Non è un caso che la questione riproduttiva si ponga ancor oggi come cesura e come ossessione, elemento nodale e problema trasversale, a delineare le timidezze e le contraddizioni irrisolte con cui l’etica, la politica e il diritto affrontano i corpi sessuati. Sono spazi liminali, cerniere dove natura e cultura si incontrano; sono costrutti sociali, profondamente calati in relazioni di potere e modellati in relazione ad esse.
Non è irrilevante ricordare che tutte le questioni legate ai corpi, al loro diritto all’autodeterminazione e all’irruzione sulla scena pubblica della sfera del sesso vengono dichiarate nel lessico politico “eticamente sensibili”: quasi temi di dubbia dimensione politica, ai confini tra norma e morale e nei fatti tra un timido Stato e una Chiesa assertiva, a testimoniare della fatica del diritto laico a prevedere soggetti non neutri, non disincarnati. Il dibattito interno alla sinistra è asfittico o confuso: mancano concetti e parole condivise perché manca una visione forte da contrapporre a quella dell’integralismo cattolico.
Nella massa dei problemi, dei contesti e degli orizzonti di significati immessi in questi scenari si mescolano saperi e umori, sentimenti, esperienze, paure, calcoli, interessi, abitudini, pregiudizi che nella vulgata mediatica si mescolano e si confondono. Il campo cruciale della riproduzione è da sempre mappato, organizzato cognitivamente e supportato emozionalmente da un’imponente produzione di materiali simbolici, narrazioni mitiche, strutture dell’immaginario collettivo, rappresentazioni della sessualità, a dimostrare quanto poco i sistemi sociali si fidino della naturalità presunta della specie, e della “spontaneità” del bisogno di riprodursi.
Ogni potere – da quello religioso a quello politico – interviene sui corpi sessuati. Prima ancora di approntare sistemi di strutture e di norme costruisce ordini simbolici che ne descrivono alcuni usi come naturali e legittimi mentre ne interdicono altri come innaturali o perversi. La posta in gioco è alta: riguarda la sfera intima delle persone, la sessualità e i desideri. Questo vale per tutti ma assai più per le donne, identificate col corpo che finisce per invadere la loro identità intera. I corpi femminili sono più intensamente, più sistematicamente normati, con regimi, interventi e pratiche che cominciano fin dalla nascita.
Di chi è il corpo di una donna? È suo o se lo contendono padri e mariti, medici, legislatori, giudici e gerarchie ecclesiastiche? Il fine principale dell’addestramento era ed è far apparire “naturali” le norme disciplinanti. La sua qualità “spontanea”, il rifiuto che oppone a far esaminare i princìpi su cui è fondato, la sua resistenza ai cambiamenti o alle correzioni, il suo effetto di riconoscimento immediato, il circolo chiuso in cui si muove rendono il senso comune simultaneamente ideologico e inconscio.
Regolamentando e addomesticando i corpi viventi di fatto si regolamenta la società sul piano politico, economico e simbolico. Con lo stretto controllo della donna – “per il suo bene” – da parte del padre, del marito, del figlio o del fratello, ad esempio, viene garantita la purezza della linea di discendenza, ci si premunisce da figliolanze spurie. È questo il nodo cruciale: un fatto identitario. La voce che bollava bambini e bambine nati fuori dal matrimonio con l’epiteto infamante di “bastardi” è stata cancellata dal nostro diritto di famiglia soltanto nel 1975, ma non è tramontato il bisogno maschile di controllare la trasmissione dei geni (e dunque di quello che non a caso è definito ‘patrimonio’).
Il discorso non riguarda solo la configurazione delle singole identità ma il mantenimento dell’ordine sociale nel suo complesso. Per secoli siamo state madri per forza, impossibilitate a sottrarci al percorso del sangue e alle funzioni collegate se non a prezzo di una fortissima condanna sociale. Sono state le lotte del femminismo a costringere la società a ripensare la maternità fino a definire madre solo quella che accetta di esserlo, trasformando in scelta individuale ciò che era un destino collettivo o un compito divino.
Liberate le donne dalle pastoie della castità e dagli imperativi della fertilità, liberate le famiglie dalle gerarchie e dalla definizione stessa di genitorialità, liberata la prole dallo stigma dell’illegittimità, si è compiuto in pochi decenni un cammino che per secoli e secoli è sembrato inimmaginabile, eppure presenta ancora molti ostacoli.
Per uscire dallo sterile conflitto tra convinzioni e rigidità opposte l’unico atteggiamento produttivo mi pare quello di riprendere la battaglia contro le dicotomie: ammettere che ci sono storie e bisogni diversi, accettare quindi la complessità dello scenario, arricchirlo di conoscenze senza pretendere di chiuderlo entro un’unica rappresentazione. Questa sì, sarebbe una novità: iscrivere nel diritto non più un soggetto astratto con la maiuscola, ma i soggetti incarnati con tutte le loro umane minuscole.
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Articolo di Graziella Priulla

Già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.

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