«Un centesimo alla volta. Prima fissano un principio. Gli uomini non sono tutti uguali, ma differenti per razza» (Boni, 2022, p.74), poi progressivamente lo si applica: si restringono le libertà, si tolgono i diritti e, alla fine, la vita. Così si arrivò da una consolidata integrazione degli ebrei nella società italiana alla loro persecuzione, alla Shoah.
Tutto questo avvenne «in modo legalmente ineccepibile» (ibidem): le leggi furono proposte dal governo, votate dal parlamento, firmate dal re, applicate dalla burocrazia e difese dalla magistratura. «E quando tutto finì, ecco che i persecutori poterono uscire all’aperto e cominciare a giustificarsi» (ib.): avevano solo applicato la legge. «La cosa più incredibile, è che furono creduti» (ib.). In queste poche righe credo che sia sintetizzato non solo il “caso Azzariti”, ma il “problema” dell’Italia, nazione che, a mio parere, solo da poco tempo ha cominciato a interrogarsi con maggiore serietà e rigore sui comportamenti acquiescenti o complici verso il fascismo e, in particolare, verso le leggi razziste, leggi che poterono essere scritte e applicate solo perché ci fu un numeroso stuolo di persone che le tradusse in provvedimenti e atti concreti e molte altre che rimasero indifferenti. La storiografia ha cominciato a togliere il velo della rimozione, a smascherare strategie autoassolutorie e a chiarire numerosi punti sulle modalità della loro applicazione (ricordo due libri che riguardano il mondo della scuola: Iossa, Vietato studiare, vietato insegnare e Bogliaccino, La scuola Negata).

Massimiliano Boni, consigliere della Corte Costituzionale, con questa ricerca dà un significativo contributo a questo filone storiografico. Con un esame minuzioso, accurato, logicamente inappuntabile, di numerosissimi documenti, molti dei quali finora inediti, l’autore segue la vita e il percorso professionale di Gaetano Azzariti, con opportuni riferimenti alla storia politica d’Italia. Non spaventatevi della mole (circa trecento pagine): lo stile scorrevole, elegante, mai moralistico, la coerenza della struttura e una giusta dose di ironia ne fanno un libro molto gradevole da leggere. Trovo inoltre godibilissime le pagine in cui tratteggia vivacemente il quadro delle trasformazioni urbanistiche e sociali di Napoli e Roma e del clima culturale che vi si respira.

Chi è dunque, Gaetano Azzariti? Nato a Napoli nel 1881, viene da una famiglia di giuristi; rimane orfano di padre a otto anni, si laurea a venti. La madre, Luisa, una donna determinata che briga con le sue conoscenze per ‘sistemare’ i figli, aveva immaginato per lui una tranquilla carriera da avvocato che gli avrebbe lasciato tempo per prendersi cura della sorella Maria, malata e vedova. Ma non sarà così. Appena può, con l’aiuto di Lodovico Mortara, docente a Napoli che lo ha preso a ben volere, Gaetano va a Roma. È brillante, intelligente, preparato, ambizioso. Nel 1905 entra in magistratura ma non indosserà mai la toga, preferendo una carriera da studioso.
A Roma, dove lavora prima in Cassazione, poi in procura, subisce l’influenza della ‘scuola di diritto pubblico’, ispirata da Vittorio Emanuele Orlando: infatti col nuovo secolo, con l’irrompere sulla scena delle masse popolari e di nuovi soggetti politici, c’è bisogno di rinnovare la scienza del diritto pubblico, servono giuristi capaci di pensare la teoria e di applicarla, giuristi che sappiano tradurre la dottrina in leggi e provvedimenti pratici. In questa dimensione Gaetano Azzariti si trova a proprio agio. In questi anni fa un’esperienza che si rivelerà particolarmente significativa in seguito: partecipa ai lavori della commissione che deve elaborare la legislazione per la colonia Eritrea basata sulla discriminazione tra cittadini italiani ed eritrei e inizia così a familiarizzare con l’idea che il diritto possa differire a seconda della razza.
Col governo Mussolini (1922) non sembra cambiare molto: la sua carriera e i suoi studi vanno avanti. Il clima cambia con le ‘leggi fascistissime’, Mussolini procede alla trasformazione dello Stato di diritto e con atti successivi alla ‘fascistizzazione della giustizia’: aumenta il controllo sulla magistratura, se ne limita l’autonomia, si sostituiscono con la massima discrezionalità i magistrati scomodi. Nel 1932 arriva l’obbligo, per tutti i dipendenti statali, dell’iscrizione al Partito nazionale fascista. «In dieci anni, la trasformazione è compiuta. Congedata la vecchia guardia, ai nuovi alti magistrati che hanno sostituito i precedenti è richiesta fedeltà, obbedienza, silenzio» (ivi, p.60).
Il fascismo, per edificare lo stato totalitario, deve trasformare le leggi e l’organizzazione tutta dello Stato: servono uomini competenti, che conoscano a fondo i meccanismi burocratici e l’ordinamento giuridico e che siano disposti a tradurre in pratica le indicazioni che vengono dall’alto. Azzariti, magistrato colto, intelligente, riservato, capace di tessere le giuste relazioni, è l’uomo adatto. Nel 1927, a quarantasei anni, è posto a capo dell’Ufficio Legislativo, gli si chiede «di tradurre in norme di legge i desideri di Mussolini, fornendo quella patente di legalità a una serie di misure che erodono le fondamenta dello Stato liberale per sostituirle, pezzo dopo pezzo, con una dittatura» (ivi, p. 62). Fu effettivamente così o si può dire, invece, come si affermò fin dai primi anni della Repubblica e come sostengono alcuni studiosi, che Azzariti abbia contribuito a mantenere alcuni elementi di continuità con lo Stato liberale? E si può immaginare che ignorasse la violenza e i metodi di governo fascista? Documenti alla mano, Boni prova che si può parlare, semmai, di un progressivo ‘trasformismo giuridico’, di un’‘involuzione delle coscienze’, ma certamente Azzariti non poteva non accorgersi di nulla, in particolare dello stravolgimento dei principi dello Stato liberale al quale, preparando le norme, egli stesso contribuì. «Azzariti non è un fascista della prima ora; tuttavia non tentenna mai, non dà segni di incertezza, tantomeno di dissenso. […] Accetta così di svolgere i compiti assegnati, e col massimo zelo» (ivi, p. 71-72).
Il 1938 non è un anno come gli altri. Alle leggi antisemite della Germania (leggi di Norimberga 1935) si aggiungono quelle di Romania, Polonia, Slovacchia. In Italia si ha un rapido susseguirsi di provvedimenti fino alle leggi razziste di novembre. Crisafulli, futuro giudice costituzionale, osserva che con esse si spezza un principio cardine dello Stato prefascista, dello stato liberale di diritto, cioè l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Non c’è opposizione, o quasi (solo dieci senatori votarono contro), né in Parlamento né nel paese che «indottrinato da anni, si scopre antisemita senza quasi dissensi» (ivi, p. 82). Sul ruolo di Azzariti nella stesura di queste leggi c’è ancora un deficit di ricerca: probabilmente l’opera fu frutto di molte menti; Boni ritiene plausibilmente che anche Azzariti, in quanto capo dell’Ufficio Legislativo, abbia contribuito: in un caso specifico, relativo ai limiti sulle proprietà immobiliari degli ebrei, c’è anche una prova documentale. Ma era possibile sottrarsi alle conseguenze di queste leggi? Boni indica quattro strade: innanzitutto l’esilio. Per chi rimane ce ne sono tre: la ‘discriminazione’, cioè una deroga parziale e discrezionale alla persecuzione per coloro che avevano meriti particolari; la seconda era l’uscita dall’ebraismo, dichiarandosi atei o convertendosi. La terza è dimostrare di essere ariani fin dalla nascita, a dispetto delle risultanze del registro di stato civile. A ‘concedere’ l’arianizzazione è il Tribunale della Razza, presieduto da Gaetano Azzariti. Ma come si può dimostrare di non essere ebrei? Certificando che il proprio padre non è ebreo: nel caso di nascita da padre ignoto dovrà essere prodotta la testimonianza di un ariano che dichiari che quella persona è suo figlio/a; nel caso di genitori certi, bisogna provare l’adulterio da parte della propria madre. È facile capire come questo meccanismo, di per sé discrezionale, faciliti il malcostume: e infatti Boni riporta molte testimonianze circa la corruzione, la concussione, i favoritismi, tanto gravi da scandalizzare anche qualche fascista che lamenta che c’erano ebrei «difficilmente acciuffabili perché sono mascherati nei panni ariani, magari comperati a suon di biglietti dai mille ai tempi della troppo facile […] arianizzazione ebraica» (ivi, p. 123).
Ma la domanda più importante è questa: il Tribunale della Razza operò, come si disse in seguito, a favore degli ebrei, salvandone almeno alcuni? Boni risponde di no: il Tribunale lavorò in piena sintonia con «gli altri ingranaggi della macchina persecutoria» (ivi, p. 124), le domande accolte furono molto poche (l’arianizzazione riguardò lo 0,3% della popolazione ebraica), fu concessa in genere a persone di elevata condizione sociale e spesso già battezzate e soprattutto operò per trasformare l’ebreo in ariano: «esso appare un ulteriore strumento di persecuzione, la cui finalità rimane la scomparsa degli ebrei» (ivi, p. 120).
D’altra parte, alla fine degli anni Trenta Azzariti che, come abbiamo ricordato, non è stato un fascista della prima ora, ha rinunciato a essere un tutore dello Stato di diritto per trasformarsi in un «giurista militante» (ivi, p. 147), organico al regime. In un discorso del 1942 al Circolo di Milano dichiara che i principi di uguaglianza e libertà sono ormai ‘finiti in soffitta’ e che bisogna ammettere che «l’appartenenza a determinate razze è causa di limitazione della capacità giuridica. […] La diversità di razza è ostacolo insuperabile alla costituzione di rapporti personali, dai quali possano derivare alterazioni biologiche o psichiche alla purezza della nostra gente» (ivi, p. 148): la sua adesione alla politica razzista appare chiara e convinta. Nello stesso discorso asserisce che «i principii giuridici non sono immutabili ed eterni» (ib.), è un’affermazione interessante, in quanto è questo il principio che giustificherà le sue successive mutazioni: di lì a poco Azzariti attraverserà indenne il periodo badogliano per trovare un proprio spazio anche nell’Italia repubblicana.
Il giorno dopo la caduta di Mussolini, Azzariti è nominato da Badoglio ministro di Grazia e Giustizia; quando i tedeschi occupano Roma (10 settembre 1943) Azzariti rimane in città, ‘latitante’ ma senza correre eccessivi pericoli. Tra il 1944 e il 1945 Azzariti è sottoposto all’esame dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo; sa di trovarsi in una posizione delicata: cerca amicizie utili, sceglie una linea difensiva molto prudente, temporeggia, presenta la sua opera all’ufficio legislativo come unico argine «al dilagare di provvedimenti […] che infirmavano i principi più saldi della nostra tradizione giuridica del Risorgimento» (ivi, p.180), sostiene che il Tribunale della Razza sia stato solo una commissione tecnico-giuridica, composta in prevalenza da magistrati che avrebbe salvato numerosi ebrei e nega di aver mai espresso posizioni razziste. Ribalta il senso dei fatti, «in poche righe tutto è rovesciato; il nero diventa bianco» (ivi, p. 189). Nonostante un primo parere sfavorevole ad Azzariti le cose cambiano; nel 1945 la commissione centrale per l’epurazione stabilisce che l’appartenenza al Tribunale della Razza non vale come addebito ai fini dell’epurazione. E d’altra parte il clima generale sta cambiando, c’è aria di smobilitazione, si vogliono dimenticare le responsabilità altrui (e le proprie), si afferma l’idea che non si possa rinunciare a tutte quelle figure competenti che possono garantire il buon funzionamento dell’apparato statale in vista della ricostruzione. Azzariti esce indenne da tutto questo, anzi ne esce pienamente riabilitato. Al punto che Togliatti, ministro della Giustizia del governo Parri e del primo governo De Gasperi, lo sceglie come capo dell’Ufficio Legislativo. Un atto che può essere letto come «un segnale di pace verso l’establishment» (ivi, p. 201) e come una necessità per gestire al meglio la ricostruzione giuridico-amministrativa.
A compimento di questa straordinaria carriera Azzariti entra a far parte della Corte Costituzionale di cui diventa secondo presidente dopo le dimissioni di Enrico De Nicola. Le pagine dedicate alla Corte costituzionale sono molto interessanti: Boni ne segue le complesse e poco note vicende, analizza il significato dello scontro istituzionale di fine anni Cinquanta sul rapporto della Corte con gli altri organi dello Stato, e sui poteri della Corte stessa e il ruolo svolto da Azzariti nel difendere le prerogative della Corte.
Alla sua morte, avvenuta all’inizio del 1961, viene ricordato come un brillante magistrato, uno studioso insigne, onesto e laborioso funzionario che ha dedicato la sua vita al servizio dello Stato. Si tace degli aspetti più problematici. Si costruisce un mito, che comincia a sgretolarsi solo in anni recenti; ne è riprova, nel 2015, l’intitolazione del Comune di Napoli di una strada precedentemente intestata ad Azzariti, a Lucia Pacifici, una neonata ebrea morta ad Auschwitz. Alla decostruzione del suo mito dà un contributo significato questo libro, un libro che vale la pena di leggere in quanto ripercorre con un’incisiva analisi e con uno stile accattivante momenti importanti della vita d’Italia e che riserva una doverosa attenzione – mancata colpevolmente per tanti decenni – verso l’atteggiamento dei molti che, verso il fascismo e le sue leggi razziste, si dimostrarono acquiescenti, indifferenti o complici; corregge certezze consolatorie, sfata leggende sulla naturale mitezza degli italiani che avrebbe smussato, corretto o non sarebbero responsabili degli aspetti più duri della persecuzione antiebraica. Un libro che aiuta a prendere realisticamente consapevolezza di ciò che è accaduto, a elaborare, con sdegno e dolore, il passato, perché solo questa coscienza condivisa può esserci di aiuto per un futuro che appare complesso e difficile.
In copertina: Gaetano Azzariti, magistrato, capo del Tribunale della razza e presidente della corte.

Massimiliano Boni
«In questi tempi di fervore e di gloria». Vita di Gaetano Azzariti, magistrato senza toga, capo del Tribunale della razza, presidente della Corte costituzionale
Bollati Boringhieri, Milano, 2022
pp. 352
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Articolo di Angela Scozzafava

Si è laureata in filosofia della scienza con il prof. Vittorio Somenzi e ha conseguito il Diploma di perfezionamento in filosofia. Ha insegnato — forse bene, sicuramente con passione — in alcuni licei. Ha lavorato nella Scuola in ospedale, ed è stata supevisora di Scienze Umane presso la SSIS Lazio. Attualmente collabora con la Società Filosofica Romana; scrive talvolta articoli e biografie; canta in cori amatoriali e ama i gatti.
