Oltre gli stereotipi: che cos’è la medicina di genere

Partiamo dalla doverosa e inedita rassicurazione che il mondo del web stava aspettando: la medicina di genere non è la medicina “delle donne” e nessuno vuole sostituirla alla medicina “degli uomini”. La medicina di genere è un approccio che studia l’impatto che il genere ha sulla fisiologia umana, sulle fisiopatologia e sulle manifestazioni cliniche delle malattie nei due sessi. È chiaro che la sua diffusione porti a un iniziale e rinnovato interesse per le specificità femminili, storicamente meno studiate in medicina, ma questo non è il segnale di un’imminente soppressione del genere maschile da parte della sanguinaria lobby delle donne. Non ha a che fare con l’essere femminista ma fa parte della cultura di genere. E la cultura di genere non è un movimento, ma una realtà che può migliorare la vita di tutti noi, donne e uomini insieme.

Ha un’origine piuttosto recente che risale all’inizio degli anni Novanta del Novecento. Fino a quel momento la medicina non si era occupata della specificità femminile se non nei suoi aspetti legati alla riproduzione.

Bernadine Healy

Le cose iniziano a cambiare con la dottoressa Bernadine Healy, medica di Harvard e direttrice del National Institute of Health, che nel 1991 scrive sul New England Journal of Medicine un editoriale destinato a segnare un prima e un dopo nella storia della medicina. Si tratta di The Yentl Syndrome, così intitolato dal nome della giovane ebrea che si finge uomo per poter studiare, già protagonista di un racconto di Singer del 1960 portato sugli schermi da Barbra Streisand nell’omonimo film del 1984. Nell’editoriale, Healy commenta i dati degli ultimi studi americani del periodo in materia di cardiologia e di disparità di trattamento riservata ai generi, da cui risulta che le donne siano sottoposte a meno diagnosi e meno interventi terapeutici rispetto agli uomini. È la prima volta che si menziona una specifica “questione femminile” e l’editoriale ottiene una vasta risonanza nel mondo scientifico.

The Yentl Syndrome trova nuove conferme nel 1997: quell’anno i registri di cardiologia degli Stati Uniti mostrano come su un campione di mille donne americane la prima causa di mortalità, in rapporto all’età, siano le malattie coronariche (Chd). Seguono con distacco l’ictus, la frattura dell’anca e per ultimo il cancro al seno.

L’incidenza delle malattie croniche in relazione all’età della donna nel 1997 negli Usa

A rincarare la dose ci pensa la rivista Time, all’inizio del nuovo millennio. La sua copertina del 28 aprile 2003 pone alle donne un importante e provocatorio quesito: siete sicure che il vostro principale e più immediato nemico sia il cancro? Nelle pagine interne denuncia la poca attenzione delle donne e della medicina alle malattie cardiovascolari e la quasi totale concentrazione sugli screening di seno e utero. Una mentalità “a bikini” che, nel valutare storicamente le potenziali malattie nella donna, si è sempre soffermata soprattutto su quelle che riguardano la sua realtà procreatrice. È ora di cambiare, secondo Time, e abbracciare un concetto di salute femminile più globale.

La copertina di Time del 28 aprile 2003

Bisognerà aspettare il 2007 per assistere alla nascita della prima Società Internazionale di Medicina di Genere, fondata dalla dottoressa Marianne Legato della Columbia University, la guru della medicina di genere.

Dagli anni Novanta a oggi gli studi medici hanno aumentato la propria attenzione al concetto di genere per migliorare la qualità delle cure offerte e della comunicazione tra medico e paziente. Un sistema sanitario attento al genere aumenta l’accesso delle donne alle informazioni e alle cure ed è più consapevole di come disuguaglianze e norme di genere riproducano le vulnerabilità. Isolando le specificità del corpo femminile e la nostra conoscenza che di esso abbiamo, si migliora al contempo anche la conoscenza del corpo maschile. Come dire, una mano lava l’altra: studiando il genere e incrociandolo ad altri fattori come l’etnia, l’età o gli effetti dell’ambiente circostante sulla salute è sempre possibile aumentare le nostre competenze sull’epidemiologia e portare benefici a entrambi i generi.

Esistono molte malattie che potrebbero essere scoperte prima e curate meglio, ma che vengono diagnosticate in ritardo o trascurate del tutto a causa di alcuni pregiudizi di genere duri a morire. Accade soprattutto nei casi delle pazienti donne, ma gli uomini non sono del tutto al riparo da questo pericolo.

Il cancro alla vescica è uno dei tumori in cui il gap di genere si fa più sentire: secondo gli studi più recenti la diagnosi per un uomo avviene in media dopo 73 giorni mentre per una donna dopo 85 giorni. Di norma il primo campanello d’allarme è il sangue nelle urine, ma questa circostanza nelle donne può essere frutto di diverse anomalie e non sempre nel loro caso si è portati a pensare subito al cancro alla vescica. Anche il cancro al colon presenta delle difficoltà maggiori per le donne, nonostante la grande attenzione italiana per lo screening e la ricerca del sangue occulto. Il problema è il modo in cui viene eseguito lo screening standard: è pensato per essere particolarmente indicato nel rilevamento del tumore al colon discendente, di cui soffrono in percentuale maggiore gli uomini, mentre le donne sviluppano con più frequenza il tumore al colon ascendente, che essendo lontano dal retto non si esprime quasi mai con sangue nelle feci. Risultato? Lo screening per la prevenzione del tumore al colon risulta più efficace nell’uomo che nella donna, poiché è stato coniato fondamentalmente su di lui.

Lo stesso dicasi per l’ambito cardiologico. Il dolore al braccio sinistro è ormai convenzionalmente riconosciuto come il tipico segnale dell’infarto, ma quello che forse non tutti sappiamo è che questo è un sintomo prevalentemente maschile. Nelle donne l’infarto in atto è spesso accompagnato da sintomi diversi, come i disturbi addominali irradiati alla schiena, di frequente scambiati per spie di altre patologie meno gravi col rischio di ritardare la diagnosi in modo fatale.

Ci sono poi i casi in cui a essere svantaggiato è il genere maschile, come quello dell’osteoporosi. In Italia colpisce circa 5.000.000 persone, al di sopra dei 50 anni la prevalenza dei casi è costituita all’8% da uomini e al 23% da donne. In generale, quindi, in questo ambito si è portati a fare più attenzione alla donna, per via della carenza di estrogeni successiva alla menopausa a fronte di un’andropausa che costituisce invece una fase molto più lenta. La conseguente sottostima dell’osteoporosi nell’uomo ha portato a tarare i macchinari su parametri femminili, nonostante le statistiche mostrino come in un uomo aumenti la mortalità per tutte le altre cause dopo la rottura del femore. La fragilità delle ossa è quindi un altro ambito medico che va ripensato per entrambi i generi.

La buona notizia, però, è che oggi l’approccio di genere si sta consolidando sempre di più nel panorama della medicina mondiale, ampliando i suoi effetti benefici nella valutazione delle specificità dei corpi maschili e femminili. Nel 2009 l’Oms ha istituito un apposito Dipartimento che si occupa delle disparità di genere e ha inserito il genere tra i temi della programmazione sanitaria 2014-2019.

Negli Stati Uniti, dal 2015, la Food and Drug Administration si è dotata di un programma strategico per migliorare gli studi clinici ed espandere le fonti di dati delle analisi, mentre il National Institute of Health supporta la formazione in medicina di genere attraverso l’erogazione di corsi online. Anche la Comunità europea ha sottolineato l’importanza di intervenire rispetto alle disuguaglianze di genere nella salute e nell’accesso alle cure nella Strategia per l’Eguaglianza tra Donne e Uomini 2010-2015. Il raggiungimento dell’uguaglianza di genere è stato anche inserito nel programma Europa 2020.

Sono tutti passi in avanti per la medicina e per la civiltà, iniziati dalla dottoressa Healy nel 1991 con quel primo editoriale sulla cardiologia.

Possiamo allora dire che la medicina di genere sia nata col cuore? Storicamente forse sì. E, almeno stavolta, non nell’accezione di una presunta e affettuosa predisposizione delle donne alla cura ma nell’accezione di una nuova predisposizione alla cura di tutti. Quindi anche delle donne.

Per saperne di più:

In copertina: Mohamed Hassan da Pixabay. Illustrazioni: Gordon Johnson, Mohamed Hassan e Elf-Moondance da Pixabay.

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