Giulia Farnese abile donna d’affari

Parlare di Giulia Farnese è complicato e non perché manchino notizie, documenti e fonti storiche. È difficile perché su Giulia Farnese si è scritto molto e si è ipotizzato di tutto: si è discusso dalla sua morale fino al colore dei capelli o alla simmetria della bocca, scandagliando l’arte alla ricerca di un’opera, una scultura, uno schizzo capaci di mostrare le sue fattezze. Se il suo volto resta un mistero irrisolto, le note biografiche su di lei sono ben conosciute e, salvo qualche eccezione, oscillano tra interpretazioni malevole e considerazioni scontate. Che Giulia sia stata, invece, una donna consapevole e anche pertinace, prima nell’innalzare lo status del proprio casato e poi nel guidare la sua stessa esistenza, è un aspetto poco considerato; ancor meno lo è quello relativo al suo ingente patrimonio e alle sue abilità economico-finanziarie, per le quali si può sintetizzare che Giulia Farnese aveva fiuto per gli affari.
Educata alla musica, alla danza, alla letteratura ma anche all’economia domestica e all’obbedienza come ogni fanciulla da marito, dalle fonti storiografiche è vista come il punto di inizio dell’ascesa sociale e politica della famiglia Farnese in generale e di suo fratello Alessandro in particolare, il futuro papa Paolo III.

Cristofano dell’Altissimo, Ritratto di papa Alessandro VI , seconda metà del XVI sec., olio su tela, Firenze,
Galleria degli Uffizi
Tiziano Vecellio, Ritratto di Paolo III, 1543, olio su tela, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte

Dal padre Pier Luigi fu promessa sposa a Orsino Orsini, l’adolescente figlio di Ludovico e Adriana de Mila, cugina del potente cardinale Rodrigo Borgia. Al momento della firma del contratto nuziale, nel maggio del 1489, la giovane Giulia divenne oggetto dei desideri del futuro papa Alessandro VI che aveva aperto le sale della sua dimora per ospitare la cerimonia. Se la relazione cominciò allora o se iniziò dopo il matrimonio, celebrato l’anno successivo sempre nel palazzo di Rodrigo Borgia, ha un’importanza relativa. Ciò che conta è che Giulia venne sospinta nel letto del cardinale dall’intera famiglia consapevole che quella strada poteva accelerare il cammino verso i vertici della società aristocratica e curiale romana.
Le ragazze venivano cresciute ed educate fin da piccole ad accettare unioni matrimoniali in grado di migliorare la condizione sociale, economica e politica della propria dinastia. In questo caso l’alleanza non fu siglata da patti e contratti ufficiali, né da nozze di fronte a Dio, ma i vantaggi che per alcuni anni piovvero dal cielo furono ampiamente raccolti in terra dalla famiglia Farnese, anche dalla stessa Giulia diventata in breve tempo ricca grazie ai doni e ai gioielli ricevuti come amante di Alessandro VI.
Giulia dovette molto alla sua bellezza, riconosciuta come eccezionale, ma anche al suo animo gentile e umano, all’indole pacata, alla natura savia e accorta, come testimoniano alcuni personaggi suoi contemporanei; dovette molto anche al suo senso di appartenenza dinastica al quale aggiunse la capacità di accettare il proprio ruolo sapendo cogliere le opportunità che il destino le metteva sul cammino.

Luca Longhi, La dama e l’unicorno (ipotetico ritratto di Giulia Farnese), XVI secolo, olio su tela,
Roma Castel Sant’Angelo

Non le furono risparmiati epiteti e nomignoli sgradevoli, da «sposa di Christo» a «concubina papae», o commenti volgari sulla rapida carriera ecclesiastica del fratello Alessandro: «Nato in un vil contado d’una sporca / puttana infame, com’è ancora il resto / delle donne Farnese, e fosti assunto al cornuto cappel per quella porca Giulia sorella tua, sott’il sesto Alessandro si giacque […]». Ma Giulia seppe rimanere saldamente in piedi e, dopo la fine della relazione col Papa e la morte del marito Orsino, scrisse una nuova fase della sua vita, questa volta da sola. Come ricordano le notizie storiche, con i beni accumulati durante la relazione con Alessandro VI la giovane donna conquistò una sua personale sicurezza economica che seppe far fruttare.

Roma, Palazzo Farnese, XVI sec.

Sembra sia stata lei ad acquistare il nucleo architettonico di quello che sarebbe diventato anni dopo palazzo Farnese, ora sede dell’Ambasciata di Francia; fu sempre lei, in veste di madre, curatrice e legittima amministratrice, a rimpolpare con una sopraddote di circa diecimila ducati tra beni mobili e immobili, corredi e arredi, gioie e vesti, la già cospicua dote della figlia Laura Orsini in occasione del matrimonio con Niccolò Franciotti Della Rovere, nipote di papa Giulio II. Tra i beni mobili erano comprese anche 1200 pecore e 100 capre, ma su questo punto Giulia ebbe un ripensamento, L’anno dopo infatti stipulò con la famiglia dello sposo un nuovo accordo in base al quale teneva per sé il bestiame preferendo integrare con altri beni di sua proprietà la dote della figlia. Gli animali erano solide garanzie di futuri accordi e contratti redditizi e Giulia pensò bene di non privarsene. Alle personali risorse si aggiunsero all’inizio del Cinquecento i beni della sua dote nuziale, sopraggiunti alla morte del marito unitamente a quelli ereditati come vedova. A guidarla in questa seconda parte della sua esistenza fu la consapevolezza di quanto potesse essere fragile e insicura la vita di una donna e di quanto fosse importante mantenere e incrementare il capitale a proprio vantaggio.
Giulia, come aveva fatto precedentemente sua madre Giovannella Caetani, continuò a investire parte delle risorse economiche nella compravendita e nell’allevamento del bestiame, ma volse l’attenzione anche alla gestione dei terreni e allo sfruttamento dei boschi, alla cessione in affitto dei poderi, frantoi e negozi, alla coltivazione di orti e frutteti e alla conseguente vendita dei prodotti raccolti.
Scelse di vivere nel castello di Carbognano, un solido fabbricato quadrangolare sulle pendici dei monti Cimini in provincia di Viterbo, che il marito Orsino le aveva donato anni prima. L’accorta signora del feudo, che nel 1509 convolò a nuove nozze col nobile napoletano Giovanni Capece Bozzato, nella seconda parte della sua esistenza rimase lontana dai fasti e dai clamori degli ambienti romani, assaporò il gusto della libertà e dell’indipendenza anche economica alternando i soggiorni nei suoi possedimenti della Tuscia ai rientri a Roma nel suo palazzo del rione Arenula.

Carbognano (VT), Il castello di Giulia Farnese,
XII-XVI sec.
Carbognano (VT) , particolare della finestra con il nome di Giulia Farnese, XVI sec.

Tra XV e XVI secolo l’allevamento del bestiame fu un settore economico guardato con interesse dalle donne dell’aristocrazia romana, che in molti casi decisero di investire lì i propri capitali. Giulia non fu da meno e si garantì negli anni introiti di rilievo. Come altre nobildonne si occupò anche di attività creditizia per incrementare le entrate. In un atto notarile del 1506 si legge che la comunità di Cellere, debitrice di 88 ducati al tesoriere del Patrimonio vaticano, «temendo conseguenze nefaste, supplica Giulia Farnese in quanto signora e governatrice di ottenere una dilazione del pagamento; Giulia provvede lei stessa a soddisfare il tesoriere, rilevando il debito della comunità» e agendo di fatto come un banco privato. Anni dopo, nel 1520, un tale Giacomo di Luca di Carbognano accettò «un interesse di 22 carlini su un debito di 8 ducati contratto con Giulia Farnese». Che l’azione di credito fosse una costante nella sua organizzazione economica si può desumere soprattutto dal testamento che Giulia redasse nel marzo del 1524, pochi giorni prima di spirare, in cui si fa esplicito riferimento alla necessità di provvedere, dopo la sua morte, alla riscossione dei crediti precedentemente stipulati. Si parla di cifre non irrisorie, visto che il notaio Tranquillo de Romaulis specificò, per il solo mese di ottobre, una somma di mille ducati.

Carbognano (VT), Stanza di Giulia, particolare della decorazione interna

Ricca ma anche generosa. Atti di beneficenza furono costanti nella sua vita e simili disposizioni trovarono posto anche nelle pagine del suo testamento. Si trattava perlopiù di legati in favore di giovani povere senza dote alle quali veniva garantito, attraverso il matrimonio, una vita semplice ma onesta. Aiuti economici che valevano come prestiti a fondo perduto, durevoli nel tempo, furono garantiti anche alle donne che l’avevano servita fedelmente in vita: Onofria di Spoleto alla quale, oltre a somme in denaro, fu lasciato l’usufrutto della casa, un terreno su cui impiantare una vigna e i proventi delle società di allevamento degli animali che aveva amministrato con fedeltà; Berna da Carbognano per la quale il lascito, concepito come dote nuziale, sarebbe stato consegnato «a suo beneplacito» anche nel caso non si fosse sposata; e poi la «signora Aurelia, figlia di Cecco Maniccia, e Rosa, figlia di Andrea Mariotti, tutt’e due di Carbognano» alle quali lasciò ottanta fiorini ciascuna per il matrimonio, con la clausola che la somma fosse corrisposta «anche nel caso che non si maritassero». Infine, donna Agnese da Ischia, «nutrice ovvero balia della testatrice, che sempre ha amato come una madre» alla quale fu garantita una vecchiaia serena non solo con somme di danaro ma impegnando sua figlia Laura Orsini, legittima erede, «a mantenere presso di sé Agnese e a provvederla dignitosamente del vitto necessario e dell’abbigliamento […] a trattarla con affetto e carità filiale».

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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.

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