Il bello di vivere in montagna, è che anche quando piove si trova sempre qualcosa da fare. Un giorno si lavora il legno, un altro si dipingono i sassi raccolti nel torrente, si esce con la macchina fotografica a cogliere i giochi di luce delle nubi tra i rami, oppure ci si prepara una buona tisana e si rimane a guardare la fiamma del camino che scoppietta allegra. Se è stagione, come adesso, si può anche mettere qualche generosa manciata di castagne sul fuoco e condividere i doni autunnali del bosco con le amiche e gli amici. Quest’anno le bruciate (come chiamano qui le caldarroste) me le ha portate Carlo, uno dei miei alunni diplomati a giugno.
Ha voluto farmi un regalo anche se non ha niente, Carlo, letteralmente. La sua famiglia vive in una frazione semi abbandonata in mezzo ai boschi della Bassa Valle, sul versante retico, più solivo di quello orobico. Sono queste le sole ricchezze di Carlo: il sole, i castagni dei boschi, la legna per il fuoco, le pietre e i funghi, quando ne trova. Per il resto si arrangia con ferraglia raccattata in discarica, che rivende o aggiusta a modo suo, con una certa fantasiosa maestria, a onor del vero. Negli anni ha sviluppato un certo occhio per i vecchi arnesi ancora utilizzabili o gli antichi attrezzi di cui le giovani generazioni si sbarazzano senza troppi indugi, non sapendo più cosa farsene di un gira fieno arrugginito, un falcetto senza manico o una carriola di legno tarlata. Lui recupera, aggiusta, ricicla, trasforma e alla fine, quando è fortunato, rivende. È affascinato dalle anticaglie, quando ne trova una l’accoglie come un tesoro.
Casa sua è una piccola baita tra i ruderi, che pian piano, tra mille difficoltà, la sua famiglia sta cercando di rendere dignitosa, ma che al momento somiglia più a una discarica di rottami semi abbandonata. Un piccolo pollaio nel praticello antistante (anche se le galline preferiscono razzolare sul balcone di casa), un cortiletto sul retro, dove un’enorme tartaruga d’acqua galleggia rassegnata in una vasca di plexiglass piena di melma verde. La povera bestiola è stata un regalo che Carlo ha chiesto ai genitori, alcuni anni fa, quando era ancora un ragazzino. Si sa che occuparsi degli animali è una forma di terapia per molte/i bambini fragili, che imparano, attraverso la cura di un altro essere vivente, nozioni fondamentali sugli affetti, sui bisogni primari, sulle autonomie, la costanza, l’impegno e le relazioni.
Quello che ha fatto Carlo è stato occuparsi della tartaruga per circa una settimana. Dopodiché la poverina non ha suscitato in lui più nessun interesse ed è stata abbandonata al suo destino, nella vasca di plexiglass. Fortunatamente qualcuno, in famiglia, ha continuato a darle da mangiare, tanto che oggi il rettile corazzato ha raggiunto dimensioni di tutto rispetto. La costanza di Carlo, invece, non è cresciuta di un millimetro. È fatto così, lui: si stanca presto. Una sola cosa non ha mai smesso di fare, da quando ha iniziato: raccattare e trasformare rottami. Oggi questo ragazzo cresciuto a polenta e formaggio sa costruire muretti a secco, sa forgiare il metallo, ripara motorini, costruisce appendiabiti in legno di castagno, taglia alberi e prati, riporta in vita ciò che sembrava irrimediabilmente rotto. Sa aggiustare quasi tutto, Carlo, tranne se stesso.
Questa estate, dopo essersi diplomato meccanico con un punteggio più che rispettabile, ha provato a cercare lavoro. Ne ha iniziati quattro diversi. Non è riuscito a tenersene neppure uno. Perché lontano da quel posto dimenticato da Dio e dagli uomini che è la sua piccola frazione nel bosco, è completamente perso. Fatica a respirare, si sente svenire, è colto dal panico. La fabbrica lo costringe in luoghi chiusi e lui cerca il cielo sopra la testa. I campi lo lasciano scoperto e visibile e lui si sente insicuro e nudo lontano dai suoi ombrosi castagni. L’alpeggio sembrava fare al caso suo, ma la dimensione di quegli spazi al sapore d’infinito lo disorientava.
Dov’era la sua minuscola camera? Dove la sua officina piena di ferraglie a tenergli compagnia? La cruda realtà gli si è posta davanti senza sconti, con impietosa verità: lontano da casa lui non sta stare. Anche se casa vuol dire quattro mura scrostate e selva tutto intorno. Anche se famiglia significa grida e insulti, qualche volta pure botte. «Prof, io lo so che sono fatto male, che non ce la faccio da solo. Sono nato deficiente. Ma non è che faccio finta, non è che non voglio lavorare. Io sto male, mi batte il cuore che sembra voler scappare fuori, mi manca l’aria. Io voglio stare bene, ma non ci riesco lontano dai miei posti, in mezzo alla gente che non conosco».
Eccolo qui l’ennesimo fallimento del welfare italiano. Quello della scuola, che lo ha mandato per tre anni a fare lo stage nello stesso posto, in ditta insieme a suo padre. Quello della psicologa, che non ha mai lavorato sul suo senso di autoefficacia. Quello della neuropsichiatra, che per i disturbi d’ansia ha fatto pochissimo (Carlo non dorme bene da anni, mangia appena, perde capelli a manciate). Quello dell’assistente sociale che lo ha lasciato crescere in un ambiente privo di tutto: regole, decoro, affetti. Quello dell’educatrice domiciliare, che non gli ha mai permesso di mettere il naso fuori di casa, da quella tana per lui sicura, ma che ha finito per diventare la tomba della sua anima. Guardiamoci in faccia, signore, e ammettiamolo con franchezza: abbiamo fallito. Sulla pelle di Carlo non abbiamo saputo fare squadra, analizzare seriamente i suoi bisogni, comunicare tra noi e costruire un percorso solido e finalizzato alla sua realizzazione personale e umana. Quanti soldi pubblici abbiamo fatto spendere alla collettività per non arrivare a capo di nulla? Facciamo i conti senza riserve: siamo in sei (insegnante di sostegno, assistente scolastica, assistente sociale, educatrice domiciliare, psicologa e neuropsichiatra), ci siamo state per anni e non siamo riuscite nel compito più importante che ci era stato assegnato.
Certo, oggi Carlo ha un diploma. Sa usare un pc, probabilmente a breve prenderà anche la patente. Ma a che pro? A cosa gli servirà tutto questo, a cosa le competenze tecnico-pratiche, se poi gli mancherà sempre la sola cosa che potrebbe farlo entrare con successo nel mondo degli adulti, cioè la fiducia in sé stesso? E con ragazzi e ragazze non possiamo mica dire «Scusate, abbiamo sbagliato, ricominciamo da capo» perché intanto la vita è andata avanti e ciò che si è perduto non si recupera più.
***
Articolo di Chiara Baldini

Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.