Esa casa amarilla. L’aborto come non l’avete mai visto

Esporsi pubblicamente per parlare di aborto, del proprio aborto, in questo momento storico non è solo coraggioso, ma è anche necessario.
In Italia negli ultimi mesi, si è proposto di riconoscere la capacità giuridica al concepito e la ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità ha affermato in diretta televisiva che l’aborto non è un diritto, ma il lato oscuro della maternità.
Di fronte a tutto questo, rompere i tabù, spezzare i pregiudizi e raccontare il proprio vissuto è un gesto audace e rivoluzionario. La rappresentazione che la cultura patriarcale fornisce dell’interruzione volontaria di gravidanza (ivg) è tutta racchiusa nella parola oscuro: un termine che trasmette negatività, che relega questa procedura medica a un’esperienza di cui è bene non parlare, come un peccato da espiare con il silenzio e la vergogna.
In realtà, l’aborto è un diritto strettamente legato ai diritti alla salute, all’integrità psico-fisica e all’autodeterminazione. Ogni essere umano è titolare di diritti solo per il fatto di appartenere all’umanità, indipendentemente dalla loro codificazione in un sistema legale nazionale, poiché nessun governo può disconoscerli. I diritti umani non dipendono dalle leggi, ma dalla stessa appartenenza alla specie umana. Risulta quindi chiaro che negare un diritto è un crimine ed è ancora più chiaro che sui diritti non dovrebbero esistere dibattiti, ma solo azioni atte a rendere sempre più facile il loro riconoscimento e la loro piena legittimazione.
In Italia dal 1978 esiste una legge che consente di abortire, ma non senza una buona dose di senso di colpa e la garanzia che sarà un percorso a ostacoli. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) definisce l’aborto una procedura medica comune e sicura, se gestita da personale competente e all’interno di strutture adeguate. Tutto cambia quando, a causa di leggi restrittive, le persone sono costrette a ripiegare su metodiche clandestine. I dati Oms 2021 sulla mortalità materna post aborto illegale sono i seguenti: se nei paesi ricchi si registrano 30 decessi ogni 100mila aborti non sicuri, il numero cresce vertiginosamente nei paesi in via di sviluppo, arrivando a 220, senza contare i 7 milioni di ricoveri annui per complicanze quali emorragie, infezioni e perforazioni uterine.

Il film Esa casa amarilla (La casa gialla) si colloca proprio in questo contesto di negazione dei diritti, ma soprattutto di silenziamento dei vissuti.
Le due registe e co-protagoniste Valeria Ciceri, italiana di Como classe 1990, e Marina Vota, argentina classe 1991, sono due amiche che hanno entrambe abortito e si sono scontrate con lo stigma e il senso di colpa che la società vuole affibbiare a chi decide liberamente del proprio corpo.
Con un budget ridottissimo, sono riuscite a girare e montare un film della durata di circa un’ora, che ha la peculiarità di veicolare importanti messaggi,coinvolgendo spettatori e spettatrici grazie alla sua semplicità.
Siamo in Argentina qualche anno fa, quando abortire era ancora illegale (la depenalizzazione dell’aborto nello Stato sudamericano risale a dicembre 2020). Le ragazze sono sulla loro macchina e guidano per le vie di Buenos Aires alla ricerca della famosa casa gialla, edificio dove si praticavano interruzioni di gravidanza clandestine.
Il loro viaggio si alterna alle testimonianze delle donne che hanno abortito illegalmente nel Paese, a riprova che criminalizzare l’aborto non serve a impedirlo, ma mette solo a rischio la vita e la salute di chi vi si sottopone. Le donne hanno la possibilità di far sentire la propria voce e raccontare la loro esperienza: la paura di morire, il ritrovarsi sole, il dover vendere anche gli oggetti più cari per potersi permettere l’intervento sono solo alcuni dei traumi legati al vissuto abortivo. Questo è quello che succede quando un diritto viene schiacciato e negato: il vero trauma è doversi destreggiare per capire come interrompere una gravidanza non voluta e affrontare un calvario fatto di paura e sconforto.
Partite dall’Argentina, Valeria e Marina arrivano in Italia ed è proprio nel nostro Paese che la differenza tra la vecchia e la nuova generazione è più evidente. Le donne che hanno abortito clandestinamente negli anni ‘70 raccontano quanto l’esperienza le abbia segnate e ne ricordano ogni particolare, come l’utilizzo della pompa della bicicletta per aspirare il contenuto dell’utero. Le ragazze più giovani, invece, hanno potuto espletare la procedura in ospedale e in anestesia, in totale sicurezza, ma nonostante questo si sono comunque confrontate con personale obiettore che ha negato loro l’aiuto necessario, senza nemmeno indicare una struttura che avrebbe invece garantito l’esecuzione dell’ivg. «Noi queste cose non le facciamo»: ecco la violenza racchiusa nelle parole rivolte a Valeria in un noto ospedale di Como.

Il film non ha la presunzione di voler rappresentare tutte le realtà abortive: le registe sono ben consapevoli che ciò non sarebbe possibile, ma ha il pregio di restituire la parola alle donne. Troppe volte le voci e i vissuti delle persone che hanno abortito sono state silenziate, per permettere a politici, rappresentanti religiosi e movimenti antiabortisti di usare i corpi delle donne per la loro propaganda.
Questa pellicola prende una posizione netta riguardo l’aborto, perché è solo con la determinazione che si difendono i diritti. Non si può restare neutrali di fronte alla violenza che viene esercitata quotidianamente nei confronti delle pazienti che si recano nelle strutture sanitarie per interrompere una gravidanza e vengono trattate come assassine, denigrate, umiliate, costrette a sentire il battito cardiaco fetale, rimbalzate da un consultorio all’altro, obbligate a cambiare regione e perdere giorni di lavoro.
Molto spesso anche chi si dice a favore della libera scelta utilizza un registro paternalistico, presentando l’interruzione volontaria di gravidanza come un’esperienza sempre traumatica e dolorosa, oppure portando esempi di casi come le violenze sessuali o le gravi patologie fetali, per rendere l’aborto più accettabile agli occhi della collettività.
Il film ricorda che molto spesso il trauma dell’aborto è legato alle enormi difficoltà che le donne incontrano nel loro percorso e al non rispetto delle loro scelte sia da parte del personale sanitario, sia da parte di coloro che continuano ad alimentare la visione distorta dell’aborto come un tabù e un fardello da portare. In un mondo dove una donna su quattro ha fatto ricorso all’ivg nell’arco della vita, è necessario fermarsi a riflettere sull’importanza di cambiare la prospettiva nei confronti dell’aborto e considerarlo parte della quotidianità e della normalità, affinché nessuna persona abbia più paura di raccontarsi e vedersi riconosciuto il proprio vissuto e soprattutto affinché nessuna persona abbia più timore di sentirsi libera di decidere per se stessa e per la propria vita.
In una scena del film si parla di aborto proprio mentre si prepara il pranzo, non di nascosto o sottovoce, ma, rotto l’imbarazzo iniziale, se ne discute come se fosse un normale argomento di cui chiacchierare tra madre e figlia o tra amiche. Molte persone si sentono sole, colpevoli, semplicemente perché non hanno la possibilità di uscire dalla prigione di silenzio e vergogna in cui la nostra società le ha rinchiuse e trovare altre donne che raccontano le loro storie le aiuta a rielaborare la propria esperienza in senso positivo.
La sorellanza e la vicinanza tra le donne sono il fulcro su cui ruota tutto il film. Il coraggio e la determinazione di queste due giovani registe regalano speranza nel futuro e sono una ventata di aria fresca di cui si sente sicuramente bisogno.
Il loro è un grido per dire al mondo: «abbiamo abortito, esistiamo, i nostri vissuti ci appartengono e non abbiamo più paura di raccontarli».

In copertina: le due registe.

***

Articolo di Elisabetta Uboldi

Laureata in Ostetricia, con un master in Ostetricia Legale e Forense, vive in provincia di Como. Ha collaborato per quattro anni con il Soccorso Violenza Sessuale e Domestica della Clinica Mangiagalli di Milano. Ora è una libera professionista, lavora in ambulatorio e presta servizio a domicilio. Ama gli animali e il suo hobby preferito è la pasticceria.

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