Scuola negata. Il caso del liceo “Visconti”

Chi abita a Roma conosce, almeno di fama, il liceo “Visconti”.
Fondato nel 1870, prima scuola laica e statale della città, ha sede in quello che era stato il Collegio Romano, importante istituzione educativa dei Gesuiti. Vicinissimo a piazza Venezia e al ghetto, accoglieva un numero elevato di studenti maschi e femmine di religione ebraica, le cui famiglie abitavano nei quartieri centrali della capitale.
Le leggi razziali colpirono in misura maggiore questa scuola che altre: ben cinquantotto allieve/i furono espulsi. Non ci fu alcun atto ufficiale, nessun decreto: tutto avvenne in un ipocrita silenzio.

Come conosciamo con esattezza questa cifra? Grazie a un progetto, ideato e portato avanti dalla prof. Romana Bogliaccino, che si è concluso con la pubblicazione di questo volume e l’apposizione di una targa con i nomi delle ragazze/i e della prof. Maria Piazza, scacciati dalla scuola.

L’idea alla base del progetto L’Archivio del Visconti e la Storia, iniziato nel 2013,è quella di studiare un problema – quello appunto dell’applicazione concreta della legislazione razzista – partendo da una fonte ricchissima e trascurata: gli archivi scolastici. E altrettanto importante è la raccolta delle testimonianze di alcuni protagonisti ancora viventi o di loro discendenti: in questo modo i dati hanno trovato sostanza, carne, mostrato affetti, raccontato storie d’indifferenza ma anche storie di amicizia realizzando quell’integrazione tra storia e memoria, tra micro e macrostoria che permette di comprendere le diverse dimensioni dei fenomeni.

Nel 2018 è nata una rete di scuole, Scuola e Memoria – Archivi scolastici italiani, e ciò ha permesso di implementare e confrontare i dati con l’obiettivo di costruire, anche grazie alla collaborazione dell’Archivio della Comunità ebraica, un database per lo studio sull’entità e l’incidenza delle leggi razziste nella scuola romana. Di questo lavoro vorrei sottolineare l’importanza didattica e civile. La scuola si dimostra essere un luogo in cui si fa cultura e ricerca scientifica, in cui – attraverso un’esperienza pratica – le e gli studenti apprendono contenuti, costruiscono modelli, sperimentano l’uso critico delle fonti. E ha valore civile in quanto, anche se sono passati più di ottanta anni e cresce la coscienza di ciò che furono i totalitarismi novecenteschi, non bisogna allentare l’attenzione perché il rischio dell’indifferenza è sempre presente e solo un atteggiamento critico e vigile può contrastarla; la scuola deve rimanere baluardo nella difesa dei diritti di tutte le minoranze e nel respingimento dell’antisemitismo e di qualsiasi razzismo.
Questo lavoro, di grande qualità scientifica, ha il merito di aver “scoperto” la ricchezza e la fecondità degli archivi scolastici, fino ad ora poco utilizzati, e di aver contribuito a colmare lacune della storiografia (non è stata fatta fino ad ora una rilevazione sistematica sul numero delle espulsioni dalle scuole italiane) arricchendo di nuovi elementi lo studio della realtà romana; esso ci permette di esplorare le reazioni, anche emotive, delle e dei cittadini italiani – di quelli colpiti dalle leggi razziste e degli altri – e contribuisce a quel rinnovato interesse di studi che ha «consentito il conseguimento di conoscenze importanti e la demolizione di luoghi comuni autoassolutori» (Bogliaccino 2021, p.18).
Il libro si articola in tre sezioni: la prima fornisce un opportuno inquadramento storiografico, la seconda raccoglie testimonianze di e su studenti cacciati, la terza racconta la storia della prof.ssa Maria Piazza, espulsa dal Liceo. Sono tre segmenti che s’integrano tra di loro, componendo un quadro d’insieme che permette di conoscere e di avvicinarsi anche emotivamente alla vicenda: in questo lettori e lettrici sono aiutate da uno stile rigoroso ma piano, accattivante e in alcuni momenti emozionante nonché dalla presenza di numerose fotografie che, con l’immediatezza delle immagini, contribuiscono a ricreare l’atmosfera di quegli anni.

Nella prima parte l’autrice colloca le leggi razziste del settembre 1938 in un contesto più ampio. Ricordiamo, infatti, che le leggi sulla scuola precedettero di quasi due mesi i “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”. Arrivarono inaspettati? E perché si dette tanta importanza alla scuola? Alla prima domanda bisogna rispondere che no, per chi sapeva guardare non fu una sorpresa.
Senza voler entrare qui in una discussione sulla presenza e sulla consistenza di atteggiamenti antisemiti in Italia, basti ricordare la pubblicazione, il 14 luglio 1938, del Manifesto della razza, la circolare del 6 agosto con cui il Ministro dell’educazione nazionale, Giuseppe Bottai, promuoveva “calorosamente” la diffusione della rivista La difesa nella razza nelle scuole superiori e nelle università. E poi, in rapida successione, diverse misure tra le quali ricordiamo il censimento del personale di “razza ebraica” (9 agosto), il divieto di adozione di libri di testo di autori ebrei (12 agosto) fino al Regio Decreto del 5 settembre che escludeva dalle scuole del Regno personale e studenti ebrei e vietava loro la prosecuzione degli studi all’università. Tutto in gran fretta per permettere un inizio “indolore” del nuovo anno scolastico; non ci fu nessun provvedimento ufficiale, non ci fu alcuna forma di rispetto, semplicemente alunne/i ebrei “sparirono” dai registri. È la loro assenza a gridare. Già all’inizio dell’anno scolastico la scuola italiana è “arianizzata”, come può annunciare con soddisfazione Bottai in una conversazione alla radio del 16 ottobre 1938, essa «ha già predisposti i suoi quadri, sceverandone e separandone gli elementi razzialmente estranei».

Sergio Bondì e Vittorio Bonfiglioli – IIA – studenti espulsi

Tanta attenzione verso la scuola si spiega ricordando che lo “Stato Educatore”, secondo la definizione che ne dà Gabriele Turi, voleva avere il controllo totale dell’educazione dei giovani perché solo in questo modo si sarebbe potuto formare quell’“uomo nuovo”, espressione di una rivoluzione antropologica, fascista in ogni espressione della vita, anche la più intima e personale, che Mussolini – come del resto gli altri totalitarismi – intendevano plasmare. Infatti, come scrive Bottai in una relazione del 6 dicembre 1938 alla Camera dei Deputati, la scuola è un’«istituzione sacra» (ivi, p. 53): qui si formano le anime e le menti  dei giovani che dovranno affrontare le battaglie della vita per la «grandezza della Patria», per questo bisognava eliminare gli insegnanti ebrei e i loro libri di testo e «provvedere a che le coscienze, appunto, e le mentalità degli allievi non subissero influenze che in qualche modo potessero turbarne la loro più completa e perfetta formazione» (ibidem).
Nelle pagine dedicate al liceo “Visconti”, l’autrice ne ripercorre la storia dal 1870, si sofferma poi sugli anni che vanno dal 1938 alla fine della guerra e in particolare sulle modalità di applicazione dei decreti scolastici, così come appare dai documenti dell’archivio, li confronta con altri del liceo Giulio Cesare, ne studia le diversità e ipotizza «una qualche silenziosa resistenza alle direttive del regime da parte del preside e del consiglio dei professori del “Visconti”, rispetto all’adesione più entusiastica del preside del “Giulio Cesare”» (ivi, p.124). Come abbiamo ricordato sopra, l’espulsione avvenne senza alcuna notifica ufficiale «a dimostrazione del disprezzo in cui erano tenuti gli ebrei […] e della viltà di chi si faceva tramite ufficiale della persecuzione» (ivi, p. 126); e ricordiamo anche che non abbiamo ancora dati precisi sul numero delle e degli studenti cacciati dalle scuole italiane: per questa ragione la definizione dell’elenco di studenti espulse/i cui è arrivata questa ricerca è un primo passo importante.

Classe ginnasiale 1937-38 Liceo “Visconti”

Un ampio spazio è dedicato alle Scuole Ebraiche, organizzate per garantire la continuità degli studi. Finanziata con il contributo dei genitori, la scuola ebraica di via Celimontana fu un’esperienza di grande vivacità intellettuale, una scuola modello, in cui si favoriva la libera circolazione di idee e il formarsi di uno spirito critico. Alla scuola si affiancarono poi corsi di studio post-liceali, l’”università clandestina”, con la decisiva collaborazione di Guido Castelnuovo e dell’Istituto tecnico superiore di Friburgo, che prevedeva corsi di apprendimento a distanza. Per molti studenti frequentare questa scuola fu l’occasione per un riscoprire le proprie radici ebraiche, per rinsaldare i vincoli della comunità e anche per acquisire una salda coscienza antifascista.
Le ultime pagine di questa sezione sono dedicate alla vita del “Visconti” negli anni della guerra e al crescere di sentimenti antifascisti; Marisa Cinciari Rodano, di cui l’autrice riporta una testimonianza, ricorda come le leggi razziali causarono in molti liceali una “incrinatura” e una spinta al distacco dal regime; in seguito diversi studenti del “Visconti” furono coinvolti in attività di opposizione e nella Resistenza. Ricordiamo il prof. Raffaele Persichetti, caduto a Porta S. Paolo e lo studente Romualdo Chiesa, imprigionato a via Tasso e poi ucciso alle Fosse Ardeatine.

Nella seconda parte la prof. Bogliaccino ci presenta alcuni racconti di ex alunni e altri, indiretti, di loro figli o parenti. Sono testimonianze, arricchite dalla vivacità e dalla forza di molte fotografie, che danno corpo e sostanza ai dati d’archivio e restituiscono l’atmosfera del periodo: le difficoltà della vita quotidiana, le necessità economiche, le preoccupazioni, le paure, l’insicurezza; sono memorie preziose e fragili, «racchiuse nelle menti, dotate di vita propria, mobilissime e impregnate di molteplici affetti, ma […] bisognose di cura, di trasmissione per non scomparire nel tempo» (ivi, p. 21).
Da tutte emerge con vivezza il trauma, il disorientamento che provarono, loro studenti adolescenti, in conseguenza di questi provvedimenti, l’incapacità a comprenderne il senso e il dolore e la delusione causati dall’indifferenza dei compagni. Ci sono amicizie, che si credevano consolidate, che si spezzano; ma anche storie di vicinanza e di solidarietà. Cito la storia di Benedetto Levi e di Benedetto Bartoleschi: quest’ultimo mantenne vivi i rapporti con l’amico, anche dopo il ‘38, e lo nascose a casa durante l’occupazione nazista; anche per la famiglia Amati, che «si vantava di essere a Roma da sempre, dai tempi dell’antica Roma» (ivi, p. 218) la promulgazione delle leggi razziali fu un colpo: «ci si sentì umiliati e traditi dalla propria Patria!» (ivi, p. 219). Sfuggirono alla retata del 16 ottobre e trovarono rifugio in conventi.
Non si salvarono, invece, Giovanni Carlo Della Seta e Lello Frascati. Furono catturati con tutta la famiglia il 16 ottobre del 1943, l’ultimo ricordo che ne abbiamo è quello del Rabbino Della Rocca: «Da via del Tempio […]  usciva la famiglia Frascati […]. I fucili puntati addosso. Questa è l’ultima immagine che ne conservo, mentre i soldati li spingono via» (ivi, p. 340).
Avevano sedici anni: per loro ci fu solo buio.

Nella terza parte l’autrice illumina, con grande sensibilità, la figura della prof. Maria Piazza. La sua storia è poco conosciuta ma particolarmente significativa in quanto le leggi del ‘38 la esclusero sia dall’ insegnamento al “Visconti” che dall’università e le impedirono ogni attività di ricerca.

Prof. Maria Piazza

La prof. Bogliaccino ricostruisce la sua storia grazie a documenti d’archivio, molti dei quali inediti; questi ci danno un quadro della sua vita professionale e i ricordi di alcuni suoi alunni ce ne descrivono la personalità come insegnante.  Ma non ci sono scritti, documenti che testimonino la sua vita privata, le sue riflessioni, non ci sono racconti di famiglia; Maria non ebbe figli né nipoti che potessero mantenere vivo il ricordo e anche per questo la sua memoria rischiava di scomparire. Ed è merito di questo libro averla raccontata in modo commovente e avercela consegnata.
Nata nel 1984, terza di quattro sorelle, Maria è una studente brillante, già laureata a ventidue anni. In un registro scolastico del 1930 elenca i suoi titoli di studio: «Dottore in Scienze naturali, fornita di diploma di Magistero in Chimica pura e di certificazione di Elettrochimica delle Scuole superiori politecnici di Napoli» (ivi, pp. 360-361) e questo in un periodo in cui pochissime erano le donne che si dedicavano a studi Stem, come li chiamiamo oggi. Inizia subito a insegnare in diverse scuole e dal 1930 chiede e ottiene il trasferimento al liceo “Visconti” come “professoressa ordinaria”. Il liceo aveva un’ottima fama, era molto vivace dal punto di vista culturale, studi e ricerche di natura scientifica erano incoraggiati dal preside, prof. Carlo Piersanti, anch’egli studioso di scienze; inoltre nella sede del liceo era rimasta parte del materiale della ricchissima raccolta di Athanasius Kircher, fondatore del Museo del Collegio Romano. E questo materiale non poteva non interessare Maria Piazza. All’attività scolastica Maria Piazza affianca la ricerca universitaria, prima come assistente volontaria, poi nel 1934 come libera docente; fu socia della Società geologica italiana e della Società italiana per il progresso delle Scienze e collaborò alla redazione dell’Enciclopedia Treccani. Tutto ciò fu bruscamente interrotto dalle leggi del 1938: niente più scuola, niente università, niente ricerca. E ciò ebbe anche per lei gravi ripercussioni economiche, tanto più che la sua famiglia (nessuna delle quattro sorelle si sposò e vissero sempre insieme) dipendeva economicamente da lei. Non conosciamo con certezza la sua posizione riguardo al fascismo, le sue reazioni all’espulsione: non ci sono testimonianze su questo; sappiamo che era iscritta al Partito nazionale fascista e che, per la libera docenza, aveva prestato il giuramento richiesto. Proprio perché integrati nella società, i/le cittadine italiane ebree, esattamente come altre/i, ebbero posizioni diverse e variabili ma «negli anni Trenta prevaleva un atteggiamento acquiescente o favorevole al regime» (ivi, p. 60); in generale non si attendevano misure di questa natura, per questo fu particolarmente forte la disillusione. E possiamo immaginare che anche Maria Piazza rimase sorpresa, sconcertata, che si sentì tradita.

Firma della prof. Maria Piazza, scrutini di giugno e settembre 1931
Maria Piazza fotografata con la sua classe,
la II liceale A, 1938

Dopo l’espulsione dal liceo “Visconti”, la prof. Piazza fu molto attiva nell’organizzazione della Scuola Ebraica, dove insegnò. Quando furono attivati i corsi dell’”università clandestina” fu chiamata da Guido Castelnuovo a insegnarvi Chimica generale. Non abbiamo notizie precise sulla sua vita nel periodo dell’occupazione nazista di Roma; riuscì a salvarsi dalla deportazione. Dopo la liberazione tornò a insegnare nei licei romani, ma non al “Visconti” e non più all’università dove la sua attività di ricerca era stata brutalmente interrotta; andò in pensione nel 1964 e alla sua morte, avvenuta nel 1976, il preside della Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali ne ricordò le doti umane e scientifiche.
Maria Piazza fu una personalità attiva, determinata, capace di «affermarsi con successo nel lavoro, soprattutto nel mondo scientifico ed accademico» (ivi, 421) in un’epoca in cui questo, per una giovane donna «non era un’impresa da poco» (ibidem). Docente severa e rigorosa era anche umanamente vicina alle/agli studenti, che la chiamavano zi’ Maria. Così la descrive con affetto un suo studente: «Maria Piazza, una donna che quando l’incontravi sembrava molto burbera, ma nella realtà era diversissima, viveva per la famiglia e per i suoi studenti che continuamente le telefonavano, l’andavano a trovare e la invitavano nelle loro riunioni» (ivi, p. 395).

In copertina: targa commemorativa in onore delle ragazze e dei ragazzi espulsi dalla scuola.

Romana Bogliaccino
Scuola negata. Le leggi razziali del 1938 e il liceo “E. Q. Visconti”
Biblion edizioni, Milano, 2021
pp. 442

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Articolo di Angela Scozzafava

Si è laureata in filosofia della scienza con il prof. Vittorio Somenzi e ha conseguito il Diploma di perfezionamento in filosofia.  Ha insegnato — forse bene, sicuramente con passione — in alcuni licei. Ha lavorato nella Scuola in ospedale, ed è stata supevisora di Scienze Umane presso la SSIS Lazio. Attualmente collabora con la Società Filosofica Romana; scrive talvolta articoli e biografie; canta in cori amatoriali e ama i gatti.

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