Donne antifasciste nel carcere di Perugia. Parte prima

In via del Giardino non ci sono giardini, non ci sono alberi, non ci sono fiori.
A Perugia in via del Giardino c’è una lapide addossata al muro di un edificio piuttosto tetro.

L’edificio su cui poggia la lapide è l’ex carcere femminile, in stato di abbandono dal 2005. Dopo l’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato fascista del 1927 cominciarono ad arrivare qui le antifasciste e così si trovarono a convivere sotto lo stesso tetto le detenute politiche, le detenute comuni e le suore che, a differenza del carcere maschile, qui costituivano il personale di sorveglianza. Si trattava in fondo di tre tipologie diverse di recluse.

Mentre le guardie di sorveglianza delle carceri maschili avevano una vita al di fuori della casa di detenzione, la vita delle monache si svolgeva tutta all’interno di quelle mura, molte di loro venivano poi dall’orfanotrofio, quindi non avevano mai avuto l’esperienza di un’esistenza libera. Secondo le testimonianze che ci hanno rilasciato le detenute politiche, tutte le suore, a eccezione di suor Ignazia e suor Vincenzina, esercitavano la loro autorità servendosi di ricatti e di violenze. Scrive Adele Bei: «Dimentiche dei comandamenti cristiani e dei più elementari sentimenti di pietà si erano messe al servizio della inquisizione fascista diretta da uno zelante direttore, il quale per rendere più dura la vita di una detenuta, con i pretesti più banali, ci toglieva spesso anche quel minimo che ci spettava per regolamento carcerario». Ora, se le detenute comuni tendevano ad accettare le nuove regole perché sin da bambine erano state educate alla rassegnazione e alla loro condizione subordinata, non era lo stesso per le politiche che, inoltre, agli occhi delle loro carceriere, scontavano la colpa di una devianza dal ruolo femminile tradizionale.
C’era poi un altro problema. Le politiche erano quasi tutte comuniste e il partito imponeva alle sue militanti l’obbligo di rifiutare ogni pratica religiosa, cosa piuttosto difficile quando le carceriere sono suore che gestiscono il loro potere attraverso premi e punizioni, favori e dispetti. Un esempio: «Ti darò la lettera dei tuoi parenti solo se dirai “Sia lodato Gesù Cristo!”».

Ma quante erano le detenute politiche a Perugia?
Si credeva che fossero 22. Si conoscevano tutti i loro nomi: Clara Balboni, Anna Bazzini, Adele Bei, Maria Bernetic. Anna Bessone, Francesca Vera Ciceri Invernizzi, Cesira Fiori, Lea Giaccaglia, Ergenite Gili, Lucia Gobetto, Antonia Logar, Rosa Messina, Lucia Olivo, Marcellina Oriani, Anna Pavignano, Maria Maddalena Pizzato, Anita Pusterla, Camilla Ravera, Giorgina Rossetti, Carmelina Succio, Iside Viana e Valeria von Wachenhusen.
Di alcune, come Adele Bei e Camilla Ravera, si sapeva tantissimo, ma per qualcuna mi mancavano dati essenziali come l’età, la provenienza e la professione. Per conoscere meglio queste donne ho cominciato a consultare documenti e siti online, pubblicazioni, archivi e infine il Casellario Politico Centrale. Più andavo avanti e più constatavo che le donne antifasciste recluse nel carcere di Perugia non erano 22, ma molte di più, e veniva fuori una storia un po’ dimenticata, come succede quando si tratta di donne.

Forse l’equivoco era nato dal fatto che l’Anppia, Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti, a cui si doveva la lapide, aveva nello stesso anno pubblicato il quaderno Le donne condannate dal Tribunale speciale recluse nel carcere di Perugia, a cura di Mario Mammuccari e Anna Miserocchi, che forniva brevi dati su 22 detenute.
Secondo i dati di cui disponiamo, il tribunale speciale condannò 5498 uomini e 122 donne, ma pare che questo numero sia sbagliato per difetto. Più di un terzo di queste donne fu recluso nel carcere di Perugia, perché il regime temeva che le politiche potessero “contaminare” con le loro idee le comuni e, dei tre carceri penali femminili che all’epoca erano in Italia, Venezia, Trani e Perugia, questo era il più rigido e il più adatto a tenere segregate le politiche.

Racconta Cesira Fiori: «Il penitenziario di Perugia è uno dei più tristi d’Italia; al suo paragone le Mantellate potrebbero definirsi un circolo di divertimento».
Felicita Ferrero scrive: «Correva voce che le detenute venissero ammazzate di fatica a Perugia, per essere poi mandate a morire a Trani».
In effetti nel carcere di Perugia tutte le detenute politiche si ammalarono e Iside Viana vi trovò la morte. Una sezione del carcere era occupata dai cubicoli, piccole celle di m 1,20 per m 1,80, con un cancello di ferro al posto della porta. In questo modo le detenute erano controllate e isolate. Le due celle adiacenti al cubicolo di Camilla Ravera, che tra tutte aveva il ruolo politico più importante, erano mantenute vuote, per evitare contatti con le compagne. All’arrivo a Perugia tutte le politiche dovevano trascorrere un periodo di completo isolamento nei cubicoli. Lea Giaccaglia, maestra elementare di Ancona, fu tenuta per due mesi di seguito non solo in isolamento, ma a digiuno e semi digiuno. Volevano costringerla a fare i nomi dei suoi compagni di partito. Lea si ammalò ma non cedette.  Era stata accusata anche di azione antitaliana perché, dopo l’arresto del marito, aveva affidato la figlia Luce a dei comunisti francesi.
Anche Adele Bei aveva dei figli rimasti in Francia. Durante il processo i giudici cercarono di far leva sul suo sentimento materno. Bei raccontò che ad un certo punto, stanca di sentirli, scattò: «Non preoccupatevi della mia famiglia, pensate piuttosto ai milioni di bambini che oggi in Italia soffrono la fame. Appunto perché sono madre, sento il dovere di lavorare per l’avvenire di queste creature; per questo mi trovo di fronte a voi».
Se si considera il modello femminile imposto dal fascismo, si capisce come fosse inconcepibile per il regime l’atteggiamento di queste madri che furono definite “donne aberrate”. Il carcere fu da loro vissuto come un banco di prova in attesa dell’imminente rivoluzione, queste donne erano fortemente convinte di poter cambiare la società.

Dopo richieste insistenti alla direzione del carcere e conseguenti periodi a pane a acqua per punizione, finalmente nell’estate del 1935 le carcerate politiche ottennero di passare del tempo insieme. Formarono il primo collettivo, acquistarono i libri e i giornali che gli erano consentiti e organizzarono una specie di scuola. Chi più sapeva insegnava alle altre, ma tutte studiavano per recuperare il tempo perduto in carcere e per migliorare la propria formazione nella convinzione di poter finalmente un giorno essere più utili alla causa e al Paese. All’interno del carcere si trovarono così a operare due diverse scuole, una organizzata dalle detenute politiche secondo il metodo della mutua formazione, che aveva come fine la crescita culturale e politica, e l’altra “ufficiale” riservata alle detenute comuni. Questa scuola veniva utilizzata anche come mezzo di indottrinamento filofascista, secondo una precisa scala di valori: il duce, dio e la patria; certo, anche la famiglia, ma occorre tener presente che alcune di queste donne erano lì perché avevano ucciso il marito o i figli.

Ho potuto leggere le relazioni delle insegnanti e perfino le prove d’esame che sono conservate nell’Archivio di stato. Per ogni candidata c’è una cartellina con tutte le prove scritte, le valutazioni e il giudizio finale. Devo dire che questa lettura mi ha molto commosso. Nello scritto d’italiano tutte, ma proprio tutte, le detenute ringraziano sua eccellenza Mussolini che ha concesso loro l’opportunità di istruirsi.
Erano in carcere. Come avrebbero potuto scrivere cose diverse?
La libertà di pensiero non era tra gli obiettivi educativi di questa scuola.

Altro tema interessante è quello delle feste. In carcere si celebravano le feste del regime: il 21 aprile, natale di Roma, e il 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma e inizio dell’era fascista. Chiaramente queste feste non coincidevano con quelle riconosciute dalle politiche: il primo maggio e il 7 novembre, anniversario della rivoluzione d’ottobre, perciò le feste furono occasione di scontro con conseguenti sanzioni anche durissime.
Una testimonianza di Adele Bei: «Era il 28 ottobre 1928 e le suore, con distintivo appuntato sul petto e gagliardetto al vento, guidavano un gruppo di detenute che facevano sfilare sotto le finestre delle politiche, cantando Giovinezza e All’Arme siam fascisti e gridando abbasso le comuniste». Poiché le compagne non aderivano ai festeggiamenti, rifiutando anche il vitto che per l’occasione era più ricco del solito, «il direttore chiamò le politiche una per volta e a ognuna annunciò che sarebbero rimaste chiuse per otto giorni e messe a pane e acqua […] ma festeggiammo lo stesso il 7 novembre al canto di Bandiera Rossa e dell’Internazionale».

La più grande atrocità del carcere, riservata però alle detenute comuni, era il letto di contenzione. Quasi tutte le politiche ce ne danno testimonianza: chi l’aveva visto di persona, chi aveva sentito le urla strazianti delle donne che subivano questo tormento. Era un letto di ferro fissato al pavimento. La donna vi era legata come un cristo in croce con grosse cinghie: una delle quali teneva fermo il collo, una le braccia tese e una i piedi. Cesira Fiori ricorda che una volta le era capitato di vedere una di queste donne mentre veniva trascinata da due suore dentro la cella di punizione. Aveva una bava giallastra che le usciva dalla bocca e si dimenava come una belva. Anche Adele Bei, in un momento di distrazione della sorveglianza, attratta da un lamento simile a un rantolo, aveva fatto la scoperta di quel terribile supplizio.

Ma forse la politica poteva tentare qualcosa anche in quelle condizioni. Questo fece Camilla Ravera in nome dei diritti sacrosanti della persona. Sapeva che nel carcere di Perugia era morto in seguito alle torture inflittegli dalla polizia politica l’antifascista Gastone Sozzi, mentre la versione ufficiale sosteneva che si era trattato di un suicidio per impiccagione. Facendo leva su questo tragico episodio Cederna sostenne la causa di queste disgraziate detenute e così racconta a Laura Mariani che ne raccolse la testimonianza nel 1978. «In generale erano povere donne, ti fanno poi pena tutte, anche se hanno ammazzato il marito… per le condizioni di tutta la loro vita. Ora alcune messe su quel letto avevano delle crisi. Gridavano in un modo terribile che io mi impressionavo, dicevo: ma quella muore in quella condizione, anche se è una crisi, non può sopportare una crisi così a lungo. Le monache, forse perché loro c’erano abituate, non ci facevano molto caso. Allora io ho chiamato l’ispettore di vigilanza. Io l’ho chiesto con una lettera formale rivolta alla direzione. Il direttore del carcere aveva molta soggezione di me perché era lui presente quando lì fu assassinato Sozzi […]. Il giudice è venuto e io gli ho detto del letto di contenzione. “Non mi risulta che esista una legge, nemmeno attuale, fatta dal regime nuovo, che permette questa forma di punizione in carcere. Questo è per le detenute che eventualmente si debbano mettere in questa situazione per ragioni sanitarie, ma allora bisogna mandarle al manicomio […] Una suora, che non è medico, non può mettere una persona normale nel letto di contenzione”. Io ho posto il problema così, perché se lo poni solo per la compassione che ti fa, non ha nessun valore».
La cosa ebbe effetto, perché il letto di contenzione fu rimosso. Quando però Ravera lasciò nel 1935 il carcere perché mandata al confino, il letto fu riportato al solito posto. Questi fatti vanno ricordati perché oggi troppe persone dicono che in fondo il fascismo ha fatto delle cose buone e che se Mussolini non fosse entrato in guerra… Ma queste vecchie mura ci possono ancora raccontare tante storie e credo sia nostro dovere conservarne la memoria.

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Articolo di Paola Spinelli

Paola Spinelli. foto.jpg

Ex insegnante, ex magra, ex sindacalista, vive a Perugia alle prese con quattro gatti e i suoi innumerevoli hobby, ma è in grado di stare bene anche senza fare niente.

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