Con queste note vorrei condividere con voi l’esperienza vissuta un anno fa, fra il 2 e il 5 giugno 2022, al convegno annuale dell’Associazione canadese per gli studi di italianistica al Sant’Anna Institute di Sorrento. Nella sessione “La maternità nella cultura italiana dal Rinascimento ad oggi. Al di là degli stereotipi – Madri nella letteratura del centro-sud Italia”, organizzata da Simona Di Martino e Céline Powell, ho presentato un mio contributo, naturale prosecuzione del percorso iniziato proprio qui, su Vitamine Vaganti, con la pubblicazione della mia tesi di laurea nel numero del 30 gennaio 2022, Aracoeli e la maternità trasgressiva nell’opera di Elsa Morante.
Questo progetto mi ha permesso di rileggere a distanza di quasi vent’anni tutti i romanzi e parte dei racconti della scrittrice e la nuova letteratura critica nata nel periodo successivo alla stesura della mia tesi. L’ara del cielo e le porte dell’inferno: è così che ho deciso di intitolare questo breve resoconto utilizzando, in parte, le parole di Franco Fortini nell’articolo pubblicato sul Corriere della sera all’uscita dell’ultimo romanzo di Morante, perché sintetizzano magistralmente il tema del contributo al seminario: la duplicità senza soluzione delle figure materne nei romanzi e nei racconti di Elsa Morante.
In questo percorso mi hanno spronato e accompagnato le pagine di Angela Buba, autrice della biografia romanzata edita da Salani nel 2022, Elsa. Nel libro l’autrice immagina un dialogo fra Elsa Morante e uno dei personaggi più amati, Arturo, protagonista del romanzo L’isola di Arturo. Il ragazzo osserva la propria creatrice e pensa che sia fragile e fortissima e, come tutte le madri, uno degli oggetti più pericolosi del mondo. In un altro punto, in un dialogo fra la scrittrice romana e il grande amico Pier Paolo Pasolini a proposito della lavorazione del film Medea, si mettono a confronto da una parte il peggior genitore mai esistito, l’archetipo macabro di chi mette al mondo dei figli, appunto Medea, e dall’altra Maria Vergine. Pasolini afferma quanto sia consapevole del posto che le madri occupano nei pensieri di Elsa, che conferma, sottolineando il fatto che niente e nessuno potrà mai salvarti da una madre.
Il romanzo materno che articola la leggenda-madre morantiana in diversi capitoli e l’esplorazione di nuovi sguardi critici mi hanno portato a condensare graficamente le figure materne presenti nella sua opera sotto forma di una croce. Appunto quella “croce materna” di cui parla Elsa nel saggio dedicato al Beato Angelico. In questa croce sono racchiuse, grosso modo, tutte le figure materne da lei create. Nel braccio verticale a partire dall’alto troviamo da Menzogna e sortilegio (1948): Anna, “La notte” come la definisce Elisa, la figlia adorante, protagonista del romanzo, madre che prova per la maternità nient’altro che un sentimento di indifferenza e di fastidio, ma che poi, alla morte dell’oggetto d’amore, il cugino Edoardo, trasforma la figlia in compagna, confidente e protettrice per poi allontanarla nuovamente; Alessandra madre-vergine, amorevole ma suo malgrado terribile perché adultera e madre del padre della protagonista, Francesco; Concetta madre soggiogata dall’amore dominante per il figlio Edoardo che impazzisce alla sua morte; Cesira, la nonna di Elisa e madre per cui la figlia, Anna, rappresenta un peso di più alla sua vita già troppo gravosa, e, a sua volta, non amata ma dominata dalla propria figlia; infine Rosaria, “Il giorno”, la madre adottiva di Elisa, prostituta materna e appassionata con chiunque.
Dal romanzo La Storia (1974): Nora madre di Ida, Ida, sposa-bambina, madre spaurita e veggente di Useppe e di Nino, Carulina madre adolescente delle gemelline Rosa e Celeste.
Da Aracoeli (1982): Aracoeli, madre amorevole e successivamente terribile del protagonista, Emanuele, e della sorellina Carina.
Nel braccio orizzontale dall’Isola di Arturo (1957): la ragazza-madre tedesca odiata dal figlio Wilhelm, padre del protagonista; la madre di Arturo, morta e conosciuta solo tramite l’immagine larvale di un ritratto su cartolina ma adorazione fantastica per il figlio; Nunziata, la matrigna amata di Arturo e madre puerile e animale di Carmine.
Dallo Scialle andaluso (1963): Giuditta, madre amatissima e frutto della vergogna del figlio Andrea.
Intorno alla croce si situano le madri del mondo animale: la gatta dell’osteria di Gesualdo che cerca disperatamente i gattini appena partoriti e subito uccisi dall’oste in Menzogna e sortilegio; Rosella, la gatta della Storia che lascia morire l’unico gattino partorito perché, per i digiuni in tempo di guerra, non ha latte per nutrirlo; i cani: Immacolatella nell’Isola di Arturo che, come la madre di Arturo, è morta di parto e Bella, la pastora maremmana, seconda madre di Useppe nella Storia. Esistono pure le madri uomo: il balio Silvestro nell’Isola di Arturo che, dopo aver fatto da balia al protagonista nei primi anni di vita, lo accompagnerà, alla fine del romanzo, fuori dall’isola, e l’attendente Daniele in Aracoeli; e le madri natura: Procida (l’isola-utero) e il mare sempre dal romanzo del ‘57 e il ghetto ebraico nel romanzo del ‘74.
Frutto della duplicità senza soluzione, riprendendo le stesse parole di Morante, significato e significante della sua opera, le madri possono essere madri amorevoli che nutrono e proteggono: Concetta, Alessandra, Nunziata, Giuditta, Ida, Carulina e Aracoeli; oppure madri terribili caratterizzate da un’oscurità inquietante: Concetta, Ida, Aracoeli, Anna e Cesira; madri vergini dalla sensibilità veggente: Alessandra, Nunziata, Ida, Aracoeli, la madre morta di Arturo e Rosaria. In particolare, nell’ultima opera, questo movimento è evidente e sembra aiutarci a rileggere la produzione precedente, fornendoci una chiave chiarificatrice. Come scrive una delle più grandi voci critiche dell’opera della scrittrice, Giovanna Rosa, in Aracoeli: «il capovolgimento della fisionomia del personaggio materno è radicale». Dalla fase edenica di Totetaco, come il protagonista bambino chiama il quartiere romano di Monte Sacro: «Nella casa clandestina di Totetaco non ci siamo che noi due soli: Aracoeli ed io. Congiunzione inseparabile per natura e di cui pareva a me anche l’eternità». Al passaggio ai Quartieri Alti nella casa borghese del padre del protagonista: «Difatti (io credo) per la prima volta nella nostra vita, essa mi vedeva brutto». Con la morte della figlia Carina, l’operazione e la morte stessa di Aracoeli: «E invece, io non sono più la tua mamita». Fino ad arrivare alla vendetta di Aracoeli e alla sassaia deserta del viaggio nello spazio e nel tempo del figlio ormai adulto: «La mamita Aracoeli regina dei ricordi si strappava via da me, come una mutilazione. E questa mia presente Aracoeli […] né alla prima Aracoeli di Totetaco, né alla seconda dei Quartieri Alti, e nemmeno alla creatura appena vista nella clinica […] era solo […] quell’altra – spudorata e smaniosa». Tutte le citazioni sono tratte da Aracoeli, in Elsa Morante, Opere II, a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, Mondadori, 1990. Insomma, come ci ricorda proprio Garboli, critico e amico di Elsa Morante, dalla maternità trionfale nel romanzo del ‘74 si passa alla maternità lapidata nel romanzo del 1982.
Alla fine della presentazione dei diversi contributi della sessione a cui ho partecipato, qualche spettatrice ha chiesto a me e a due relatrici del panel perché non avessimo analizzato le opere delle scrittrici oggetto dei nostri interventi facendo riferimento alla critica femminista. Ma Silvia Avallone, in un articolo pubblicato una decina di anni fa su Nuovi Argomenti, ci ricorda: «La Morante non scrive “al femminile”, non aderisce a quella che diventerà la “cultura della differenza” perché la cultura è un campo troppo vasto per accettare perimetri e recinti. Se la femminilità interviene nella scrittura, il suo intervento non è programmato, né auspicato, né celebrato, né voluto. I maestri della Morante sono tutti uomini: “Omero, Cervantes, Stendhal, Melville, Čechov, Verga”. Ma, sotto questo aspetto, potrebbero essere anche donne o perfino animali. Certe distinzioni appartengono alle variabili dei tempi, delle Nazioni, della Storia, ossia dell’irrealtà. La realtà – ciò che conta in quanto vero – è la qualità della scrittura, è solo ed unicamente il testo; e il testo, quando è letteratura, ha il potere di svincolarsi dalle determinazioni storiche, nazionali, e biologiche a maggior ragione».
Mi piace concludere questa nota con un quadro che tanto ho amato senza capire il perché, ma che ritrovo nella biografia di Elsa: la Tempesta di Giorgione, conservato nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Secondo la biografia del 2020 di René de Ceccatty, Carlo Cecchi ricorda che, durante un viaggio fatto insieme alla scrittrice a Venezia, un fine settimana del 1966, mentre visitavano quel museo, Elsa Morante era rimasta rapita dalla visione della Madonna con bambino del Giambellino e della Tempesta di Giorgione, due rappresentazioni della maternità.
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Articolo di Sara Bertucci

Docente di italiano L2, si è laureata in Filologia moderna all’Università degli Studi di Milano nel 2004, con una tesi in Linguistica Italiana sulla lingua dei romanzi di Elsa Morante.
Collabora con l’Università Ca’ Foscari di Venezia e l’Università per Stranieri di Siena. Lavora, ormai da molti anni, per una scuola privata di italiano L2 a Milano.

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