Pensiero politico e questione femminile

Il Manuale di pensiero politico e questione femminile, autrice Fiorenza Taricone, uscito da pochi mesi, unico nel suo genere, ha suscitato in me molto interesse, curiosità, e anche una impercettibile ansia rispetto alle tensioni, al dispotismo, alle repressioni, alla sopraffazione, ai diritti negati; insieme, anche infuso speranza nel superamento del buio, nella capacità di “resurrezione”. Il Manuale restituisce alla conoscenza di donne e uomini un “elenco dei nomi” puntuale, esaustivo, una ricca bibliografia con un indice molto bene articolato. Il tutto permette di orientarsi nella lettura e soprattutto rilettura e offre una notevole serie di possibilità per approfondimenti successivi.

Poniamo alcune domande all’autrice, docente di Pensiero politico e questione femminile presso l’Università di Cassino e Lazio Meridionale.

Quali sono le voci e i tempi principali presenti nel Manuale?
Il libro inizia con il Seicento, secolo del contrattualismo, ovvero la nascita di una società politica mediante un contratto sottoscritto verbalmente o tacitamente fra uomini liberi e uguali che per vari scopi, primi fra tutti cercare protezione e difendere le loro proprietà, affidano la vita e la libertà a un potere sovrano. Dal contrattualismo, ideato e teorizzato da pensatori, giuristi, filosofi, originano successivamente le società liberali e democratiche, e si sancisce fin dal suo nascere l’esclusione femminile. Le donne non sottoscrivono nessun contratto, sono considerate solo all’interno della famiglia e siglano esclusivamente un cosiddetto contratto sessuale, che è quello di soggezione al marito-padrone. Come incipit, mi sembra chiaro. Poi, il dialogo dei due generi prosegue con i nomi femminili di Mary Astell che risponde al liberale Locke, di Olympe de Gouges con la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, di Mary Wollstonecraft, per il Settecento, per proseguire con le autrici della Dichiarazione dei sentimenti americana, e per l’Ottocento con nomi piuttosto sconosciuti direi, come la prima italiana che fa osservazioni critiche al comunismo nascente. Le figure femminili sono tante, e messe insieme fanno capire chiaramente che a noi è arrivato finora solo un racconto politico monocorde.

Mi sembra che tu, attraverso un lavoro certosino, encomiabile, di ricerca durato più di venti anni, abbia raggiunto in modo organico l’obiettivo di far emergere che il pensiero politico è stato anche appannaggio delle donne e non riservato agli uomini. Perché allora è stato necessario citare nel titolo: questione femminile? Mi addolora e indigna il fatto di far parte di una “questione”, ossia costituire un problema.
Perché la questione femminile esiste da quando se ne ha piena consapevolezza, cioè da molti secoli, ed esiste ancora; la storia non è lineare e, notoriamente, passare dall’essere la femmina del maschio alla soggettività autonoma dell’essere donna è stato un processo millenario non ancora concluso, anzi, per molta parte del mondo ancora agli inizi. L’avverbio che ho usato però, notoriamente, riguarda molto meno le giovani di prima e seconda generazione rispetto al neofemminismo degli anni Settanta, che, per un insieme di fattori, ignora o sottovaluta le tappe sofferte di questo processo; comunque lo si voglia chiamare, emancipazione e/o liberazione, ha comportato lotte, prese di posizione, scelte, rinunce, finalizzazione delle proprie esistenze, anche solo impegnate a porsi interrogativi di non poco conto. Per un sesso considerato solo tale, eternamente minorenne tranne che per fare figli e lavorare, diventare finalmente un problema e non un ciclo naturale sempre uguale a sé stesso, per quanto paradossale ha rappresentato una conquista. La prima legge contro la violenza sessuale in Italia del 1996, che ha impiegato venti anni prima di arrivare in porto, per cui il reato non era più contro la morale ma contro la persona, è un tassello evidente di questa crescita: non più cosa, ma persona, con tutto il carico di responsabilità e chiaroscuri che ciò comporta. Il Manuale che pone sotto gli occhi delle lettrici e dei lettori, quasi con un’irruzione, scrittrici e pensatrici politiche finora non considerate tali perché la politica è stata una cittadella a lungo inespugnata, rende evidente la problematizzazione; perché escluse fino alla conquista dei diritti politici? Quale è stata la modalità femminile di essere comunque un soggetto politico? Di quali limiti hanno sofferto nella produzione scritta e orale, circoscritta a pochi generi di produzione culturale? Si sono auto-ghettizzate?

Ritieni possibile che le battaglie femministe del XX e XXI secolo e successivi potranno risolvere la questione?
Per fortuna la storia che, come ho detto, non ha un percorso lineare, non conosce però neanche l’immobilismo. Il femminismo ha avuto e ha i tratti di una rivoluzione permanente, come dico spesso «grondante poco sangue ma molti frutti». È rivoluzionario proprio perché dopo la fase di piazza, di protesta, di mobilitazione collettiva è diventato anche quello che è stato chiamato femminismo diffuso, il che non ha significato una regressione o un declino, ma piuttosto la sedimentazione nelle coscienze. Le criticità sono nella trasmissione generazionale, che ha sempre costituito un problema non solo per il femminismo, ma per tutte le manifestazioni collettive. Quando ho proposto l’istituzionalizzazione delle discipline di genere nelle Università, iniziando alla fine degli anni Ottanta, e ho scritto ora il Manuale, intendo questo: costruire una eredità collettiva di saperi non più casuale, ma obbligatoria nei percorsi del sapere. Non può essere facoltativo conoscere cosa è accaduto nella società civile e politica rispetto alla differenza di genere o, come sarebbe più esatto dire, rispetto alle differenze fra i tanti generi.

Sarebbe forse opportuno fare riferimento alla psicanalisi per comprendere come si “costruisce” l’identità di una persona e riflettere sulle differenze di genere? Tutto questo appartiene al pensiero politico?
La scoperta dell’inconscio ha rivoluzionato il mondo novecentesco; sarebbe difficile pensare che tutto ciò non abbia avuto un effetto sulle coscienze e sull’agire individuale e collettivo; ovviamente questo non si è tradotto immediatamente in leggi e incarichi politici, ma la presenza della psicanalisi è del tutto evidente nel neofemminismo degli anni Settanta. Fra i numerosi collettivi che hanno reso il femminismo unico nelle sue modalità partecipative e riflessive, uno si chiamava Collettivo Pratica dell’inconscio, che esaminava anche il rapporto con la madre. Cito, per fare un esempio: «i sogni e le fantasie che si celano dietro la diffusa resistenza delle donne al femminismo meriterebbero maggior riconoscimento politico… la nuova familiarità che si crea in un gruppo tra le donne che ne fanno parte riattiva e rimette in gioco il rapporto della bambina con la madre. Questa intricata vicenda di amore-odio, desiderio-aggressività si preannuncia nelle esitazioni che accompagnano per molte l’approccio al femminismo… così l’aggressività che è il nemico interno più resistente agli sforzi unitari delle donne, negata o ridotta esclusivamente alla violenza che altri fanno alle donne, sfugge per intero al processo di analisi politica».

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Articolo di Gabriella Anselmi

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Docente di matematica e formatrice in Italia e all’estero, presso Istituti Superiori e Università, da sempre attiva nell’associazionismo, e già presidente nazionale FILDIS, è componente del Direttivo della Rete per la Parità, del CNDI, di Toponomastica femminile, della GWI (Graduate Women International) e dell’UWE (University Women of Europe).

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