Donne antifasciste nel carcere di Perugia. Parte terza

Ho deciso di iniziare la terza “puntata” sulle donne antifasciste nel carcere di Perugia con le parole di Valeria Wachenhusen: «Io degli operai non sapevo niente, perché un operaio lo vedevo quando mi veniva a fare un lavoro in casa, però rapporti amichevoli non li avevamo, e allora lì io ho imparato a conoscere cosa sono gli operai e le operaie. Sapevano molto più di quello che io avrei creduto, perché di politica se ne intendevano più di me, perché noi siamo venuti al partito così, per istinto. Va bene, abbiamo letto un po’ Marx, ma le operaie ne sapevano di più e io ho imparato dalla Bei e dalla Bernetich» (dalla testimonianza rilasciata a Laura Mariani in Quelle dell’idea, 1982).
Queste parole fanno venire in mente Carlo Levi che nello stesso periodo è al confino in Lucania e lì lui, intellettuale del Nord, “scopre” i contadini del Sud. In questo caso l’intellettuale Valeria Wachenhusen, attraverso la comune esperienza del carcere, “scopre” le operaie che, in quanto a politica, sono più preparate di lei.
Wachenhusen è stata nel carcere di Perugia dal 1938 al 1943. Nata in Austria, di famiglia benestante e nobile, laureata, comunista, viene arrestata insieme al marito Carlo Jülg nel maggio 1937 con l’accusa di «appartenenza ad associazione sovversiva» e «continuata attività propagandistica». Valeria e Carlo pensavano che non li avrebbero condannati a più di cinque anni; invece prendono, come racconta lei, «quattordici anni lui e dieci io, un po’ di meno perché ero una donna, una donna non vale tanto quanto un uomo…».
Sono convinti però che il fascismo non durerà tanti anni quanti la loro condanna, usciranno prima loro e, al momento della sentenza, alzano il pugno come gesto di sfida.
Presenza positiva e figura di riferimento all’interno del carcere, Valeria insegna le lingue straniere, che conosce, alle compagne e cerca ogni volta che può di contattare le detenute comuni per avvicinarle ai principi del comunismo. Spiega che sono sfruttate e i lavori di cucito e di ricamo che fanno sono sottopagati, che la maggior parte del guadagno va alle suore. «Cercate di essere unite per ottenere i vostri diritti anche qui nel carcere. Voi avete diritto per i pasti di questo, per l’aria di questo, per il lavoro di questo».
Quando viene occupata la Jugoslavia, Wachenhusen organizza gli aiuti da inviare ai partigiani jugoslavi, e cioè maglioni, calze, passamontagna. «noi ci facevamo mandare da casa tutte le cose di lana che potevano mandarci, dicevamo di avere freddo, poi si disfacevano e si facevano cose da uomo», quindi le slave che erano in carcere le inviavano alle proprie famiglie dicendo che erano per il nonno, per lo zio o per altri parenti, ma a casa sapevano che erano per i partigiani. Il regolamento prevedeva che si potessero ricevere pacchi da casa solo quattro volte l’anno: a Natale, Capodanno, Pasqua e il 28 ottobre anniversario della marcia su Roma. In queste circostanze le famiglie che avevano più disponibilità più mandavano, soprattutto generi alimentari, che venivano poi messi in comune e redistribuiti a seconda delle necessità. In questo si distingueva la famiglia di Valeria, ma anche quella di Adele Bei. Quando in casa Bei ammazzavano il maiale, usanza diffusa nelle nostre parti, era una festa per le carcerate politiche, perché sarebbero arrivate le salsicce.
Una curiosità: Valeria Wachenhusen, oltre a insegnare le lingue, si intendeva anche di elettricità e trovò il sistema di accendere la luce anche di sera. Metteva un ago tra i fili elettrici e le suore potevano girare l’interruttore come volevano, ma a vuoto. Un’ultima cosa credo sia interessante notare: Adele Bei e Valeria Wachenhusen, come detenute da più anni in carcere, furono, in successione, le portavoci ufficiali delle proteste delle politiche, eppure agli atti risulta che subirono relativamente poche punizioni, questo perché molte sanzioni non furono registrate in quanto, come una volta ebbe a dire il direttore del carcere a Wachenhusen: «Ma voi non capite che noi non possiamo far vedere che voi non ubbidite».

Adele Bei
Valeria Wachenhusen

Uscita dal carcere, Wachenhusen prende parte alla guerra di Liberazione in Romagna con il nome di battaglia di Antonia e diventa dirigente dei Gruppi di difesa della donna. Dopo la Liberazione scende nel Meridione per organizzare le lotte delle pomodoraie e delle raccoglitrici di olive, insomma un’intellettuale che non è mai stata “radical chic” come diremmo oggi. Tra tutte le politiche del carcere di Perugia si può definire la più “femminista”.
A Trento c’è una via intitolata a Carlo e Valeria Jülg.

Nel carcere di Perugia la figura politica di maggior rilievo è indubbiamente Camilla Ravera. Maestra elementare, fondatrice del Pci, nel 1926, Gramsci in carcere, si trova a dirigere il partito essendo l’unica componente della segreteria in libertà. Quando nel 1927 Togliatti diventa segretario, Ravera è comunque la seconda carica del partito.
Arrestata nel 1930, è condannata a 15 anni e sei mesi. I primi anni li trascorre nel carcere di Trani. A Perugia arriva nel novembre del 1933 e nel luglio 1935 è mandata al confino.
Per il suo ruolo nel partito, all’interno del carcere è rispettata dalle sue stesse carceriere, più di tutte le altre politiche. «Fui trattata con rispetto e non dovetti subire pressioni di sorta, ma ero considerata un’anima destinata alla dannazione […]. Una suora entrava nella mia cella sempre tendendo in mano il crocefisso, così come i napoletani toccano il cornetto» (citata da Paolo Franchi in Italiane).

Camilla Ravera

Sulla sua detenzione a Perugia non posso non ricordare un episodio abbastanza famoso. È il 1934, un giorno suor Ignazia avvicina Ravera dicendole che ci sono degli amici che vogliono farle un regalo e l’aiuta a salire su una seggiola per guardare fuori verso il campanile della chiesa vicina. «A un tratto mi parve che la grande campana prendesse respiro, poi la vidi sollevarsi pesantemente da un lato, e il noto, profondo rintocco suonò nell’aria. Guardavo il campanile e sorridevo di una mia interna attesa. Ed ecco nel piano della campana apparire un uomo, poi un secondo, un terzo, avanzano fino al cornicione, sembrano discutere fra loro, guardano nella direzione del carcere come cercando qualcosa. Ho l’impressione che mi vedano, che mi guardino: levano e scuotono le braccia in segno di saluto, ripetutamente. Poi uno dei tre estrae un fazzoletto e lo sventola verso di me: lo vedo brillare rosso nel sole e lo saluto con la mano protesa quanto più posso verso l’inferriata, con il cuore che batte tanto forte da far tacere tutto, persino i rintocchi della grande campana. Un ultimo grande sventolio rosso e i tre uomini corrono via, spariscono. Per molte ore quel breve tratto di cielo, quella angustissima cella di segregazione furono per me pieni di tutto il mondo: il mio partito con i suoi fili sottili, diffusi, indistruttibili, era arrivato fino a me» (Camilla Ravera, Diario di trent’anni. 1913-1443).
Ravera è una figura talmente nota e studiata che non credo sia necessario aggiungere altro su di lei.

Conosciamo bene anche Adele Bei, madre costituente, ma che allora era registrata al Casellario Politico Centrale come casalinga. Veniva da una famiglia povera e numerosa di Cantiano: tutti boscaioli e tutti antifascisti. Aveva sposato Domenico Ciufoli, boscaiolo anche lui, anche lui antifascista, anche lui di Cantiano.
Ciufoli dovette lasciare il paese subito dopo l’avvento del fascismo e Adele lo seguì. Cominciò una complicata e difficile peregrinazione tra Lussemburgo, Belgio e Francia, dove nacquero i loro figli. Ciufoli era diventato un importante dirigente del partito, Adele faceva i lavori più umili, ma non era iscritta. Si iscrisse solo nel 1931 e diventò corriere per il partito tra Parigi e Roma, finché venne arrestata nel 1933 a Roma. Dopo 8 mesi di carcere preventivo a Roma, si celebrò il processo di cui si è già detto (Vitamine vaganti n 222 ) e fu condannata a 18 anni di carcere. Sette anni e mezzo li scontò a Perugia. Qui avrebbe voluto dedicarsi subito allo studio, per non perdere tempo, ma con sua grande delusione venne tenuta in isolamento per un anno intero. Poi però diventò la grande organizzatrice della “università proletaria” con orari e programmi ben definiti.
«Il mattino (alle 5 e mezza) sveglia, ognuna dorme nella propria cella; e si fa lettura fino alle 6 e mezza. Tu dirai: se dormite separate, chi può controllare se studiate o dormite? […] il pomeriggio ognuna di noi deve fare il rapporto orale di ciò che ha studiato al mattino. […] dalle 9 alle 11 lezione di francese [ma anche di tedesco e di inglese n.d.r.] Alle ore tredici ci chiudono ancora nelle nostre celle per riposare ed io mi faccio ancora due ore di lettura».
Ogni pomeriggio scuola di politica.
Dal registro dei colloqui Adele Bei risulta la detenuta che ha ricevuto più visite, aveva tante sorelle e fratelli che si davano il cambio per venire tutte le volte che il regolamento lo consentiva e poi Cantiano è sì nelle Marche, ma proprio al confine con l’Umbria. Amato Bei, il fratello, teneva anche i collegamenti con il partito.
Adele Bei fu maestra, come Marcellina Oriani, nel riuscire a tirar fuori quel poco di positivo che poteva esserci anche in una situazione disgraziata come quella. Denunciava ogni ingiustizia che vedeva, era intransigente, non ne faceva passare una, ma aveva anche momenti di leggerezza, come quando fece, insieme alle altre detenute, uno scherzo alle suore. Teneva in una cornice tutta adorna di pizzi la foto di un bambino che le religiose credevano che fosse suo figlio, invece era la foto di Lenin da piccolo. Alla fine, nonostante tutte le privazioni, uscì arricchita da questo lungo periodo passato nel carcere di Perugia, tanto che, nel novembre 1941, arrivata a Ventotene, rimpianse l’atmosfera del carcere. Al confino si respirava un clima di sospetto e di competizione, venivano ristabilite le gerarchie di partito, anche se lei, che era entrata in carcere come casalinga, ormai faceva parte dell’élite del partito.
È noto tutto il suo percorso dopo la caduta di Mussolini, qui posso solo aggiungere che l’esperienza del carcere l’aveva messa di fronte a una realtà atroce che prima non conosceva, pertanto in seguito si adoperò anche perché fossero rivisti alcuni processi delle detenute comuni.

Marcellina Oriani

Ed eccoci a Marcellina Oriani, io di lei sapevo solo quanto avevo letto in un articolo pubblicato online: «Le detenute politiche del carcere di Perugia erano tutte comuniste, tranne Marcellina Oriani, testimone di Geova». Faccio le mie ricerche e viene fuori tutta un’altra donna. Macché testimone di Geova, Oriani è la dimostrazione di quello che ha scritto Wachenhusen a proposito delle operaie. È una donna che ha una visione politica ben precisa, un progetto che insegue con assoluta coerenza dal primo sciopero del 1928 fino a tutta la guerra di Liberazione e oltre, sempre in prima fila, senza tentennamenti, una donna alla quale dobbiamo molto ancora oggi.
Nata a Cusano Milanino nel 1908, a 11 anni va a lavorare in fabbrica come operaia tessile. Dopo lo sciopero del 1928 contro il taglio dei cottimi viene licenziata per rappresaglia e decide di aderire al partito comunista. Comincia a lavorare in clandestinità, raccoglie soldi per il soccorso rosso ed ha anche l’incarico di riprodurre i volantini che le consegnano. È tutto molto pericoloso: ogni volta che si ferma una macchina, racconta Marcellina, hai paura che ti abbiano scoperto e ti vengano a prendere. Se hai il sospetto che ci siano delle spie, magari perché senti dei passi per le scale, devi bruciare tutto e poi ristampare di nuovo tutto il materiale. Una volta stampato il materiale, tocca a Oriani prenderlo e distribuirlo ai compagni e alle compagne che lo portano nelle fabbriche e nei vari caseggiati. Tutto questo all’insaputa della madre che la vede tornare sempre più tardi la sera. «Sei sempre in giro te, non ti sposerà nessuno!».
Ha incarichi di responsabilità, corrisponde con l’estero utilizzando un cifrario che lei stessa di volta in volta stabilisce, cambia continuamente nome: Adele, Anna, Clara. Insomma è abilissima tanto che ci mettono sei anni per arrestarla, dal 1928 al 1934.
Viene condannata a 10 anni di carcere per «costituzione di associazione comunista, appartenenza alla medesima e propaganda sovversiva». E solo al momento dell’arresto i genitori vengono a sapere della sua attività, il padre, socialista, la prende abbastanza bene, ma la madre va in catalessi per più di quattro ore.
Arriva a Perugia il 29 giugno 1935. Fa amicizia con l’infermiera, la Fernanda, una carcerata comune. A una certa ora la Fernanda faceva scendere dalla finestra dell’infermeria legato a un cordino il Corriere della Sera, così le compagne possono in qualche modo essere informate sulla situazione internazionale. Oriani è brava a stringere relazioni. Quando sospetta che sia successo qualcosa di importante, dice che ha un dolore e che deve andare in infermeria a fare i massaggi con l’alcool e così la Fernanda la informa. Se le politiche hanno bisogno di matite o altro, Marcellina lo dice alle scopine e queste, di nascosto, le procurano quello che chiede.
La madre a un certo momento, su suggerimento dei compagni di Cusano Milanino, presenta la domanda di grazia. Sappiamo che la cosa era proibita dal partito, ma questo era considerato un caso particolare perché il padre era invalido, la madre andava a servizio, ma per un orario ridotto, e in casa ci sarebbe stato bisogno di un aiuto. Anche Adele Bei ne è convinta e dice a Marcellina di accettare, che anche lei sosterrà la richiesta. Persino le suore vanno la notte nella sua cella per convincerla a firmare, ma Marcellina non solo rifiuta, ma scrive in calce alla domanda che secondo lei non era reato quello che aveva fatto. E qui, scusate se è poco, mi è venuto in mente Dante che rifiutò l’amnistia perché rientrare a Firenze a queste condizioni avrebbe comportato da parte sua un’ammissione di colpa, che lui riteneva di non aver commesso, proprio come Marcellina.
Nell’ottobre del 1938 le vengono concessi due anni di condono per amnistia e due per indulto. Esce dal carcere e l’accompagnano in questura e qui «mi hanno fatto delle domande, se ero veramente una comunista e ho detto di sì, se mi trovavo pentita e io ho risposto: «Ma io non mi devo trovar pentita di niente perché non ho fatto niente, per me non è una colpa quella che voi mi dite […]». «Ma allora tornate a casa a fare quello che avete fatto?», «Ma se io non ho fatto niente…». Poi hanno detto: «Avete due ore. Gironzolate per Perugia, vedete la città e l’Umbria sempre verde».
In realtà volevano vedere se l’avvicinava qualcuno, se riuscivano e prendere qualche complice, ma Oriani non cade certo nella trappola, va diretta alla stazione, si siede e non parla con nessuno.
Tornata a casa, nessuno vuole darle un lavoro, e quando lo trova viene pagata meno di quanto le spetterebbe perché è stata in prigione. Dopo l’8 settembre riprende a lavorare in clandestinità, compie azioni molto pericolose, non ha paura ma corre forse troppi rischi, finché viene mandata a Savona e qui diventa una figura particolarmente importante come organizzatrice della Resistenza in Liguria.
Dopo la Liberazione è candidata all’Assemblea Costituente per il Pci nel collegio di Milano, ma non ce la fa per pochi voti. Viene eletta nel consiglio comunale di Cusano Milanino e torna a lavorare in fabbrica, dove fa parte della commissione interna.

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Articolo di Paola Spinelli

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Ex insegnante, ex magra, ex sindacalista, vive a Perugia alle prese con quattro gatti e i suoi innumerevoli hobby, ma è in grado di stare bene anche senza fare niente.

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