Superare gli stereotipi di genere

Pubblichiamo insieme i tre racconti premiati al X Concorso Sulle vie della parità, composti da studenti del Liceo Scientifico Annibale Calini di Brescia, avvertendo che, come sempre, i testi sono stati editati, per eliminare piccole imperfezioni – ridondanze, ripetizioni, ineleganze – eventualmente esistenti. Dal confronto tra le due versioni autori e autrici potranno trarre utili indicazioni, discutendone magari con le/i docenti.

Il Premio per le Classi Prime è andato al racconto, privo di titolo, ideato da Marta Zobbio, della I N, che ha scelto l’incipit n. 4 (di Mariapia Veladiano) ed è stata seguita dal prof. Matteo Giliberti. Questo il giudizio della giuria:
«Nonostante qualche incertezza iniziale nel raccordarsi all’incipit, il racconto appare ben documentato, ha una sua coerenza e aderisce al tema proposto. L’espressione è perlopiù adeguata».

Incipit:
Lo faccio da sempre quando i miei hanno ospiti a cena. Chiudo bene la porta della camera, se non lo facessi di là parlerebbero più piano e non potrei sentire, poi prendo il cuscino del letto, mi distendo sul parquet, appoggio la testa sul cuscino e incollo l’orecchio alla porta. Poi ascolto. I discorsi che i grandi fanno dopo una cena con gli amici, quando pensano di non essere sentiti dai figli, sono i più interessanti. È così che ho saputo cosa è successo al barboncino dei vicini che un giorno ha smesso di abbaiare ed erano stati tutti gli altri, compresi i miei genitori, a chiamare i vigili e Luc era finito al canile. Quella volta non ho parlato per una settimana dalla rabbia e però non potevo dire perché. Quando con gli amici parlavano di politica mi addormentavo, ma capitava poche volte. Quella sera parlavano di maschi e femmine, interessante.
“Oggi c’è una bella libertà”, dice Clara, l’amica della mamma. “I figli possono scegliere strade che una volta erano impossibili. Ci sono donne magistrate, uomini baby sitter…”
“I manny”, dice la mamma.
“Sì, e nessuno si stupisce più”, conclude Clara.
“Beh, c’è un limite”, è mio padre a parlare. “Te la immagini una donna camionista?”
“Ma ci sono. Ne abbiamo una in azienda, bravissima”, lo interrompe Clara.
“Sì, ma dài, che lavoro è per una donna?”
Io seguivo senza respirare la discussione. Mi chiedevo che cosa sarebbe successo, quando, un giorno, di lì a poco, avrei detto loro quello che avrei davvero voluto fare nella vita.

Mi chiedevo come avrei fatto a frantumare tutti i sogni dei miei genitori con una sola frase. Il sogno di mia madre di vedermi all’altare e di mio padre che mi immaginava come lavoratrice perché, puntualizziamolo, lui non voleva che io fossi una casalinga, ma che mi realizzassi lavorativamente, anche se gli bastava che facessi un lavoro qualsiasi, solo per poter dire di lavorare e portare a casa qualche soldo. Lui però voleva che io stessi con i miei futuri figli tutti i pomeriggi e i week-end. Voleva che io sentissi la loro prima parola, assistessi ai loro primi passi, li portassi dal pediatra o a fare sport, li accompagnassi a scuola.
Ma io non voglio nulla di tutto questo.
Non vivrò per qualcun altro. Io mi aspetto di vivere a pieno la mia vita, realizzando i miei sogni: voglio fare la giornalista, andare nei Paesi in guerra per documentare fatti che spesso vengono dimenticati o nemmeno appresi, per raccontare la realtà. Questo gli avrei detto.
Ma sapevo già la risposta di mio padre: «Una donna non può fare un lavoro così impegnativo e pericoloso, lei deve badare ai suoi figli, non rischiare di farli rimanere orfani!».
Come dirgli che no, io non voglio avere figli né diventare come tante donne che conosco, io non vedrò i miei figli crescere e andarsene di casa lasciandomi a un destino di solitudine. Io desidero fare carriera, essere una donna libera. Con o senza figli, questo lo deciderà il futuro, ma per certo so che non li avrò solo per sentirmi realizzata in quanto donna.
Era una sera, non molto distante dalla mia riflessione, e stavo cenando con la mia famiglia. I miei si stavano congratulando con mio fratello per il lavoro provvisorio di cui era stato incaricato dalla sua azienda: andare qualche mese  in Australia come biologo marino. Non volevo rubargli la scena, ma non sapevo quando e se avrei avuto un’altra opportunità, così a portata di mano, per parlare dei miei progetti lavorativi. Quindi, interiormente spaventata a morte ed esteriormente rilassata, dissi: «Anche io vorrei parlarvi di qualcosa per quanto riguarda il lavoro. Ci ho pensato, e so di essere giovane, però è un sogno che coltivo da quando sono bambina».
Mio padre mi interruppe subito: «Arriva al punto!». «Ok», dissi, «ho scoperto che sta iniziando un corso all’Università, per giornalisti che vogliono specializzarsi nei reportage di guerra, e vorrei frequentarlo».
Mio padre, inizialmente serio, fece poi un sorrisetto e disse: «Ma certo, sai come ammiri gli intraprendenti e poi sei brava a scrivere di tematiche anche pesanti». Ero entusiasta. Possibile che mi avesse capito? Poi ripensai alle sue ultime parole e sottolineai: «Ovviamente intendo essere un’inviata nei Paesi in guerra, per poter documentare fatti visti realmente con i miei occhi».
A quel punto la sua faccia si fece seria, confusa e arrabbiata allo stesso tempo.
«Possibile che non ti basti mai niente?» sbraitò, «Come pensi di creare una famiglia se tu stessa non ti ci vuoi impegnare? Se vuoi essere sempre in viaggio per lavoro? Cosa pensi, che i tuoi figli crescano senza una madre?».
Subito ruggii: «Cosa ti fa pensare che io voglia dei figli? Perché lo dai costantemente per ovvio? Perché non ti è mai interessata la mia opinione a riguardo?».
Mio padre divenne rosso in volto: «Voi ragazze di oggi farete sprofondare questa società se continuerete a pensare solo a voi stesse; se voi non avete figli, come pensi che andranno avanti le generazioni?». Io ribattei: «Una donna può scegliere di avere oppure no dei figli, e voi, uomini, piuttosto di ribadire che le donne non possano aspettarsi grandi lavori e grandi carriere e debbano avere figli per forza, iniziate a occuparvi dei vostri figli, in modo che una donna, quando li ha, non debba pensare che siano il suo unico futuro, ma sappia di poter continuare la sua vita, potendo fare affidamento su di un padre!». Con questa frase sbattei la porta della camera al terzo piano, sentendo ancora la voce di mio padre che mi urlava quanto fossi ingenua.
Dopo quella sera iniziai a pensare a tutto quello di cui avevamo parlato. Non mi preoccupava tanto la questione del lavoro, che avrei potuto risolvere in qualche modo; mi infastidivano il suo atteggiamento, i suoi modi di parlare e le sue idee riguardo alle donne. Quelle sì che mi facevano imbestialire.
Dovevo parlargli per fargli capire che si sbagliava.
Così iniziai alcune ricerche sulle donne che hanno cambiato la storia, in modo da dimostrargli che anche il mio sesso può essere determinante nella società.
Quando finii presi un mappamondo e chiamai mio padre.
Iniziai indicando la nostra penisola, precisamente il Trentino alto-Adige. Mio padre non capiva cosa stessi facendo, ma prima che iniziasse a fare domande iniziai a parlare: «Sai che Samantha Cristoforetti è nata proprio qui?» gli chiesi.
Sembrava non capire, ma annuì, allora ripresi: «Era una semplice ragazza, nata in un paesino come tanti, e un giorno si accese una piccola luce dentro di lei: seppe quello che sarebbe voluta diventare, forse proprio mentre era sdraiata in uno degli splendidi prati della val di Sole e guardava il cielo stellato, proprio come facciamo noi ogni estate. Il suo sogno era diventare un’astronauta e lei, affrontando difficoltà e pregiudizi, riuscì a realizzarlo!».
«Sì, abbandonando i suoi figli…» sbuffò mio padre.
«Ed è qui che ti sbagli, perché questa affermazione per gli astronauti uomini non la fai».
«No, perché non sono loro ad accudire i figli; e anche se i padri sono in viaggio per un lungo periodo, ai bambini basta l’affetto materno: il contrario non è possibile».
«Tu giudichi basandoti troppo sui comportamenti più diffusi. In un’intervista rilasciata dalla Cristoforetti, lei stessa afferma che il padre è sempre stato il punto di riferimento dei suoi figli; afferma anche che è lui a occuparsi di tutte le faccende domestiche. Dipende dalle situazioni. Le differenze non si fanno in base al genere. Samantha è riuscita a creare una famiglia e al contempo a realizzare i suoi sogni, nonostante sia donna. Questo non ti sembra sufficiente per smentire i tuoi strani ideali?».
Mio padre mi guardava con un’espressione da cane bastonato e, prima che riuscisse a ribattere, indicai un altro paese: la Finlandia.
«Sai chi è il primo ministro della Repubblica finlandese?» gli chiesi.
Come potevo prevedere mi rispose: «Non so, diciamo che ho sentito dire che è una giovane donna…».
«Esatto. Si chiama Sanna Marin ed ha 38 anni, è la più giovane capo del governo nella storia della Finlandia, nonché la terza donna capo di governo in quel Paese».
«Suppongo nubile e senza figli…» disse sottovoce. Feci finta di nulla.
«Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, Marin, col suo governo, ha ufficializzato la svolta, presentando la domanda di Helsinki per aderire alla Nato» dissi, e solo per il gusto di vederlo stupito e pensieroso conclusi: «Inoltre sua figlia ha preso il suo cognome, invece di quello del padre».
Spostai poi il mio dito sulla Francia: «Negli Champs Élysées, nel 2004, Monica Bellucci, una modella di origini italiane, divenne la prima personalità non francese ad attivare l’illuminazione nella tradizionale cerimonia natalizia. Nella sua carriera ha preso parte a svariati film di notevole successo internazionale ed è stata membro della giuria in rappresentanza dell’Italia al Festival di Cannes del 2006. Ha avuto due matrimoni, e dall’ultimo ha avuto due figlie».
Toccai poi il Regno Unito e parlammo di Margaret Thatcher: «Sicuramente saprai che è stata il primo ministro inglese, però ha ricoperto tale incarico per più tempo in assoluto nel XX secolo e pure lei ha avuto due figli».
Infine mi alzai e gli chiesi: «Dove tieni la tua collezione di Diabolik?».
«Nell’armadietto vicino alla mia scrivania. Perché?».
Non risposi. Lo aprii, presi una copia e tornai da lui. «Sai da chi sono stati scritti?» Dissentì.
Aprii allora la prima pagina e indicai una scritta «A. e L. Giussani», lesse. «Chi sarebbero?» mi domandò.
«Sarebbero due sorelle italiane che, ispirandosi a un fatto di cronaca nera, fecero la storia dei fumetti da sole. Angela, la primogenita, si licenziò dalla casa editrice del marito per iniziare a scrivere, e poi a lei si aggiunse la sorella Luciana».
Mi guardò con un’espressione che non dimenticherò mai, come se gli avessi appena infranto tutti i sogni.
Era ormai tardi ed entrambi eravamo stanchi, così mi disse: «Belle storielle, ora però devo andare a dormire», e se ne andò.
Il giorno seguente parlammo e mi disse: «Credo di aver capito le tue intenzioni e il tuo punto di vista», si interruppe un attimo e poi continuò: «Hai ragione, in fondo una donna può benissimo conciliare il lavoro con la famiglia».
Ero soddisfatta ma volevo chiarire tutto e allora gli dissi : «Ti ho raccontato di donne eccezionali, però devi capire che una persona non si deve sentire in obbligo di avere dei figli, come invece spesso accade. Sono stati creati anche dei gruppi childfree per normalizzare questa cosa. Non finirà di certo il mondo se alcune donne preferiscono dedicarsi alla propria vita e ai loro obiettivi».
Quello stesso pomeriggio, mentre scorrevo le mail, mi imbattei in una che confermava la mia iscrizione al corso di reportage, firmata da mio padre.»

Il Primo Premio per le Classi Seconde è andato al racconto Cogli L’attimo, di Eleonora Ghizzi, studente della II N. Seguita dalla prof.ssa Silvia Mattioli, ha scelto anche lei l’incipit di Mariapia Veladiano. Questo il giudizio:
«Invenzione plausibile e garbata, che si raccorda agevolmente con l’incipit. La storia, aderente al tema, appare ben articolata, animata da personaggi delineati con tratti sicuri e contraddistinta da un tono personale. L’espressione è sciolta e corretta».

Quella discussione dopo la cena mi aveva lasciato con un bel po’ di insicurezza. Non avevo mai sentito parlare in quel modo i miei genitori, soprattutto mio padre.
Il giorno dopo, mentre andavo a scuola, mi decisi a discuterne con i miei amici. Mi ero aggregato ad un gruppetto di compagni di classe durante i primi due anni di superiori ed ero convinto che mi avrebbero supportato: d’altronde, parlavamo spesso di argomenti fuori dal comune, a mio parere mille volte più interessanti di ciò di cui discutevano gli altri ragazzi della classe…Noi eravamo considerati gli “emarginati” della classe, che preferivano telefonarsi o collegarsi online per fare una partita o due durante il pomeriggio piuttosto che uscire di casa e “godersi la vita”.
Io mi divertivo così con i miei amici. “Abbiamo solo quindici anni – pensavo – e tutto il tempo per fare qualsiasi cosa vorremo fare in futuro”. Non avrei cambiato la mia situazione per nessuna ragione al mondo.
“Stefano!” esclamava Omar, il più simpatico, aperto ed estroverso del gruppo. Era uno dei pochi della nostra cerchia dotato di vivacità e di un po’ di sana sfrontatezza.
“Ehi, Omar! Pronto per la verifica di geostoria?”. Mi guardò con un’espressione furba e quasi ironica, ed io intuii subito la risposta. Ovvio che no. Lui odiava geostoria. “A ricreazione ti voglio parlare di una cosa”. Osservò la mia faccia con uno sguardo sospettoso,  ma per scherzo, e rispose: “Ok, sembra interessante. Chiediamo anche agli altri, stile riunione aziendale?”
Sogghignammo entrambi mentre arrivava la Prof in classe.
Quando suonò la campanella di fine lezione, ci ritrovammo tutti nella stanza vicino alle macchinette, luogo eletto dal gruppo per discutere di argomenti particolari. Sapevamo che non era affatto comune trovarsi in un’aula abbandonata per parlare durante la ricreazione, ma non ci importava di quello che avrebbero pensato gli altri di noi. “È proprio una bella amicizia” pensai.
“Allora, Stefano, di che vuoi parlare?” disse Gaia, la più schietta di tutti (talvolta un po’ arrogante, ma sapevamo che in fondo voleva bene a tutti): il modo in cui lo aveva detto faceva sembrare il ritrovo come una specie di gruppo di terapia. Il pensiero mi fece leggermente sorridere. Domandai: “Avete mai pensato a quello che volete fare nella vita? Cioè del vostro… lavoro, dei sogni o della carriera che preferireste se aveste tutte le possibilità del mondo?”. Ci scambiammo delle occhiate curiose, aspettando che qualcuno trovasse una risposta. Nessuno aprì bocca, ma in fondo avevo fatto loro una domanda che probabilmente non avevano più sentito dai tempi della scuola materna, quando la maestra ci faceva fare i disegni su “cosa voglio fare da grande”. Prima che riuscissi a dire qualcosa, mi tornarono in mente – come se fossi colpito da un fulmine – le parole di mio padre a cena, la sera prima: “Sì, ma dài, che lavoro è per una donna?”. Questa frase mi rimbombava nella testa mentre non potevo fare a meno di immaginare mio padre che diceva a me, con un’espressione di sorpresa, di sgomento, forse anche di disgusto sul suo viso: “Che lavoro è per un uomo?”. E se anche i miei compagni la pensassero così? Forse non mi avrebbero più visto nello stesso modo… Cercai di mandar via questi brutti pensieri, dicendomi che no, loro erano miei amici. “Se mi vogliono veramente bene accetteranno la mia scelta.” Questo mi diede finalmente il coraggio di parlare: “Ecco, io ci ho pensato per un po’ ora e… – un bel respiro, perché doveva essere così difficile? – voglio diventare un ballerino di danza classica”. Vidi che le espressioni dei miei compagni non cambiavano; non sembravano così scossi da questa notizia. Finalmente, un segnale di approvazione: “Wow, sono stra-contento per te, fra’!” – disse Ago (soprannome per Giovanni Agorri, il più “popolare” del gruppo). “Cioè, se tu senti che questa è la tua strada, dovresti assolutamente intraprenderla, e poi nessuno può né deve farti cambiare idea”. A parlare ora era Francesca, detta anche “la Poetessa” perché faceva sempre i discorsi più profondi con gran facilità. In momenti come questi era sempre lei a trovare le parole di maggior conforto e, per questo, era molto apprezzata nel gruppo. Le frasi di incoraggiamento e gli sguardi di consenso scacciarono l’ansia e le preoccupazioni di cui mi ero riempito la testa. Finalmente mi sentivo di nuovo al sicuro. Questa sensazione tuttavia non durò a lungo. Al suono della campana ci dividemmo per tornare nelle rispettive classi e mi ritrovai a passar vicino a due ragazzi della mia età che, sussurrando a voce alta, come a farsi appositamente sentire, dicevano ridendo: “Guarda! Ecco la ballerina!”. Un tuffo al cuore. Un milione di domande e timori tornò ad inondarmi la mente. Come facevano a saperlo? Possibile che avessero origliato ciò che avevo svelato durante l’intervallo? Poi fu il turno di una ragazza. Insieme alle sue amiche, mi guardava come se l’avessi appena tradita. Sguardi del genere si prolungavano dall’interno delle aule aperte, sulle scale, persino nella mia classe alcuni mi osservavano in modo strano.  Quella fu probabilmente la peggior giornata di cui avessi avuto memoria fino a quel momento. Sentivo che la rabbia e l’angoscia continuavano a salire, tanto che, durante la lezione, mi sembrò di essere sul punto di esplodere. Ma non cambiai espressione, non mi esposi, cercai di trattenermi e di ricacciare con forza i pensieri dove dovevano rimanere, nella mia testa. Tornai a casa più esausto del solito. Aperta la porta d’ingresso, mi ritrovai davanti mia sorella Caterina: era qualche anno più grande di me, stava frequentando un college in America e, ultimamente, la vedevo di rado. “Cate?” “Ehi, fratellino! Sorpreso di vedermi?” disse lei, con tono giocoso. Sveglia, curiosa, a volte persa tra le nuvole, riusciva, nella maggior parte dei casi, a ottenere ciò che voleva. Con un mezzo sorriso, andai ad abbracciarla: ora che viveva in California, non ci sentivamo spesso e ci eravamo un po’ allontanati.  Forse lo percepivo solo io, ma valeva la pena rompere quel ghiaccio. Quella sera, prima che i miei arrivassero a casa dal lavoro, passai in camera sua, deciso a dirle ciò che avevo confidato ai miei amici a scuola. “E se anche con lei qualcosa andasse storto?”. In ogni caso, prima o poi dovevo dirglielo, quindi mi buttai: “Cogli l’attimo” fu il mio ultimo pensiero prima di confessarle tutto. Mentre parlavo, sentivo i suoi occhi guardarmi con un’espressione nuova, forse per la prima volta con la tenerezza e l’affetto di una sorella che vuole bene al proprio fratello. “Stefano, ascoltami… – cominciò – Devi dimenticare ciò che hai sentito da quei ragazzi a scuola; sono solo stupidi pettegolezzi che sfumeranno via nel giro di una settimana. Tu sei superiore e, se hai un sogno, non dovresti lasciare che questi ostacoli lo schiaccino. Sei libero di fare le tue scelte e sono così contenta che tu abbia capito chi vuoi essere nella vita! E, anche se all’inizio le persone magari più vicine a te non lo accetteranno, non avere fretta, capiranno che la tua passione vale più di quanto tu possa immaginare: se ti rende felice, intraprendi quella strada, la tua strada”.
Erano cominciate a scendere due lacrime dai suoi grandi occhi azzurri e io non l’avevo mai vista così: non pensavo che potesse essere così saggia, ma d’altro canto non riuscivo a descrivere l’enorme sollievo che le sue parole avevano suscitato nel mio cuore. Era deciso: quella sera l’avrei detto anche ai miei. Non mi importava di ciò che avrebbero pensato, perché io avrei aspettato che mi accettassero, avrei avuto pazienza, avrei dimostrato che avevo trovato la mia passione e sarei riuscito a intraprenderla.  Sentivo di aver intimamente compreso che non c’era nulla di più prezioso di una persona che ha trovato il proprio destino, la propria strada nel mondo e, soprattutto, è pronta a percorrerla.

Il Secondo Premio per le Classi Seconde è stato assegnato a XX XY, racconto di Federico Arioli, allievo della II N, che ha scelto l’incipit n. 1, ideato  da Simona Baldelli. Referente la prof.ssa Silvia Mattioli. Riportiamo di seguito il giudizio della giuria:
«Il breve racconto, che ben si raccorda con l’incipit, è coerente e aderisce al tema proposto. Il dialogo spiritoso e il finale brillante riscattano qualche piccola imperfezione formale».

Incipit:
– Lei qui non può entrare – gli ripeté per la decima volta. Fece un lungo respiro appellandosi al briciolo di pazienza che gli era rimasta.
– Gentile signora – disse, cercando di mantenere un tono cortese – ho bisogno di entrare. Anzi, ne ha bisogno lui – e indicò con un cenno del capo il bambino nel marsupio allacciato sul petto.
Dal pannolino esalava un odore pestilenziale, andava cambiato al più presto. La donna sollevò un dito sulla targhetta del bagno pubblico. Le immagini erano inconfondibili: una figura femminile stilizzata e, accanto, quella di un fasciatoio per bebè.

Il parco in cui si trovavano possedeva solo quelle due latrine, piccole, puzzolenti e mal curate. Il locale comune si sviluppava in lunghezza, perciò era poco agibile e anche una persona in più avrebbe potuto congestionare il flusso degli utilizzatori.
Cosa mai… pensò il padre e aggiunse alla puntigliosa giudice: – Cosa mai può entrarci il mio sesso con la necessità di cambiare il bebè?
– La targa espone esaustivamente il motivo per il quale lei non può entrare: lei è un uomo, il bimbo potrebbe essere soltanto l’ennesima scusa che ho visto utilizzare per fare il guardone. Non voglio che lei traumatizzi gli individui che sono riusciti a orientarsi riguardo alla segnaletica base.
La signora iniziava a incaponirsi: era diventata la sua guerra, la sua Missione e Vocazione, i Gentlemen non avrebbero mai varcato l’entrata senza il suo permesso.
– Mio figlio necessita urgentemente del cambio del pannolino. Ha soltanto qualche giorno e soffre di coliche incredibilmente potenti, le quali causeranno molto più disagio di quanto non causerebbe un rettangolo nei bagni triangolari.
– Vede, signore, le regole esistono per essere rispettate e per dare ordine alla società che senza anche solo questo tipo di informazioni sarebbe ridotta allo stato brado. Scusi poi, dov’è la madre? Sarà uscito da qualche parte quel pargolo, non l’ha creato in laboratorio né tantomeno mi sembra probabile che lei faccia parte di una di quelle coppie…
– Del mio orientamento e di sua madre lei non si deve preoccupare. Potrebbe essere morta di parto, potremmo essere una coppia divorziata, potrebbe ancora essere in fase di ripresa.
– Chiaramente lei non è un uomo come quelli di una volta. Non è un caso che i fasciatoi siano nella nostra toilette. Non si vuole che un neonato possa assistere a certe scene indecenti e malsane quali voi uomini mettete in pratica in quegli sgabuzzini.
– Grazie al cielo gli uomini “di una volta” si stanno lentamente estinguendo, detto ciò è nelle facoltà del padre passare del tempo con il proprio figlio, anche nei primi giorni di vita. In assenza della madre sono costretto a prendermi cura di lui, altrimenti annegherebbe nelle sue feci e negli strilli, non crede?
– Lei è duro di comprendonio: Il Signore ha dato alle donne il fasciatoio e agli uomini il vespasiano. Non faccia il rivoluzionario.
– Mi stia a sentire: se non mi fa passare il Signore verrà raggiunto dai fetori emessi da questo pannolino.
– Trovi una donna disposta a cambiarlo, altrimenti se lo dovrà riportare a casa così, vivesse anche a Melbourne.
Il povero padre fu costretto a sopportare un viaggio di ritorno piuttosto spiacevole, ma non si arrese: tornato a casa pulì l’enorme danno e somministrò al bebè il favoloso Colimil affinché la mamma potesse continuare a dormire in pace. La notte stentò ad addormentarsi, non tanto per il turbamento dovuto alla vicenda, ma per le grida del bambino: quell’attesa eccessiva ne aveva irritato parecchio il delicato culetto. Dopo qualche poppata il bambino tornò in una condizione di pace a contatto con il calore del petto femminile. Una volta sistemato il bebè, lui si fece la barba, si lavò e si curò attentamente la pelle del viso: si vedeva molto più vecchio di quanto non fosse dopo quella giornata di fuoco. Arrivato nel letto, sprofondò in un sonno fortunatamente indisturbato.
La mattina seguente si svegliò più tardi del solito e la prima cosa che fece, dopo essersi assicurato che la moglie e l’erede fossero in forma migliore, fu preparare i biberon che gli avrebbe dato durante la passeggiata al parco. Era una giornata fresca di Maggio e il sole non soffocava il bebè. Intorno alle quattro del pomeriggio tornò nel luogo del delitto con il figlio e poté osservare nuovamente la guardia delle latrine aggirarsi sospettosa. Il bambino piangeva e il Pampers era molto più pesante. Questa volta poté oltrepassare la porta del bagno con la scritta Ladies, non vi furono opposizioni: il piccolo venne cambiato, con tanto di borotalco e bacino sulla fronte per calmarlo.
Si fermò anche per un breve bisognino e si rese conto di quanto fosse difficile pisciare in piedi con la gonna e i tacchi.

Momento della premiazione. Foto di Maria Chiara Pulcini

***

Articolo di Loretta Junck

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Già docente di lettere nei licei, fa parte del “Comitato dei lettori” del Premio letterario Italo Calvino ed è referente di Toponomastica femminile per il Piemonte. Nel 2014 ha organizzato il III Convegno di Toponomastica femminile, curandone gli atti. Ha collaborato alla stesura di Le Mille. I primati delle donne e scritto per diverse testate (L’Indice dei libri del mese, Noi Donne, Dol’s ecc.)

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