Come già spiegato in maniera molto dettagliata nell’articolo di Serena Mosso nel numero 104 della nostra rivista, la medicina di genere non è la medicina delle donne bensì, seguendo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità, «lo studio di come le differenze biologiche (basate sul sesso), socioeconomiche e culturali (basate sul genere) influenzino la salute delle persone». Sviluppatasi solamente in tempi assai recenti, l’introduzione di un approccio genere-specifico alla salute delle persone è sicuramente stata incentivata dai movimenti femministi soprattutto lungo tre filoni: la mancanza di conoscenza e di studio del corpo femminile, la salute riproduttiva e sessuale e la denuncia di come l’impianto maschile e maschilista delle istituzioni mediche sia stato la conseguenza di un’esclusione delle donne – soprattutto di guaritrici e levatrici – dalla professione, avvenuta storicamente con lo sviluppo delle discipline scientifiche e la creazione delle arti e delle compagnie mediche.
La medicina di genere, per come la intendiamo oggi, si sviluppa a partire dagli anni Novanta del XX secolo quando differenti studi iniziano a mettere in risalto il modo in cui una mancanza di attenzione rispetto al genere porti le donne (ma anche gli uomini) a un più alto tasso di mortalità o a un’incapacità di intervento in situazioni di emergenza come ad esempio gli infarti. Anche in Italia questo discorso ha avuto i suoi effetti. Forse poche persone ne sono a conoscenza, ma il 13 giugno 2019 il Ministro della Salute ha approvato il Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere sul territorio nazionale firmando il decreto attuativo relativo alla Legge 3/2018, trasformando l’Italia – si legge nel comunicato ufficiale – nel «primo Paese in Europa a formalizzare l’inserimento del concetto di “genere” in medicina». Un documento importante che si è dato obiettivi e principi molto ambiziosi che puntano soprattutto a promuovere sia una ricerca che una formazione basata sull’attenzione alle differenze.
In generale, nei testi che supportano un approccio di genere alla salute, le questioni principali ancora aperte sono strettamente legate alla mancanza di coinvolgimento delle donne in studi clinici e nella sperimentazione a causa di una convinzione storica che uomini e donne, al di là della sfera sessuale, siano uguali. A questo si aggiunge poi la questione che le donne, potendo attraversare differenti fasi che “alterano” lo stato normale (vedi mestruazioni, gravidanza, parto, allattamento e menopausa), sono soggetti il cui studio aumenterebbe il numero di variabili da considerare in fase di analisi. Di fatto, la loro esclusione dai campione di test semplifica i processi. Questo aspetto ha provocato nel tempo la creazione di un vero e proprio buco di conoscenza, come si è visto anche recentemente con l’effetto dei vaccini sul ciclo mestruale e gli studi sull’incidenza degli effetti collaterali dei farmaci. Uno studio inglese su 18.820 pazienti ha rivelato, infatti, che la maggior parte delle persone (59%) ricoverate in seguito a reazioni ai farmaci sono di sesso femminile. È importante ricordare, inoltre, che nonostante si parli sempre di più di malattie tipicamente femminili come vulvodinia, endometriosi, neuropatia del pudendo e tutte quelle legate al dolore pelvico cronico, il finanziamento della ricerca in questo campo è ancora insufficiente. Infine, un tema ancora poco discusso ma davvero preoccupante è quello legato al diritto alla salute delle persone transgender che, secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità, dichiarano di essere state vittime di discriminazioni in ambito sanitario nel 46% dei casi.
Allo scopo di traslare questo tema dall’ambito generale a quello più specifico dello sport, è interessante chiedersi a che punto siamo con l’approccio di genere nei confronti della salute delle atlete e degli atleti. Per capire bene la situazione è giusto partire da quello che ci dice il dottore Arcangelo Senatore, fisioterapista del Kinesiocenter, appena iniziamo l’intervista: «Nella medicina, come nel mio campo, di base non si guarda al genere nell’approcciare il paziente. Non esiste, quindi, una vera e propria distinzione a livello fisioterapico di come esercitare su un corpo o su un altro. Gli strumenti che si utilizzano sono quelli dell’approccio bio-psico-sociale che cerca di guardare a fattori personali». Tra questi fattori, ci spiega Senatore, si tiene conto anche del fattore del sesso, ma soprattutto «da un punto di vista fisiologico e ormonale».
Diversi sono, infatti, gli studi che hanno iniziato a considerare ed evidenziare le differenze che sono principalmente basate sulla biologia, sul sesso. Si è arrivato a studiare, ad esempio, che le atlete si rompono il crociato dalle tre alle sei volte di più degli atleti, nonostante pratichino sport di contatto in numero minore. Si è scoperto, inoltre, che le atlete subiscono traumi cranici con incidenza maggiore e con conseguenze più gravi, soprattutto nel calcio e nel rugby. Il ciclo mestruale e in generale la questione ormonale hanno, infine, degli effetti determinanti sia sulle prestazioni che sugli infortuni. Questo tipo di studi però, come ci ricorda l’intervistato, sono davvero molto recenti e sono stati avviati non più di dieci anni fa «che in questo ambito è come se fosse un giorno». Quello che non si può negare però è che «siamo in un momento storico in cui qualcosa sta cambiando e l’attenzione sta diventando sempre maggiore».
Ciò che salta all’occhio è che da un punto di vista di approccio, il focus è posto principalmente sulle differenze sessuali e quindi biologiche e quasi per niente su quelle di genere, che vogliono invece intercettare l’impatto delle diseguaglianze socioeconomiche e culturali sui corpi e la salute delle atlete. Il fatto che storicamente le donne siano state pensate come inadatte all’attività fisica ha fatto sì che la maggior parte degli sport nascessero e si sviluppassero sulla base delle caratteristiche dei corpi maschili. Questo, come per altri ambiti, ha prodotto una mole di dati e analisi – sulla base dei quali si interviene sia a livello medico (trattamenti terapeutici) ma anche a livello riabilitativo – derivanti da un campione a quasi totale prevalenza maschile. Le donne, e vale ancora di più per gli sportivi e le sportive transgender o intersex, spesso non ricevono una preparazione, una riabilitazione o una cura pensata per i loro fisici e le loro peculiarità.
Uno step successivo verso un vero approccio genere-specifico si può trovare nello studio che porta il titolo Lesione del legamento crociato anteriore: verso un approccio ambientale di genere (Parsons JL, Coen SE, Bekker S., Br J Sports Med, 2021). Cercando di ripensare il modello che spiega la maggiore incidenza di infortuni al crociato nelle atlete attraverso i soli elementi biomeccanici e ormonali, i ricercatori hanno voluto incorporare il genere nell’analisi di quattro ambienti di sviluppo diversi: l’ambiente pre-sportivo, l’ambiente di allenamento, l’ambiente della competizione e l’ambiente di cura. Ciò che mette in risalto questo approccio è che quando si tratta di atlete è doveroso ricordarsi che esiste un fattore di discriminazione di genere – di cui abbiamo parlato già molte altre volte – che può avere delle conseguenze sulla loro salute. Nel paper ci si riferisce per esempio al fatto che assai spesso le atlete crescono con l’idea che la forza e lo sviluppo muscolare non siano appropriati per un corpo femminile. In generale, inoltre, come ci ricorda la medica dello sport, Francesca Conte in una sua intervista a margine della conferenza Salute & Basket «le differenze di budget implicano che le ragazze non abbiano sempre la possibilità di lavorare in strutture come quelle dei maschi, spesso si trovano senza sala pesi e la possibilità di lavorare con fisioterapisti e medici sempre presenti o con allenatori e preparatori qualificati come nella controparte maschile». Questo, secondo Conte, «può causare un aumento degli infortuni».
Per il fisioterapista Senatore, dunque, parte del gap di conoscenza che c’è rispetto ai corpi delle atlete è da riconnettere nel quadro più ampio di una «mancanza di attenzione verso lo sport in generale, in Italia, che diventa ancora più marcata quando si parla di femminile». La speranza, secondo lui, è legata al fatto che «la professionalizzazione dello sport femminile possa portare a una professionalizzazione di tutto l’indotto e di tutte le figure che lavorano attorno alle atlete: medici, fisioterapisti e preparatori atletici». Questo a sua volta implicherebbe una maggiore attenzione e focalizzazione sulla tematica e quindi a maggiori studi e analisi. Quanto fatto finora a livello di raccolta dati e test clinici con approccio genere e sesso-specifico, infatti, ci dice Senatore, «è solo un punto di partenza da cui va sviluppato ancora molto sia dal punto di vista teorico che pratico».
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Articolo di Camilla Valerio

Sono nata a Bolzano, ma vivo a Salerno e amo giocare a basket da ben 19 anni. Ho conseguito una laurea specialistica in Global Studies presso l’Università Karl-Franzens di Graz con una tesi che poi è diventata anche un libro: The Normalization of Far-right Populism. Narratives on Migration by the Italian Minister of the Interior between 2017 and 2018. Scrivo per diverse testate e ho iniziato ad interessarmi al femminismo quando ho capito che tante delle cose che mi facevano arrabbiare avevano un nome, ovvero “patriarcato”. Frequento il Master in Studi e Politiche di genere presso l’Università di Roma Tre.

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