Grandi e piccole cucine. Il modo di mangiare orientale

L’Oriente si differenzia moltissimo dalle abitudini alimentari occidentali. Per queste popolazioni l’alimentazione è salute, non un modo di riempire lo stomaco, perché non considera solo la mente ma anche il corpo come un tutt’uno che necessita della stessa attenzione. La cucina asiatica include importanti cucine regionali, noi approfondiremo quella giapponese e quella indiana. Il Giappone nell’antichità non aveva un nome ufficiale, nelle prime produzioni letterarie dell’VIII sec. d.C. si trovano diverse espressioni con cui gli scrittori lo designano: Aki-tsu-shima (l’isola della libellula, dalla forma che essi credevano avesse il loro territorio), Mizuho-no-kuni (il paese ricco di spighe di riso), Yamato (la regione delle montagne), Ō-ya-shima (le otto grandi isole); il nome ufficiale Nippon o Nihon pare sia entrato in uso intorno al 670 d.C. Le prime fonti di informazioni sono costituite dalla fantastica descrizione di Marco Polo sul finire del Medioevo. Le conoscenze più attendibili degli usi e costumi e del carattere dei Giapponesi sono descritte nelle lettere e nelle relazioni che l’Europa riceve dal gesuita Francesco Saverio e dai suoi compagni che lì giunsero il 15 agosto 1549. Tuttavia, non abbiamo molte testimonianze dirette riguardanti l’alimentazione, attraverso la storia socioculturale di Kyōto si risale alle abitudini della popolazione e al modo di porsi davanti al cibo, sia nella quotidianità sia nelle occasioni particolari. Nel centro della città si ergevano oltre ai templi buddisti e scintoisti, il palazzo dell’imperatore, le residenze dei suoi familiari e dei nobili di corte, costruite tutt’intorno quasi a circondarlo. All’esterno si trovavano le botteghe, le officine e le abitazioni del popolo formato da artigiani e operai. Della storia dell’antica città giapponese sappiamo che il XV secolo fu difficile per il susseguirsi di guerre tra fazioni e le carestie dovute a cause naturali, in particolare quella del 1462, anno in cui la raccolta fu disastrosa e la cittadinanza della provincia di Kinki, di cui appunto fa parte Kyōto, si riversò nella capitale per procurarsi qualcosa da mangiare. Ci vorranno almeno un centinaio d’anni affinché le abitudini alimentari delle classi più alte arrivino sulle tavole della gente comune: la differenza tra ricchi e poveri era enorme e la popolazione rurale faceva la fame. La raffinatezza e l’eleganza dei piatti giapponesi sono parte integrante della preparazione, sostengono che «si mangi prima con gli occhi e poi con la bocca». Gli alimenti che iniziarono a diffondersi furono il tè importato dalla Cina, la pasta e i manjū (focacce di riso bollito ripiene di fagioli interi o di marmellata) che costituivano la frugale alimentazione dei monaci nei templi.

Hosomaki

Anche il sushi (riso condito con aceto) divenne il piatto tipico nazionale, a base di riso e altri ingredienti come pesce fresco, alghe nori, o uova di pesce o verdure; a seconda della preparazione e degli ingredienti si distingue in: uramaki, hosomaki, nigiri, onigiri, gunkan, temaki e futomaki. È in questo periodo che vennero create le basi della cucina giapponese valide ancora oggi. La base dell’alimentazione del popolo giapponese era il riso, ma le contadine e i contadini, in cambio del permesso per coltivare la terra, dovevano consegnare il cereale al signore, era una vera e propria tassa obbligatoria; per cui accadeva di rado che la gente del popolo mangiasse riso, accontentandosi di un miscuglio di grano, miglio, fieno e altri ingredienti di scarso valore nutritivo.

In cucina come in ogni altro aspetto della civiltà giapponese vi erano maniere e tendenze diverse – quella delle quattro stagioni e quella delle erbe – alcune tramandate fino a noi. Sulle tavole privilegiate consumavano maggiormente il riso integrale e bianco mondato, il modo di cottura variava a seconda dell’acqua che si aggiungeva durante la cottura, o al dente o stracotto ridotto quasi in poltiglia chiamato o-kayū, indicato per curare il mal di pancia e le indigestioni. Nelle principali feste dell’anno veniva cucinato con dei fagioli che davano un colore rosato, in Giappone il rosso era ed è un colore portafortuna adatto alle celebrazioni. Un’altra maniera di preparare il riso usata fin dai tempi antichi, in viaggio e in guerra, consisteva nel cuocerlo e nel farlo essiccare, bastava poi aggiungere dell’acqua per ammorbidirlo ottenendo così un pranzo pronto. Altri cibi erano i mochi, simili a quelli consumati oggi, focacce che si ottenevano bollendo il riso di una qualità più morbida detta mochigome; pestandolo in un mortaio lo dividevano in pagnottelle e le mangiavano a Capodanno in brodo; in primavera queste pagnotte venivano avvolte in foglie che davano un colore verdastro, nel periodo autunnale erano consumate con le castagne. Dopo la mietitura del riso, durante l’inverno veniva immagazzinato e costituiva l’alimento principale dell’estate, stagione in cui il cibo scarseggiava. Il grano in chicchi era cotto assieme al riso o macinato e la farina ottenuta veniva impastata con l’acqua, quest’ultima tecnica giunse dalla Cina e dalla testimonianza dei monaci di alcuni templi zen. Verso il XIII secolo le/i giapponesi cominciarono a fare la pasta; nei templi zen costituiva la base dell’alimentazione sotto forma di soha (tagliatelle di grano saraceno impastato con acqua) e di udon (tagliatelle più spesse simili agli strozzapreti italiani). Entrata nelle case della popolazione di Kyōto verso la metà del XV secolo, veniva prodotta in casa e poi rivenduta al pubblico.

Negozio di pasta di miso, utilizzato per preparare una minestra, la misoshiru

In estate era consumata fredda con un brodo piccante a base di miso, invece in inverno con un brodo caldo, condita con pepe e cipollotti affettati e wasabi (mostarda verde giapponese); il miso ancora oggi viene consumato come minestra detta misoshiru (shiru disciolto in un brodo di pesce). Altro alimento importato dalla Cina dai monaci è il tofu, formaggio vegetale preparato con la soia, ricco di proteine in sostituzione delle proteine animali; ottenuto schiacciando nell’acqua dei grossi chicchi di soia fino a ottenere un composto liscio (il cosiddetto latte di soia); scaldando questa poltiglia aggiungevano del cloruro di magnesio per farla coagulare, lasciandola rapprendere in uno stampo. Altro alimento ad alto valore nutritivo erano i fagioli chiamati «le proteine dell’orto», usati nell’Asia orientale dove l’alimentazione scarseggiava di proteine animali. Il pesce pescato nel mar interno del Giappone veniva tenuto in bacini lungo il fiume Yodo nella baia di Osaka, dove si teneva il mercato del pesce di mare e quello del sale, che era monopolio di stato; era molto consumato anche il pesce d’acqua dolce fra cui la carpa.

Disegno in cui è raffigurata la preparazione del pesce

All’epoca nei giardini dei palazzi c’era uno spazio riservato alla coltivazione di frutta e verdura, la stessa cosa avveniva in piccolo nelle numerose proprietà appartenenti alle famiglie nobili; già dai tempi più antichi nella campagna intorno a Kyōto la produzione degli ortaggi era abbondante. Le principali varietà erano il daikon (rapa gigante di forma allungata), le melanzane, il gohō (la bardana), le cipolle, i cipollotti, i porri e la barba di frate dalla forma filiforme, verdura ricca di vitamina Ce fibra, dal gusto acidulo che la rende appetibile e versatile in cucina; a volte le cronache citano le carote e gli spinaci. Inoltre dalla primavera fino all’inizio dell’estate mangiavano i prodotti che crescevano spontaneamente sulle colline, i germogli della felce e quelli di bambù. Quanto ai frutti particolarmente apprezzati erano lo shirouri (il melone bianco), i nashj (pere giapponesi), le nespole, i datteri cinesi, i cachi e le castagne. L’abitudine di bere il tè giunse dalla Cina introdotta dai monaci buddisti; verso la fine del XII secolo il monaco Eisai (1141-1215), nella sua opera letteraria illustra le qualità del tè: tiene svegli i monaci che cantano i sutra e giova alla salute. Venne coltivato nel tempio di Takayama, considerato il primo luogo in tutto il Giappone dove era coltivata una qualità eccellente. All’inizio fu considerato una medicina, nel corso del tempo divenne una bevanda di uso corrente; l’usanza di berlo durante i pasti si diffuse tra i samurai e i nobili, gradualmente dalle classi sociali più alte si estese a tutta la popolazione. Il tè veniva offerto nei banchetti assieme al sakè, detto Nihonshu o Seishu e prodotto utilizzando riso, acqua, koji (fungo che serve a trasformare l’amido del riso in zuccheri semplici) e lieviti.

Bottiglie per il sakè di porcellana, decoro floreale, XIX secolo

Il sakè, bevuto in abbinamento al cibo, ha una gradazione alcolica simile a quella del vino tra i 12° e i 18° C e può essere servito freddo, caldo o a temperatura ambiente. Nelle case dei nobili e dei samurai, così come nei templi, c’erano delle persone che si occupavano di cucinare, l’addetto alla cottura del pesce o dei volatili li adagiava su un asse di legno, tenendo il coltello nella mano destra e con la sinistra dei bastoncini di metallo. Sembra che ci fosse l’abitudine, per usare una particolare cortesia nei confronti delle/degli ospiti, che la padrona o il padrone di casa prendesse egli stesso il coltello e cucinasse i pesci o gli uccelli. I libri di cucina non erano molto diffusi e l’arte di cucinare era una tradizione che si tramandava dai genitori ai figli e figlie e dalle/dai maestri alle/ai discepoli. La cucina tradizionale giapponese giunta fino a noi si affermò tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, ancora oggi i ristoranti più famosi di questa cucina kaisekisi trovano a Kyōto e sono per lo più di antica tradizione. In India, il cibo ha un duplice aspetto: sapore e salute. Si differenzia da quello del resto del mondo grazie ai metodi di cottura unici e alla fusione delle diverse culture che caratterizzano il paese. La cucina indiana è famosa per la sua ricca tradizione culinaria, che offre una varietà di sapori eccezionali. Gli indiani e le indiane amano utilizzare una vasta gamma di spezie, erbe aromatiche e condimenti che conferiscono ai piatti un gusto unico e distintivo.

Particolare delle merci di un venditore di spezie e aromi, molto utilizzati

Ogni regione dell’India ha le sue specialità culinarie, che riflettono le tradizioni e le preferenze locali. Ad esempio, nella regione del Nord, troverai piatti come il pane naan, il pollo tandoori e il famoso curry. Nel Sud dell’India, invece, i piatti sono spesso a base di riso, come il dosa e il sambar, accompagnati da varie salse e condimenti. Inoltre, l’India è conosciuta per la sua varietà di cucine regionali, come la cucina del Punjab, del Rajasthan, del Bengala e del Tamil Nadu, solo per citarne alcune. Questa diversità culinaria è il risultato dell’influenza delle diverse culture, religioni e tradizioni presenti nel paese. Nonostante la grande varietà di sapori e spezie, la cucina indiana presta anche molta attenzione alla salute. Molti piatti indiani sono preparati utilizzando ingredienti freschi, come verdure, legumi e cereali integrali, che forniscono una nutrizione equilibrata e ricca di sostanze nutritive. Inoltre, le spezie utilizzate nella cucina indiana sono spesso associate a benefici per la salute. Ad esempio, la curcuma è nota per le sue proprietà antinfiammatorie, mentre il cumino può favorire la digestione. Questa combinazione di sapori deliziosi e ingredienti salutari rende la cucina indiana unica e apprezzata in tutto il mondo.

Dall’India, vada: crocchette preparate con legumi macinati, fritte in abbondante olio

Lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame in India risale a circa 7000 anni prima di Cristo, nonostante la vastità del territorio e la diversità della flora e della fauna nella valle dell’Indo. Grazie al clima favorevole, ha sempre avuto a disposizione una varietà di cibi e spezie, come riso, zenzero, aglio, semi di sesamo, peperoncini rossi, soia e tofu, che arricchiscono la cucina indiana con sapori unici e tecniche culinarie e in più occasioni descritta «semplicemente piccante, rustica e affascinante ed elaborata e regale». Anche nei secoli passati, i sovrani indiani dedicavano molta attenzione alla cucina. Ad esempio, il re Someshwara, che governava un vasto regno intorno al 1130 d.C., nel suo libro dei piaceri reali, Manasollasa, dedicò un capitolo di venti pagine alla cucina, prestando particolare attenzione alle pietanze a base di carne e sottolineando l’importanza dei recipienti d’oro per servire i pasti ai re: «Sebbene le preparazioni alimentari servite in piatti di coccio abbiano un buon sapore, i re devono essere serviti in recipienti fatti d’oro». In questa antica raccolta descrive alcune ricette ed elogia il dal, un’antica spezia aromatica che conferisce un gradevole sapore a ogni piatto. Il riso e il grano erano ingredienti essenziali nella regione, in particolare il riso Kalinga (Orissa).

Preparazione di focaccine di grano, preparate solitamente per una festa nella regione del Rajasthan

La farina di riso veniva mescolata con sostanze solide e versata nel latte per preparare lo kshiraprakara, che veniva fritto nel ghee (un tipo di burro chiarificato) e spolverato di zucchero raffinato. La farina di grano veniva modellata a forma di palle con ghee e sale, poi cotta e arrostita brevemente prima di essere consumata. I dischi di farina avevano diversi ripieni, come il samitah con farina di fagioli verdi, la purana con ceci passati e zucchero di palma grezzo o un impasto di ceci speziato per la veshtika. Un’altra preparazione, chiamata vidalapaka, consisteva in una mescolanza di cinque legumi aromatizzata con salgemma, curcuma e assafetida, cotta a fuoco lento. La carne occupava un posto importante nella cucina antica, e i maiali venivano arrostiti interi. Le migliori parti della carne venivano tagliate a pezzi e mescolate con una pastella di fagioli verdi sminuzzati, spezie e fritte insieme a teneri chicchi di legumi avaré, bacche, cipolle e aglio, il tutto condito con un sugo aspro. I latticini erano alla base di numerose bevande rinfrescanti. Si preparava il siero aggiungendo succhi di frutta acida al latte bollito e filtrando le sostanze solide, aggiungendo cardamomo e zucchero. Successivamente, si filtrava nuovamente il liquido e si univano frutti o semi tostati di tamarindo per completare la bevanda. Tra i dolci, il kasara era una miscela di farina di grano, latte, ghee, zucchero cristallizzato e pepe nero. Le palline dolci fatte con farina di riso o di legumi, chiamate ladduka, vantano una lunga storia e sono ancora molto popolari oggi. Infine, le sarkari-patrika, delle simpatiche figurine fatte di zucchero, erano e sono ancora le preferite dei bambini. Infine, l’incontro delle diverse tradizioni culturali e l’uso di ingredienti provenienti da tutto il mondo hanno portato a una cucina indiana che mescola sapori e odori in modo innovativo e gustoso, conquistando anche i palati più conservatori.

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Articolo di Giovanna Martorana

PXFiheft

Vive a Palermo e lavora nell’ambito dell’arte contemporanea, collaborando con alcuni spazi espositivi della sua città e promuovendo progetti culturali. Le sue passioni sono la lettura, l’archeologia e il podismo.

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