Neera e le altre

«Perché, per un uomo e una donna, vivere come marito e moglie significa proprio questo: poter presentare i figli maschi come legittimi alla fratria e ai demo e le figlie femmine darle in moglie a un cittadino. Infatti noi per il piacere abbiamo a disposizione l’etera, per le esigenze quotidiane di cura del corpo la concubina, e la moglie per procreare figli legittimi e poter contare su di lei come fedele custode della casa». Contro Neera, 122.

Quest’affermazione, per noi singolare, si legge nella parte conclusiva di un’orazione giudiziaria databile fra il 343 e il 340 a.C., l’unica intitolata a una donna che ci sia pervenuta integra dall’antichità. Anche in questo caso, come ogni volta che una norma, una condizione, un uso non abbia corrispondenza nella società e quindi nella lingua di arrivo è necessario spiegare, più che limitarsi a tradurre. Per hetáira, letteralmente compagna, come abbiamo visto a proposito di Aspasia, si usa di solito la traduzione cortigiana che fa riferimento a una condizione ben diversa, quella delle donne colte, raffinate e disponibili che vivevano nelle corti rinascimentali italiane. Ad Atene l’etera è semplicemente una residente straniera: non è nata in città, ma parla greco e non è riconoscibile a prima vista come straniera per caratteri somatici distintivi. Proprio questa sua estraneità la pone in una condizione di relativa parità rispetto agli uomini della comunità di riferimento, almeno in termini di condizione economica, di libertà di movimento, di accesso all’educazione e alla cultura, nonché ai luoghi dello svago, del piacere. Ma non ha diritti civili né tanto meno diritti politici, dunque non esercita il potere, almeno direttamente.
La condizione più difficile da definire è quella della pallakè, che la traduzione concubina riconduce a uno status presente in culture diverse da quella occidentale, compresi, anche se i Greci tacciavano di barbarie i popoli orientali, i Troiani, che prevedevano la poligamia. Ella faceva parte a pieno titolo della famiglia ed era un po’ come una seconda moglie: pare che anche Socrate ne avesse una, di nome Mirto. Chi seduceva una concubina, se colto in flagrante dal ‘marito’ di riferimento, poteva essere da quello impunemente ucciso. La concubina, diversamente dalla moglie, non era responsabile dell’amministrazione della casa e dei beni dell’uomo con cui vive, al quale tuttavia può dare figli liberi, ma privi di diritto di cittadinanza, a meno di leggi speciali (come quella voluta da Pericle per il figlio avuto da Aspasia). Che cosa s’intenda per «esigenze quotidiane del corpo» possiamo solo immaginarlo.
Infine c’è la gynè, che significa insieme donna adulta e moglie, un po’ come il francese femme; l’essere adulta dunque non ha a che vedere con l’età, ma appunto con la condizione di donna sposata. Il matrimonio per una ragazza avveniva di solito in giovanissima età, con un uomo molto più anziano, in modo che alla sua morte, lei fosse ancora in età fertile e potesse sposarsi (e procreare) una seconda e non di rado anche una terza volta, per garantire un congruo numero di soldati alla città. La donna non sposata è parthènos, alla lettera vergine. Ma per aspirare al matrimonio legittimo bisogna essere nate ad Atene, essere cioè, se non cittadine (politídes) astái: asty è il termine che designa la città come luogo fisico o geograficamente delimitato, mentre polis la città come organismo politico.
Su un gradino socialmente assai più basso si colloca la prostituta (pórne), di solito una schiava, che fa uso del suo corpo non occasionalmente per guadagnarsi da vivere in un óikema (casino) e il più delle volte è proprietà di un mezzano o una mezzana; ma può riuscire, magari con l’aiuto di un amante facoltoso, a comprarsi la libertà e a esercitare in proprio; e magari salire nella scala sociale diventando etera o perfino concubina. L’importante è che non abbia l’impudenza, come sembra essere il caso di Neera, di aspirare a diventare moglie legittima di un cittadino ateniese doc. Questa lunga premessa linguistica è necessaria per capire l’arringa in cui il cittadino Teomnesto accusa Neera proprio di questo crimine, considerato gravissimo sia se compiuto da uno straniero che da una straniera, perché mina le basi stesse su cui si regge la polis, che deve poter riconoscere i suoi membri. Neera è nata a Corinto (a pochi chilometri da Atene) e là ha esercitato fin da giovanissima insieme ad altre per una mezzana di nome Nicarete. Grazie alle sue doti ha poi conquistato una posizione migliore, data in ‘affitto’ a due uomini che ne godevano in esclusiva, finché uno dei due l’ha addirittura riscattata. Ma lei non si è accontentata e dopo aver derubato e abbandonato il suo amante, ha tentato il grande salto, spacciandosi per moglie legittima di un certo Stefano e di dare in sposa sua figlia Fanò prima a Frastore, un rispettabile cittadino; poi, dopo che quello avendo scoperto la sua vera origine, l’aveva ripudiata, addirittura all’arconte re, magistrato religioso di grande prestigio.
Una breve parentesi a proposito di Frastore che, chiamato a testimoniare, conferma di aver ripudiato Fanò dopo aver saputo chi fosse veramente sua madre, ma racconta di averla ripresa in casa e di aver addirittura presentato come legittimo il figlio di lei, dopo che, ammalatosi gravemente, aveva avuto bisogno di cure; anche per non dare la soddisfazione di ereditare, in caso di morte, a parenti odiosi che si sarebbero arricchiti, in mancanza di un suo erede diretto: «Non molto tempo dopo il ripudio della figlia di Neera, Frastore si ammalò; stava molto male e non c’era quasi più niente da fare. Poiché c’era una vecchia ruggine tra lui e i suoi parenti, c’erano rancori e antipatie ed era senza figli, fu circuito dalle premure di Neera e di sua figlia, che gli fecero visita per tutto il periodo della malattia mentre non c’era nessun altro che lo curasse; loro andavano da lui con tutti i rimedi utili nel suo caso e lo assistevano. Sapete certamente anche voi che cosa vuol dire una donna che sta al tuo capezzale quando sei malato». Ivi, 55-56

Ma perché Teomnesto si prende la briga di montare un processo per usurpazione dei diritti di cittadinanza contro questa donna ormai anziana? Le risposte possibili sono due, probabilmente vere entrambe. La prima è il vantaggio economico che gli sarebbe venuto da una vittoria in giudizio, in quanto avrebbe acquisito parte del ricavato dalla vendita dell’accusata e dei suoi beni. Ma forse la più importante è il desiderio di vendicarsi di Stefano, il sedicente marito di Neera, colpevole più volte nei confronti di suo cognato Apollodoro, figlio del banchiere Pasione, straniero di nascita ma naturalizzato ateniese, che sostiene l’accusa insieme a lui: tutta la prima parte dell’orazione è dedicata infatti a raccontare le ripetute malefatte di Stefano nei suoi confronti. Quelli erano gli anni in cui Atene stava per cadere sotto l’influenza di Filippo re di Macedonia e in città c’erano due fazioni contrapposte. L’orazione ci è stata tramandata come di Demostene, ma sebbene non sia sua è certamente nata all’interno della sua fazione politica, di cui Apollodoro è un esponente importante. Infatti l’altro motivo di grande interesse che ha per noi questa orazione è che essa mostra il progressivo deterioramento del valore del diritto di cittadinanza, che ormai si è ridotto a privilegio puramente formale, mentre sul piano economico non garantisce neppure la sopravvivenza. Dovevano essere molti quelli che, come Stefano, cittadino per diritto di nascita, non sapevano come sbarcare il lunario e vivevano di espedienti, tra cui il più semplice era lo sfruttamento del ‘lavoro’ delle donne cui si legavano. Nello stesso tempo la città concedeva sempre più spesso la cittadinanza a stranieri abbienti, come appunto il padre di Apollodoro, o addirittura a città intere (come fu per Platea, caso famoso portato a esempio nell’arringa) che si fossero rese benemerite nei suoi confronti. Per converso, si arriverà in seguito al punto di togliere la cittadinanza agli ateniesi privi di mezzi.
Per quanto riguarda le donne la situazione era analoga: le figlie legittime di cittadini non trovavano chi le sposasse se erano povere, e la città interveniva fornendo loro una dote… «purché la natura le avesse dotate di un aspetto passabile». Questo è lo spauracchio che l’oratore agita davanti agli occhi dei giudici: che le loro figlie, in caso di mancata punizione esemplare di Neera, possano valutare opportuno darsi alla prostituzione, se questa, oltre a fornire facili guadagni, non esclude dalla possibilità di un matrimonio legittimo.

Non sappiamo come andò a finire il processo. Ma Teomnesto e Apollodoro sono in grado di produrre numerosi testimoni a conferma della loro ricostruzione dei fatti. E se poi Stefano, per scampare almeno lui alla condanna (e alle sue conseguenze) dovesse sostenere che i figli e la figlia che ha spacciato per legittimi li ha avuti da un precedente matrimonio con una donna in regola con le leggi, basterà interrogare sotto tortura un paio di schiave per averne la testimonianza più credibile.
A conclusione merita spender qualche parola sugli altri due processi pubblici (graphái) intitolati a donne di cui abbiamo notizia, quello contro Aspasia, alla metà del V secolo e quello contro Frine, contemporanea di Neera. Di essi non abbiamo né i discorsi di accusa né quelle di difesa, ma sappiamo che ambedue erano state accusate di empietà e che certamente attraverso di loro si volevano attaccare gli uomini cui erano legate: Pericle per Aspasia e per Frine Iperide, oratore abilissimo appartenente al partito antimacedone, che scrisse e pronunciò personalmente l’arringa difensiva per l’etera famosa per la sua bellezza, che aveva posato come modella per la statua di Afrodite scolpita da Prassitele. E riuscì a convincere i giudici dell’innocenza della sua cliente (e amante), con un colpo di teatro più volte rappresentato nelle arti figurative attraverso i secoli: ne denudò il seno davanti alla giuria.
Frine stessa si occupava di politica e militava nel partito che si opponeva a Filippo di Macedonia e a suo figlio Alessandro; ed era così ricca che quando quelli distrussero Tebe, lei si offrì di ricostruirla a sue spese, a patto che le fosse dedicata un’iscrizione a memoria dell’evento. Ma la legge vietava di dedicare monumenti elogiativi di qualsiasi tipo a una che faceva il suo mestiere. E Tebe rimase in rovina.

In copertina: Jean Léon Gérôme, Phryne, 1861.

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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.

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