«Il cammino è incerto, bussole consolidate per orientarsi non ce ne sono: indistinguibili le classi, invisibili i poteri, unico dato certo è che gli “ultimi” restano fuori dalla storia più che mai. […] Dicendomi ultimista provo a confrontarmi con la loro espulsione, ad assumere come punto di vista il loro. Stare dalla parte degli ultimi, provare a ragionare con la loro testa, la loro pancia e la loro pelle inizialmente mi è capitato per ventura, per un pezzo di me che era ineluttabilmente in gioco, più che per cultura o scelta: dichiararmi ultimista significa che alla fine tanto dolore non è inutile, e che a questo mondo finalmente – se non giustizia – può esserci, almeno, una scelta di campo non ambigua». Taccuino di un’ultimista, Introduzione.
Il piccolo libro poco noto da cui ho tratto queste righe uscì per Feltrinelli nel 1998. Raccoglieva alcuni degli articoli scritti da Clara Sereni per diverse testate giornalistiche: il più vecchio risale al 1980, la maggior parte si colloca tra il 1993 al 1997, l’anno in cui la scrittrice si dimise dalla carica di vicesindaca di Perugia, con delega alle politiche sociali, che aveva ricoperto per due anni. In Passami il sale lei stessa racconta di aver accettato con molte perplessità — politiche, ma anche personali: la preoccupazione di non riuscire a conciliare quell’impegno con le esigenze di una maternità speciale — la proposta fattale dal Pds, erede del partito che una volta era stato quello del padre e che poi le chiese di dimettersi.
A distanza di circa trent’anni dalla prima pubblicazione del grosso degli articoli raccolti nel Taccuino, restano sorprendentemente attuali tutte le questioni che in essi la scrittrice affronta, ribadendo spesso l’impossibilità di un posizionamento netto, sollecitato di continuo dalle parti in lotta, che si tratti del conflitto tra Israele e Palestina o di politica italiana. Ma è diventato più forte quel senso di spaesamento che la scrittrice denunciava già allora e in cui oggi si riconosce chiunque abbia vissuto da protagonista quella stagione straordinaria di impegno e di lotte civili, «quando nessuno dubitava di un futuro migliore dell’oggi». Spaesamento s’intitola, infatti, il racconto che apre il quarto tempo, l’ultima sezione in cui sono organizzati i racconti del Lupo Mercante, il libro del 2007 in cui Sereni ricostruisce, attraverso le storie di ventisei personagge, il cammino collettivo che le donne, nate come lei nell’immediato secondo dopoguerra, hanno compiuto insieme per affermare la loro soggettività e la necessità di un doppio sguardo sul mondo. In quel racconto che si apre con le parole di una vecchia canzone ispirata a Pavese – «Un paese vuol dire non essere soli…» — la protagonista, Teresa, ormai sessantenne, sperimenta la solitudine di chi «non ha più un paese politico, un progetto una teoria un’utopia in cui riconoscersi […] non ha più un paese degli affetti, almeno non quello che ha conosciuto per tanti anni […] anche la lingua di tutti i giorni, l’italiano, […] non è più il paese che conosceva: e non per i mille termini inglesi o pseudo-inglesi di cui è ormai infarcita, ma perché di tante parole il significato è slittato, è cambiato il senso […]. Perfino l’età, gli anni che ha, non sono un paese riconoscibile: diverse dalle madri, differenti dalle figlie che verranno, le donne della generazione degli zoccoli e delle gonne a fiori non riescono a essere né giovani né vecchie, né dentro né fuori dal gioco dei sessi e delle differenze. […] Spaesamento significa per Teresa vivere tutto questo, patirlo, restarne ferita ogni giorno e non arrendersi: pensare che spaesamento sia una parola bella, ricca. Significa non rassegnarsi all’esistente, ma attraversarlo consapevolmente, senza rinunciare malgrado le difficoltà tremende a creare con altri e altre una rete». Il Lupo mercante.
Cinque anni dopo, nel 2012, con Una storia chiusa, Sereni affina il suo sguardo retrospettivo restituendoci un affresco del nostro paese, a partire dalle storie degli anziani e delle anziane di una casa di riposo, ciascuno e ciascuna ancorata alle sue passioni e delusioni, al ricordo degli eventi che hanno visto le loro singole vite intrecciarsi con la grande Storia, portandole a schierarsi su fronti contrapposti. Ora, accomunate dalla fatica di vivere l’ultimo brandello della loro esistenza, cercano una via per rappacificarsi con se stesse e con gli altri e le altre.
Infine, con Via Ripetta 155, uscito nel 2015, la scrittrice ritorna in maniera analitica su ciascuno di quei dieci anni, dal 1968 al 1977, che furono cruciali per la storia italiana e per la sua personale. Lo fa, stavolta, in prima persona, ma con la consapevolezza di chi sa che la storia sua e di quelle/i che frequentarono la sua casa è emblematica di una generazione di giovani che, fiduciose/i nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, furono disposti a pagare di persona il prezzo che il mondo esigeva, pur di cambiarlo in meglio, quel mondo; e rinunciarono a ogni forma di sicurezza, da quella economica e lavorativa a quella garantita da legami affettivi stabili. Via Ripetta 155 racchiude nella concretezza del titolo — l’indirizzo della prima casa che la scrittrice sente sua, un luogo preciso, riconoscibile, fatto di mura, di oggetti, dei cibi che vi si cucinano, delle amicizie e degli amori che lo abitano — il bisogno di una stabilità, anche se apparente e momentanea, che potesse però essere una base per partire alla ricerca di equilibri ogni volta diversi; e lontani da quelli voluti dalla famiglia d’origine e dai partiti tradizionali. È lo stesso mondo descritto in Sigma epsilon, pubblicato nel 1974 per Marsilio: il primo romanzo, breve e a lungo rinnegato da Sereni che lo giudicava acerbo e brutto, difficile da collocare all’interno dei generi, come tutte le sue opere. La storia comincia come una sorta di diario delle giornate — degli amori e delle delusioni — di una giovane donna che fa parte di un gruppo che considera la cultura uno strumento di lotta politica ma che, come da copione, le assegna il ruolo di angelo del ciclostile; ma finisce col trasformarsi in un racconto di fantascienza con tanto di alieno/a in missione sulla terra, capace di assolvere egregiamente a tutte le funzioni assegnate per tradizione sia al maschile che al femminile. Ma solo finché non decida di rinunciare alla sua origine, per umanizzarsi in modo irreversibile.
Il tema della differenza di genere attraversa tutta l’opera di Sereni che nel Taccuino si definisce «donna non solo per l’anagrafe», quando elenca i quattro spicchi dei quali, «con continui sconfinamenti», le sembra di essere composta. Altre differenze si aggiungono a questa prima, come l’essere «ebrea per scelta più che per destino» — alla storia di una particolarissima forma di appartenenza è dedicato Il gioco dei Regni, del 1993 —; e ancora essere «esperta di handicap e debolezze» — il tema principale dei due libri di racconti, Manicomio primavera del 1989 ed Eppure del 1995 —; infine «utopista come chi, radicandosi in quanto esiste qui e oggi, senza esimersi dall’intervenire sulla realtà quotidiana, coltiva il bisogno di darsi un respiro e una passione agganciati al domani», Taccuino. Perché ogni vita è un mosaico e quella di una donna più delle altre, come la scrittrice afferma nelle ultime righe del libro che la rese famosa, Casalinghitudine, uscito nel 1987; un libro per il quale, nella prefazione all’ultima edizione, l’autrice afferma di essere debitrice al movimento delle donne degli anni Settanta. La peculiarità di questo come di tutti gli altri libri di Sereni è quella di tenere insieme nel racconto avvenimenti che meritano un titolo di giornale con quelli che fanno la vita quotidiana degli individui, le loro abitudini e le loro idiosincrasie, le necessità del corpo e gli slanci del cuore, dando la stessa dignità alla preparazione di una pasta e fagioli e alla riunione di partito in cui si decidono scelte politiche importanti.

La scrittrice mostra fin dagli esordi una cura particolare per le parole, al punto di arrivare a creare quelle che la lingua non possiede ma che sono necessarie a descrivere il mondo: come casalinghitudine, appunto, che ha dato filo da torcere a schiere di traduttori; come ultimista; o come Merendanzo, il nome dell’evento che per una decina d’anni si è svolto d’estate sulle pendici del Peglia, allo scopo di raccogliere fondi e far conoscere i progetti della Fondazione Città del Sole, creata da Sereni nel 1998 per sostenere l’innovazione in psichiatria. E Le Merendanze è il titolo del libro che ne racconta il senso attraverso la storia di un gruppo di donne italiane e immigrate che collaborano alla preparazione di una festa mescolando i loro saperi e i sapori delle pietanze delle regioni da cui provengono.
Perché le parole sono importanti, prime tra tutte quelle che nominano la differenza tra uomini e donne. Mi piace ricordarla, Clara, con le ultime righe di un messaggio che mi mandò nel 2017, circa un anno prima della sua scomparsa: «Cosa buffa: sono stata nominata commendatore (pensa tu), ma io vorrei commendatrice e sto vagamente provando a sollevare la questione».
In copertina: Clara Sereni.
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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.

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