Da anni conosciamo il concetto di “virilità egemone”. Meno lo mettiamo in correlazione con quello di “virilità precaria”: una prerogativa che i maschi di tutte le culture devono continuamente guadagnarsi. L’opinione che hanno di sé è strettamente legata a quanto vengono percepiti come “veri uomini” dagli altri. Che altro è il bullismo? Che altro è l’omofobia? Perché muoversi in branco? Ma che cos’è, questa identità che va continuamente riconfermata, sempre a rischio di fallimento?
Per rappresentare l’universale, per ergere la propria parola a rappresentare il mondo, per ostentare autosufficienza, il maschio ha dovuto rimuovere la propria parzialità, le tracce dell’essere un genere: perfino nella lingua, dove pretende di parlare per tutte.
«Anche se è vero che la mascolinità egemone è solo uno degli infiniti modi in cui si può essere uomini, e non necessariamente la forma di mascolinità più comune e diffusa, ciò che fa la differenza è il suo porsi come modello di successo, come la possibilità socialmente più desiderabile di essere uomini». R. W. Connell, Questioni di genere, 1996
Assumere un’identità dominante non è operazione indolore: lo stanno a testimoniare i riti cruenti di iniziazione alla virilità come obbligata presa di distanza dal materno e dai suoi valori, ma anche dall’ascolto di sé. Quanto una sessualità schiacciata in un immaginario di dominio ha oscillato tra l’ansia della prestazione e il terrore dell’impotenza, impedendo di ascoltare il corpo, di assaporare il desiderio, di godere dell’intimità?
Nelle trattazioni di diritto penale dell’ottocento è facile imbattersi in dissertazioni sulle insormontabili differenze biologiche che donano al maschio l’energia dell’assalto e alla femmina una frigidità naturale. «L’uomo in quanto tale deve copulare, la donna no» sentenziava il senatore socialdemocratico Nino Mazzoni durante il dibattito novecentesco sulla legge Merlin.
Il cacciatore e la preda, un topos cristallizzato nell’immaginario fin dalla mitologia. In questa terribile modalità di relazione il desiderio maschile è un oggetto invadente e irriducibile inchiodato alla propria chimica, rappresentato come potenza vitale ma temibile, da governare e incanalare e soprattutto da non “provocare”. Perché i maschi sono così, è il testosterone: che ci volete fare. Purtroppo alcuni esagerano.
Di qui i criteri che portano a selezionare il campo simbolico entro repertori di aggressività, di lotta, di possesso (la chiavo – la fotto – la trombo – la spacco – me la faccio – la metto a 90 gradi – glielo ficco di qua e di là… ). Questo modello non appartiene al maschile per destino biologico ma per storia culturale. Su questa miseria dovrebbero interrogarsi gli uomini invece di svicolare, annacquare, rimuovere. La smania della prestazione e della competizione ha conferito loro enormi vantaggi sociali ma nelle vite individuali si è dimostrata un limite.
Cambiare non è facile. Nascere e crescere all’interno di un sistema culturale rigido e coercitivo come quello patriarcale non porta a immaginare modi diversi di essere. Ci sono grossi freni al desiderio di cambiamento, in primis la paura del ridicolo; un uomo che si sposti dal modello tradizionale (un “disertore”) è automaticamente meno autorevole, forse gay: cede a una sorta di indesiderabile femminilizzazione, al rischio della soggezione.
“Non fare la femminuccia” glielo dicono a tre anni.
In pochi decenni sono mutati ruoli e condizioni materiali, le forme estreme del machismo stanno tramontando; molto più lentamente muta l’immaginario di riferimento su cui si è costruita nei millenni la supremazia maschile. Vecchio e nuovo convivono e confliggono, nell’esperienza dei soggetti e delle società. Il patriarcato è indebolito, non defunto.
Ma che fatica sentirsi al centro dell’universo, povero Atlante. Se la sua identità vacilla appena esce dall’ambito del potere, anche il maschile è vittima dell’ordine patriarcale. Il suo desiderio di cambiamento non trova le parole per esprimersi, non ha sedi pubbliche: sono esperienze per lo più individuali e private.
Ci sono anche in Italia piccoli gruppi (il cui riconoscimento pubblico peraltro è arrivato quasi esclusivamente dalle donne) che lavorano per spiegare che il cambiamento che è oggettivamente avvenuto nelle relazioni e nella società, questo cambiamento che ha rotto un’autorità indiscussa, può disorientare ma non è una minaccia per gli uomini, anzi li libera. Come il gruppo Maschile plurale, o Uomini in cammino, alcuni maschi contemporanei vi hanno letto un’opportunità; hanno cominciato dunque a ridisegnare la propria esperienza, a ridefinire la mascolinità, a uscire dal sogno autistico dell’autosufficienza.
Se la cura è stata la grande opera delle donne ma al tempo stesso il recinto in cui sono state chiuse, ora i recinti si possono aprire. Le nuove esperienze degli uomini che si sono messi in movimento stanno costruendo l’immagine di un uomo a più dimensioni, non più imprigionato nella cultura della prestazione ma alla ricerca di una cultura delle libertà.
Vi assicuro che è una persona affascinante.
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Articolo di Graziella Priulla

Già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.

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