di compagnia. Ci rimane di lei anche un epistolario con i più illustri letterati del suo secolo. Donna di indole modesta e molto religiosa, vive sempre nella massima semplicità, lontana dalla fastosità tipica delle corti dell’epoca, senza lussi e senza adulazione. Non si sposa mai e adotta la figlia del fratello Cosimo, Caterina, anche lei scrittrice di versi.

La romana Faustina Maratti Zappi (1679 circa-1745), figlia del noto pittore Carlo Maratta, viene avviata dal padre all’arte della pittura. Nelle sue poesie trae spesso ispirazione dai quadri del padre e dai fatti della vita di ogni giorno. Nell’Accademia arcadica, dov’è accolta nel 1704 con il nome di Aglauro Cidonia, conosce l’avvocato e poeta Giambattista Felice Zappi, bucolicamente Tirsi Leucasio, e lo sposa. Nel 1723 viene dato alle stampe un canzoniere di 38 sonetti con il nome di Rime dell’avvocato Giambattista Felice Zappi, nel frattempo passato a miglior vita, e di Faustina sua consorte. La poeta scrive struggenti versi per il figlioletto Rinaldo che muore nel 1711 a due anni.
Il primo sonetto ci rappresenta il piccolo Rinaldo colpito dal male e la madre distrutta che non riesce neanche a trovare il conforto delle lacrime.

«Dov’è, dolce mio caro, amato Figlio,
il lieto sguardo e la fronte serena
ove la bocca di bei vezzi piena,
e l’inarcar del grazioso ciglio?

Ahimè! tu manchi sotto il fier periglio
di crudel morbo che di vena in vena
ti scorre, e il puro sangue n’avvelena
e già minaccia all’Alma il lungo esiglio.

A ch’io ben veggio, io veggio il tuo vicino
ultimo danno e contro il Ciel mi lagno,
figlio, del mio, del tuo crudel destino!

E il duol tal del mio pianto al cor fa stagno,
che spesso al tuo bel volto io m’avvicino,
e nè pur d’una lagrima lo bagno».

Nel secondo Faustina dice di portare sempre nel cuore l’amata immagine del bimbo e ritrae se stessa dolente curva nel suo lettino.

«Ovunque il passo volgo, o il guardo io giro
parmi pur sempre riveder l’amato
dolce mio figlio, non col guardo usato,
ma con quel, per cui sol piango e sospiro.

E tuttavia mi sembra assisa in giro
del picciol letticciuolo al destro lato,
udir le voci, e scorger l’affannato
fianco ond’a forza egli traea respiro.

Poc’aspro è forse il duol che diemmi morte,
togliendo al caro figlio i bei prim’anni
chè vieni, o rimembranza, e ’l fai più forte?

Ma tutti almen non rinnovarmi i danni:
ti basti rammentar l’ore sue corte,
e ad uno ad un non mi contar gli affanni».

Nel terzo sonetto immagina il bambino ormai salito al cielo. Ma lei è qui, sulla terra, sola col suo inconsolabile dolore: lo struggimento le deriva non tanto dalla morte del piccolo, che sa beato tra le braccia di Dio, quanto piuttosto dall’impossibilità di vederlo ancora.

«Amato figlio, or che la dolce vista
sicuro affiggi nel gran Sole eterno,
nè tema hai più di cruda state o verno,
nè gioia provi di dolor commista:

vorrei che a quel pensier che sì m’attrista
della perdita tua dessi governo:
che quantunque dal falso il ver discerno,
tropp’ei l’anima mia turba, e contrista.

E non vorrei pel duol, ch’ogn’alto avanza
essere a te men cara appresso Dio,
poichè già non piang’io tua lieta sorte.

Piango solo la morta mia speranza
di quà vederti e tanto è il desir mio
che dolce e bella mi parebbe morte».

In un altro commoventissimo sonetto Faustina evoca la morte dell’amatissimo consorte, mentre si riapre la cicatrice, mai del tutto sopita, per la perdita del piccolo.

«Cadder preda di morte, e in pena ria
m’abbandonaro e ‘l genitore e il figlio;
questi sul cominciar del nostro esiglio,
quegli, già corso un gran tratto di via.

Obbliarli io credea, com’ altri obblia
la memoria del mal dopo il periglio:
ma sempre, o vegli, o sia sopito il ciglio,
me gli offre la turbata fantasia.

Sol con queste due pene, iniqua sorte,
sempre m’affliggi: or mancan altri affanni?
Ah se ti mancan, che non chiami morte?

Venga pur morte, e rompa il corso a gli anni.
Amara è sì, ma sempre fia men forte
che la memoria de’ sofferti danni».

Bastano pochi versi per avere un’idea del sentimento sincero che ispira Teresa Bandettini, di Lucca, la città dove nasce nel 1763 e muore nel 1837.

«A te intorno ognor m’aggiro,
o diletto ingrato amante,
e se celi il tuo sembiante
scolorita io ne sospiro,
a te intorno ognor m’aggiro.
Croceo il crine e croceo il volto
e son fatta un molle fiore!
Serbo ancor l’antico ardore,
né il vital tutto m’è tolto,
croceo il crine e croceo il volto».

Nel 1794 a Roma si misura con un’altra celebre improvvisatrice, la pistoiese Maddalena Moretti Fernandez (1727-1800), incoronata in Campidoglio nel 1776 e nota in Arcadia come Corilla Olimpica. Teresa vince la poetica tenzone e viene accolta dall’Accademia con il nome di Amarilli Etrusca.

Fortunata Sulgher Fantastici, ritratta da Angelica Kauffmann, 1792

È toscana anche Fortunata Sulgher Fantastici (1755-1824), livornese, che nel 1770 entra nell’Accademia dell’Arcadia con lo pseudonimo di Temira Parraside, ma si fa conoscere solo nel 1785 quando appare con alcune sue Rime sulla rivista bolognese Parnaso Italiano. A dieci anni improvvisa versi, a tredici compone poesie, e presto diventa una così celebre improvvisatrice che le sue delicate rime travalicano i confini della sua regione. L’improvvisazione è il suo dono di natura che le dà fama e celebrità: non serve neppure dire il suo nome, tutti e tutte sanno chi è la donzella livornese.

«Temira io son, Febo è il mio nume, lieta
son di mia sorte, e la mia dolce Lira
ogni tumulto del mio cuore acqueta
qualor m’inspira».

Le sue improvvisazioni sono ammiratissime.

«Con le muse scherzo e canto
per diletto del mio core…
Senza la dolce Musa
ogni mio vanto tace,
e sol per lei mi piace
l’atre cure obliare».

È amica delle altre poete arcadiche, ma soprattutto della più grande pittrice neoclassica, la svizzera Angelica Kauffman, che nel 1792 dipinge un suo ritratto, ricambiato da Fortunata con una raccolta di poesie.

«I nostri nomi, o mia diletta, andranno,
se a te son cara, anche all’età future,
e forse fia che un giorno invidia desti
l’udir che te cantai, che me pingesti».

Teresa Bandettini in un ritratto di Angelica Kauffmann, 1794

Incinta sette volte, dà alla luce solo due figlie, Isabella e Massimina, che coltiveranno la vena poetica ereditata dalla madre. La poesia di Fortunata Sulgher è soprattutto basata sull’improvvisazione e sul canto. Nei suoi versi estemporanei, di chiara ispirazione montiana e classicheggiante, si avverte una profonda attenzione all’amore e alla bellezza, né mancano in quella che Croce chiama “pseudopoesia” intensi e sentiti momenti bucolici. Nel 1794, dopo l’uscita di una nuova raccolta di successo, si confronta a Firenze con la sua sodale Teresa Bandettini, improvvisatrice non meno dotata, in una disputa poetica sul tema di Ero e Leandro.

Vince Teresa, lodata da Vittorio Alfieri che nella stessa occasione le assegna il tema del ratto di Europa. Gli argomenti sono sempre mitologici, secondo la moda dell’epoca, ma il talento di Teresa lascia tutti a bocca aperta perché è capace di immedesimarsi tanto nel pathos del racconto da far piangere il pubblico presente, e spesso si commuove talmente da scoppiare in lacrime lei stessa. Non a caso la chiamano l’Improvvisatrice Commossa.

La contessa Teresa Zani nasce nel 1685 a Bologna, e qui muore nel 1752. Teresa ha una vita affettiva e sentimentale abbastanza movimentata. Si sposa tre volte (Francesco Bettini, Conte Agesilao Marescotti e Conte Carlo Felice Scarpinelli), si dice che abbia tra i suoi amanti il poeta e drammaturgo arcadico Pier Jacopo Martelli e Giovanni Battista Zappi. Sotto il suo nome si conoscono undici componimenti poetici. Il più famoso è un inno all’età dell’oro, un Eden scomparso, che ai giorni nostri suona come un richiamo al rispetto della natura e dell’ambiente, un testo poetico di carattere ecologista ante litteram. Vale la pena di leggere lo stupendo incipit di raffinatissima fattura.

«O Bella Età dell’Oro!
Non già perché sedea sul Ciel Colui,
che di sua prole insanguinossi il dente:
non perché i giorni sui
trasse Astrea fra la buona antiqua gente…
ma perché l’Alma umana,
parte del Divin Spirto, in membra allora
signoreggiava, ad obbedirla elette.
O bella all’ Uom l’aurora!
a cui diè il primo sguardo, e in piè si stette;
tutto di sé Signore,
e di quanti animali
nel suol, nell’ aria, e nel non falso umore
o corsero, o nuotaro, o aperser ali.
Fu allor, che uniti in testimon di fede
l’Agnella, e il Lupo iro a lambirgli il piede.
Porgea spontanei all’ Uomo
i dolci frutti, ond’era
carca la vite, e curvo il Fico, e il Pomo;
sì una stagion fu Autunno, e Primavera;
che con Morte giacean dal Braccio eterno
chiusi nell’ avvenir l’Estate, e il Verno.
Volle compagna, e l’ ebbe
qual più vaga, e gentil voler potea,
né si destò, che se la vide al fianco;
al fianco, ond’ ella avea
dedotto il busto affusellato, e bianco.
E il tumidetto in fuori
tornito petto, e il volto
imberbe, e molle, e gli scorrenti errori
del lunghissimo crine all’ aura sciolto,
e l’ elevato lombo, e la sottile
voce, al bel labbro, ond’ ella uscia, simile».

Paolina Secco Suardo Grismondi

Paolina Secco Suardo Grismondi (1746-1801) è una figura di spicco nei salotti letterari bergamaschi del Settecento. Apprezzata poeta, entra nell’Accademia dell’Arcadia con lo pseudonimo di Lesbia Cidonia, ma accusata molto ingiustamente di plagio, viene in seguito coperta da un velo d’ombra e di silenzio, e sui suoi versi si posa la polvere dell’oblio. Colta e bella, viene osannata da molti uomini illustri, soprattutto dal matematico e scienziato Lorenzo Mascheroni, colpito talmente dalle sue qualità letterarie da dedicarle un poemetto, Invito a Lesbia Cidonia (1793).

«O sommi lumi dell’Italia il culto
gradite dell’orobia pastorella,
ch’entra tra voi, che le veraci fronde
spicca dal crine e al vostro piè lo sparge!».

Paolina, donna curiosa, intellettualmente dinamica e intraprendente, e amante delle novità, non si rassegna alla noia mortale che senza sosta la opprime. Desiderosa di poter respirare un’aria culturalmente più stimolante, che la sua Bergamo non può offrirle, viaggia spesso in Italia e all’estero. Per lei è la Francia, segnatamente Parigi, il modello per l’Europa del Settecento, la città che detta le regole della moda, del gusto e delle buone maniere. Tra le affascinanti mode d’Oltralpe, Paolina importa l’amore per il teatro e forma una compagnia di cui diventa prima attrice. L’“illustre e divina sconosciuta” riceve fin da subito apprezzamenti e riconoscimenti per la sua attività. Nella sua lirica più delicata, il sonetto O rondinella, esprime con uno sfogo sincero e dolente tutto il tormento di una vita vissuta con il desiderio di libertà e la sofferenza causata dalle vicende avverse e dall’implacabilità del destino.

«O rondinella che con rauco strido
sembri farti compagna al mio lamento
mentre ti aggiri intorno al caro nido
l’antico ripetendo aspro tormento,
quanto t’invidio! io teco e piango e grido,
ma non ho al par di te l’ali onde al vento
franca ti affidi, e d’uno in altro lido
puoi libera varcare a tuo talento.
Se i vanni avessi anch’io n’andrei felice,
quel dolce a riveder beato suolo
dove partendo ho abbandonato il core;
e là vorrei… ma lassa a me non lice
per l’ampie vie del ciel seguirti, e solo
fatta simile a te son nel dolore».

Ritratto a stampa di Maria Maddalena Morelli pubblicato su Sarah Josepha Hale, Woman’s Record, New York, 1853

Maria Maddalena Morelli (1727-1800) nasce nel 1727 a Pistoia. Fin da bambina dimostra una grande intelligenza, a diciassette anni conosce la filosofia naturale e morale. Ventenne, scopre la vena poetica nascosta che poi la renderà famosa con un’estemporaneità senza pari. Il 1° aprile 1761 istituisce, a Siena, una sua Accademia, l’Ordine dei Cavalieri Olimpici, nel 1764 pubblica a Bologna il Cantico in Lode di Maria Antonietta. L’imperatore d’Austria Francesco I, nel 1765, le offre un posto di poeta laureata presso la corte viennese. Maddalena accetta e si trasferisce nella capitale asburgica.

Qui scrive un poema epico e alcuni volumi di poesie liriche dedicate all’imperatrice Maria Teresa, versi che destano l’ammirazione di Metastasio. Nel 1766 Lord Tylney dà un sontuoso pranzo nel suo palazzo in piazza del Comune a Firenze, invitando Maddalena Morelli a esibirsi con le sue rime improvvisate che piacciono moltissimo e tengono desta l’attenzione dei presenti.

La corona dell’incoronazione poetica di Corilla Olimpica, 1778

Nel 1766, nominata membro dell’Accademia Clementina, pubblica, a Lucca, Per le nozze di Alberto Di Sassonia e Maria Cristina D’Austria. Nel 1771 si trasferisce a Roma, dove entra nell’Accademia dell’Arcadia come Corilla Olimpica. Alcuni suoi contemporanei la descrivono «d’alta statura, di bianca carnagione, con lunghi capelli biondi non impolverati e sciolti, occhi vivacissimi ed azzurri, bocca rosea e grande, sorridente, petto ricolmo, braccia ben tornite».

Nell’Urbe diventa ancora più famosa con una messe di riconoscimenti che le vengono conferiti. Il 31 agosto del 1778, per concessione papale, viene incoronata con il prestigiosissimo titolo di “Poetessa Laureata” e di “Nobile Romana”. Nel corso della solenne cerimonia, su richiesta del pubblico, la poeta improvvisa dei versi in cui descrive le sensazioni che prova nel ricevere l’ambita onorificenza:

«Cerchi la Patria, o Cantor chiaro e saggio?
Entro Pistoia e in riva all’Arno antico
presi le mosse al mio mortal viaggio.
Quivi sul dolce mio terreno aprico
insiem con l’altre donne m’avvezzai
l’ago a trattare al genio mio nemico.
Ma fin d’allora il biondo Apollo amai,
e in Elicona, ove talvolta ascesi,
qualche foglia di lauro anch’io spiccai:
e fin d’allora a sciorre il canto appresi
all’improvviso, e sieguo improvvisando l’estro,
ond’io i vanni della mente ascesi».

Eleonora de Fonseca Pimentel

Costretta in seguito ad abbandonare Roma, torna nella sua terra natale, regala la corona d’alloro alla Basilica della Madonna dell’Umiltà di Pistoia (dove è tuttora conservata), nel 1780 si trasferisce definitivamente a Firenze dove tiene un salotto per tutto il resto della vita. Verso la fine del XVIII secolo, raggiunge una certa notorietà la patriota napoletana di padre portoghese, finita sul patibolo a soli 47 anni, Eleonora de Fonseca Pimentel (1752-1799). Poeta di grande valore, tanto da essere ammessa nel 1768 nell’Accademia dei Filateti con il nome di Epolnifenora Olcesamante, e poi in quella dell’Arcadia come Altidora Esperetusa, a sedici anni già conosce il latino e il greco e compone versi.

Studiosa di scienze matematiche e fisiche, di filosofia, economia e diritto pubblico, a venticinque anni sposa Pasquale Tria de Solis, un ufficiale dell’esercito napoletano, che ha diciannove anni più di lei, da cui ha un bambino che muore a soli due anni. All’amato figlioletto dedica cinque sonetti.

«Figlio, tu regni in cielo, io qui men resto
misera, afflitta, e di te orba e priva.
Figlio, mio caro figlio, ahi! l’ora è questa
ch’io soleva amorosa a te girarmi,

e dolcemente tu solei mirarmi
a me chinando la vezzosa testa.
Del tuo ristoro indi ansiosa e presta

i’ ti cibava; e tu parevi alzarmi
la tenerella mano, e i primi darmi
pegni d’amor: memoria al cor funesta!».

Il sonetto più famoso è il terzo, in cui con accenti struggenti esprime il suo dolore di madre per la straziante perdita.

«Sola fra miei pensier sovente i’ seggio,
e gli occhi gravi a lagrimar m’inchino,
quand’ecco, in mezzo al pianto, a me vicino
improvviso apparir il figlio i’ veggio.

Egli scherza, io lo guato, e in lui vagheggio
gli usati vezzi e il volto alabastrino;
ma come certa son del suo destino,
non credo agli occhi, e palpito, ed ondeggio.

Ed or la mano stendo, or la ritiro,
e accendersi e tremar mi sento il petto
finché il sangue agitato al cor rifugge.

La dolce visione allor sen fugge;
e senza ch’abbia dell’error diletto,
la mia perdita vera ognor sospiro».

Aurora Sanseverino Gaetani (Autore sconosciuto)
Ritratto della letterata veneziana Luisa Bergalli (Anonimo)

Tra le altre scrittrici, più o meno famose e celebrate, meritano un cenno Luisa Bergalli (Irminda Partenide), che debutta nella scena letteraria veneziana, nel 1725, con il melodramma Agide, a cui faranno seguito varie altre opere, tra cui la tragedia Teba e la commedia Avventure del poeta, forse il suo migliore lavoro teatrale; Aurora Sanseverino (Lucinda Coritesia), celebratissima al suo tempo anche se ci resta pochissimo della sua ricca produzione; Ippolita Cantelmo Stuart Gaetani dell’Aquila d’Aragona (Elpina Aroete), animatrice di un affollato salotto letterario nel Palazzo Carafa di Roccella a Napoli; Maria Buonaccorsi Alessandri (Leucride Ionide); Cecilia Capece Minutolo Enriquez (Egeria Nestanea); Giovanna Caracciola (Nosside Ecalia); Isabella Cesi Ruspoli (Almiride Ecalia); Gaetana Passerini (Silvia Licoatide); la ferrarese Elena Virginia Balletti; Elena Riccoboni, attrice, nota come Mirtinda Parraside.

A otto anni la pisana Maria Luisa Cicci (Erminia Tindaride) viene chiusa in monastero perché per il padre, dalla mentalità retrograda, le donne devono badare solo alle faccende domestiche, ma tra le claustrali mura riceve comunque un’educazione letteraria e già a dieci anni comincia a comporre versi. «Invano fu privata d’inchiostro o di penna: piccoli pezzi di pane inzuppati nel sugo dell’uva, ed alcuni pezzetti di legno, le bastarono per segnare i suoi pensieri» annota uno storico del tempo. Non è rimasto, purtroppo, quasi niente dei suoi scritti poiché poco prima di morire ad appena 33 anni chiede di darli alle fiamme.

In copertina: In Arcadia, di Friedrich August von Kaulbach.

***

Articolo di Florindo Di Monaco

Florindo foto 200x200

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.

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