Medea. Da moglie a concubina

«Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo,
parlare è ancora considerata la più sovversiva» (Michela Murgia).

Dopo la breve carrellata sulle (poche) donne reali di cui la grecità ci ha lasciato traccia, torniamo al mito e alle grandi figure femminili che lo popolano e che ci raccontano qualcosa di più sulla condizione delle donne in carne e ossa.
Di tutte Medea è certamente la più inquietante. Perché compie il crimine più odioso e inaccettabile, l’uccisione dei suoi stessi figli. E perché incarna colei che, ribellandosi all’ordine patriarcale, ne lacera uno dopo l’altro i legami di philía (affetto/amicizia/amore) che tentano di ingabbiarla. Il mito, di cui abbiamo le prime testimonianze scritte nel secondo millennio, grazie alle tavolette micenee, risale a epoche più antiche e ha conosciuto nel tempo un numero incredibile di versioni: circa quattrocento quelle note a oggi.
Gli elementi fondamentali del racconto sono questi: Medea è figlia del re Eeta, che discende direttamente dal Sole, insieme alla sorella Circe, e regna sulla Colchide, terra posta sulle coste del Mar Nero, ai margini del mondo civilizzato. Innamoratasi di Giasone, arrivato fin là per impadronirsi con le buone o con le cattive di quel Vello d’oro la cui conquista dovrebbe riportarlo sul trono di Iolco, rubatogli dallo zio Pelia, la ragazza non esita per assicurargli il successo a tradire il padre e a uccidere il fratello. Poi fugge con l’eroe greco che la sposa formalmente. Dopo lungo peregrinare e un altro orrendo crimine — con la promessa di farlo ringiovanire Medea induce le figlie di Pelia a fare a pezzi il padre — i due si stanziano da esuli a Corinto insieme ai figli nati dalla loro unione.
È qui che li troviamo nella tragedia di Euripide, che, rappresentata nel 431 ad Atene, diventa da quel momento la versione più nota del mito, cui faranno riferimento, pur introducendovi continue varianti, narratori poeti e artisti delle epoche successive. Ed è proprio a Euripide che le fonti attribuiscono l’introduzione della variante che più ripugna alla sensibilità moderna, facendo di Medea l’assassina dei suoi figli. Per capire il senso di questo gesto (peraltro non unico nel mito greco) bisogna contestualizzare il racconto e tener conto soprattutto di due elementi che lo rendono, se non accettabile, plausibile. Il primo è l’assenza, nella cultura di quel tempo, di ogni forma di mistica della maternità che comincerà a svilupparsi con la costruzione del mito intorno a Maria di Nazareth. Il secondo è lo statuto del matrimonio nell’Atene del V secolo: quando nel 451 Atene, per volere di Pericle, decise di limitare i diritti di cittadinanza ai soli figli (maschi) nati da un matrimonio legittimo (cioè fra un cittadino e una donna figlia di cittadino) molti ateniesi, che vivevano maritalmente con una straniera e ne avevano avuto figli, si affrettarono a ripudiarla, o a declassarla allo status di concubina, per sposare una donna che potesse mettere al mondo maschi abili alla cittadinanza. Leggendo la tragedia di Euripide alla luce di questa consapevolezza, ci rendiamo conto da una parte che il povero Giasone si comporta esattamente allo stesso modo, dall’altra che Medea sa che uccidendogli i figli colpisce il marito in quello cui lui — alla pari degli spettatori — tiene di più: una discendenza, e una discendenza maschile. Medea è una straniera e i figli avuti da lei non avranno nessun diritto in terra greca, a meno che Giasone, sposando la donna giusta, non riesca a inserirli nella sua linea di discendenza legittima. Perciò l’eroe appare addirittura sorpreso che Medea non riconosca, nella sua decisione di sposare la figlia del re di Corinto, i vantaggi che ne verranno a tutti: se la smettesse di sbraitare e protestare e minacciare potrebbe forse ottenere di rimanere in città — se non addirittura in casa come concubina — un grande onore per una che, per quanto principessa, viene da una terra barbara. Intanto deve smetterla con i suoi comportamenti inaccettabili, con l’ostinazione a tener testa a tutti con l’arte della parola, con l’impudenza che la porta a controbattere punto per punto i suoi argomenti; non vergognandosi di parlare a voce alta, di gridare, anche fuori delle mura domestiche, davanti a tutti. «Sta zitta!» le intima più volte, con poche varianti, Giasone. Di fatto è l’unica frase che lui sa opporre alle obiezioni di Medea che ribalta abilmente i suoi argomenti, alla rivendicazione dei meriti che lei afferma di aver acquisito nei suoi confronti, alle rimostranze sul suo comportamento di uomo spergiuro e infedele e opportunista e calcolatore; e infine all’accusa che le riassume tutte ed è gravissima per un greco, l’accusa di adichía, l’ingiustizia di chi infrange le leggi divine prima di quelle umane.
Imperturbabile Giasone arriva a dire: «È colpa tua se ti mandano via». «Ma che cosa ho fatto? Mi sono sposata e ti ho tradito?». «No, ma imprechi continuamente contro chi ha il potere». E aggiunge che quello che la fa smaniare in realtà è la mancanza del sesso: «Non parleresti in questo modo se non ti rodesse il pensiero del letto (léchos)».
Giasone sa di avere dalla sua parte la polis, i cittadini per bene che assistono alle rappresentazioni teatrali organizzate per le feste di Dioniso, un evento religioso, dunque: la scelta che ha fatto garantirà tutti i diritti e un prospero futuro ai figli che sono innanzitutto figli suoi, non di Medea. Anche se Aristotele è ancora di là da venire — sarà lui a dimostrare scientificamente che la femmina fornisce solo la materia alla generazione di un nuovo essere vivente, perché l’anima, o elemento spirituale, gliela trasmette il maschio — ci aveva già pensato Eschilo nelle Eumenidi a ribadire, per bocca di Apollo, che i figli sono solo figli del padre, di cui hanno lo stesso sangue: la madre si limita a portarli in grembo e a nutrirli: tanto basta ad assolvere Oreste dall’accusa, gravissima, di aver ucciso un consanguineo, la madre Clitennestra, e a salvarlo dalla pena capitale. (Sia detto en passant: da qui a considerare le persone con utero dei semplici contenitori il passo è breve.)

Ma la Medea contiene molto altro, tanto è vero che Euripide, fra i tre grandi autori tragici del V secolo a.C. di cui ci sono arrivati i testi — una manciata, rispetto al migliaio che nel corso di quel secolo furono prodotti — è stato di volta in volta considerato ferocemente misogino o, al contrario, paladino della causa femminile. Perché, pur mettendo in luce in modo chiarissimo la condizione di ingiusta subordinazione cui sono relegate le donne, non esita ad attribuire alle sue eroine i peggiori misfatti. Come quello di uccidere i propri figli, come fa appunto, Medea. Pazza di gelosia, secondo l’interpretazione corrente.
Eppure una lettura più attenta del testo rivela che l’apparente ambiguità delle posizioni euripidee è un espediente per suscitare la discussione e far riflettere sulle profonde contraddizioni interne alla democrazia ateniese. Quasi un manifesto protofemminista, il passo in cui Medea descrive la dura condizione delle donne fu utilizzato come inno dalle suffragette: «Fra tutti i viventi dotati di anima e di ragione, noi donne siamo gli esseri più sventurati: per prima cosa dobbiamo comprarci con una ricca dote un marito che sarà anche il padrone del nostro corpo. Questo è il male peggiore e c’è un rischio grandissimo: come sapere se è buono o cattivo? Se si separa, la donna perde l’onore e di divorziare non se ne parla. E poi, se una donna, sposandosi, va a vivere in un posto che ha usanze diverse, dovrebbe essere un’indovina per capire chi sarà il suo compagno di letto. E se questo si adatta di buon grado a portare il giogo e a stare con lei, la sua sarà una vita invidiabile. Ma l’uomo, se gli viene a noia di stare sempre con la moglie, se ne va fuori e si diverte con gli amici. A noi tocca invece avere davanti agli occhi sempre la stessa persona. Se tutta questa fatica dà buoni risultati, è una gran bella cosa. Dicono poi che siamo fortunate perché ce ne stiamo tranquille a casa, mentre loro fanno la guerra. Si sbagliano: io preferirei tre volte imbracciare lo scudo piuttosto che partorire una volta sola» (Euripide, Medea, 230-251): non era certo infrequente morire di parto a quei tempi. 

Infine vale la pena di indagare meglio le ragioni per cui Medea uccide i figli, privando sé stessa di una delle poche ragioni di vita che le resteranno quando sarà costretta a fuggire da quella terra che, se già la teme in quanto barbara e maga, non potrà certo risparmiarla dopo che lei avrà provocato la morte del re Creonte e della giovane figlia promessa a Giasone. Il personaggio creato da Euripide è un misto incredibile di passionalità e di razionalità, di eccesso e di capacità di controllo: il breve monologo in cui la donna si dibatte davanti all’orrore che la sua determinazione a uccidere i figli le spalanca davanti è un capolavoro in questo senso. Il conflitto che di solito s’incarna in due personaggi, stavolta è tutto interno alla protagonista. Non è Giasone il vero nemico, ma è Medea stessa, dilaniata dalla scelta tra le due parti di sé di cui una è inevitabilmente condannata a soccombere: la scelta è tra dignità (o onore, timè) e amore materno, o, diversamente detto, rispetto dei suoi stessi sentimenti. Alle donne di Corinto che costituiscono il coro e che le esprimono solidarietà Medea confida i sui propositi e li giustifica così: «Nessuno deve pensare che io sia vile, o debole, o inetta. Il mio carattere è diverso: inflessibile con i nemici, benevola con gli amici. Bisogna essere fatti così per meritare la gloria» Ibidem, 807-810. La donna è perfettamente consapevole che uccidendo i figli uccide una parte di sé. Ma non lo fa né per gelosia né per desiderio di vendetta, bensì per salvaguardare il suo onore, esattamente come farebbe un uomo. È sull’altare dell’onore che immola la sua maternità, la sua storia di madre, cominciata con la gravidanza, i dolori del parto, le emozioni, le aspettative e poi privata bruscamente della gioia di vederli crescere, di accompagnarli al matrimonio: «Figli miei, sto per andarmene in esilio, in un paese straniero, senza aver goduto delle gioie che avreste potuto darmi, prima di avervi visti felici, prima di aver scelto per voi una sposa e avervi preparato il letto nuziale e aver levato in alto le fiaccole. Inutilmente, dunque, figli mei, vi ho cresciuto? Inutilmente ho sofferto e mi sono angustiata per voi, dopo avervi partorito con doglie crudeli! Quante speranze, io infelice, avevo riposto in voi: che quando fossi invecchiata mi avreste sostenuto e che quando fossi morta mi avreste seppellito pietosamente, con le vostre mani, sorte degna di invidia. Ora addio, dolci pensieri. Senza di voi vivrò nell’infelicità e nella tristezza… Ahi, che devo fare? Il cuore mi manca quando vedo il volto sereno di questi ragazzi. No, non posso… al diavolo le mie decisioni di prima. Li porterò via con me da questo luogo. Perché mai, per far soffrire il padre della loro sventura, dovrei raddoppiare la mia? No, non posso. Vadano al diavolo i miei piani… Ma che cosa mi succede?… se li lascio andare impuniti, i miei nemici rideranno di me. Ne avrebbero tutte le ragioni. È questo che voglio? Devo averne il coraggio. Non posso essere così vile e comportarmi con mitezza» Ibidem, 1024-1052. Con questo ragionamento e con la sua scelta, Medea si adegua alla scala dei valori maschili, l’impalcatura ferrea su cui poggia l’ordine patriarcale, dove l’onore vale più della vita; e poco importa che la vita sia la propria o quella di un altro, fosse pure un figlio. Altre eroine faranno scelte analoghe come vedremo.

Qui mi piace ricordare come nella storia delle messe in scena della tragedia euripidea resta famosa quella di Luca Ronconi, di cui fu molto discussa la scelta di assegnare a un attore il ruolo di Medea. Curiosamente a chi gliene chiedeva la ragione, il regista non sapeva dare spiegazioni chiare, ma il suo intuito aveva visto giusto.

In copertina: Medea, di John Williams Waterhouse.

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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.

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