«Quando trovandomi a Parigi, come in una sorta di pellegrinaggio, mi sono voluta recare al 31 di Rue du Dragon dove si trova l’edificio che un tempo ospitava l’Academie Julian… davanti a quel portone… nel pensare alle numerose donne, molte delle quali provenienti da lontano, che in questo luogo hanno potuto finalmente coronare il loro sogno, non ho potuto controllare la mia emozione».
Così si esprime Rita Alù, scrittrice e ricercatrice nell’ultimo suo lavoro L’altra metà dell’arte. Una storia tutta da riscrivere, edizioni Torri del Vento. Il libro non contiene un elenco cronologico completo di artiste dimenticate, defraudate o ignorate, ma la vita e l’attività di alcune di loro inserite nel contesto storico in cui hanno vissuto: dal Medioevo al contemporaneo, con una attenzione particolare a quelle nate tra l’Ottocento e il Novecento.
Storie di artiste invisibili dal talento straordinario come la francese Costance Mayer (1775-1821) le cui opere venivano firmate dal pittore Pierre-Paul Prud’hon prima maestro e poi amante di Costance. La sua firma maschile era motivata dal fatto che i dipinti potevano essere venduti a un prezzo maggiore. E cosi in effetti accadeva. Dopo il tragico epilogo di questa storia di arte e di intricate vicende sentimentali, i figli del pittore cancellarono la firma della pittrice da tutti i suoi dipinti, che sono stati fino a tempi recenti sempre attribuiti al loro padre. Anche la berlinese Dorte Helm (1898-1941) passò alla storia come l’amante di Walter Gropius. Nel 1923, dopo aver superato gli esami di apprendistato in pittura decorativa, contribuì alla grande mostra Bauhaus e fu l’unica donna a creare una delle venti cartoline realizzate per l’occasione. Del resto il “grande” Gropius, in seguito, rubò le foto di un’altra artista, Lucia Schulz Moholy (1894-1989), scrittrice e innovativa fotografa vissuta all’ombra del marito Laszlò Moholy-Nagi (altro noto esponente del Bauhaus) che si rifiutò sempre di riconoscere alla moglie la maternità di molte fotografie. Ciò creò un profondo dissidio fra i due e quando la loro storia finì, quelle foto arrivarono nelle mani di Gropius che le utilizzò per illustrare cataloghi e libri del Movimento senza mai citare l’autrice. Dopo una lunga battaglia legale conclusasi negli anni Sessanta, Lucia riuscirà a tornare in possesso di circa trecento suoi negativi.
Emblematica è anche la storia della designer statunitense Clara Driscoll (1861-1944) responsabile del Reparto femminile di taglio del vetro dei Tiffany Studios, a New York. Iniziò a lavorarvi nel 1888, ma un anno dopo, essendosi sposata, fu costretta a lasciare il lavoro in quanto alle donne fidanzate o sposate non era permesso lavorare in azienda. Essendo però rimasta vedova, fu di nuovo assunta tre anni dopo ma di nuovo licenziata per un nuovo fidanzamento. A quel punto Clara fece finta di troncare la relazione e decise di non sposarsi per rientrare al lavoro. La sua attività proseguì indisturbata fino al 1909. Nel 2000, grazie all’attività di ricerca congiunta dello storico dell’arte Martin Heidelberg e delle studiose indipendenti Nina Gray e Margaret K. Hofer, è emerso che più di trenta lampade attribuite a Louis Comfort Tiffany e al suo team maschile di designer, erano in realtà creazioni di Clara Discoll e del team femminile da lei coordinato. Sue creazioni anche altri oggetti decorativi come molti calamai e set da scrivania in mosaico.
Ne L’altra metà dell’Arte leggiamo e apprendiamo di decine e decine di storie semisconosciute. Ogni profilo è tratteggiato con un linguaggio chiaro e fluido. Un racconto coinvolgente delle artiste vittime di damnatio memoriae che denuncia chiaramente il dolo di questa cancellazione con nomi e cognomi di artisti osannati dalla critica dei tempi. Fra le pagine anche la “storia particolare” di Picasso, grande artista ma uomo pessimo e misogino, che con malvagità vietò all’artista Dora Maar (1907-1997), diventata in seguito sua modella, di continuare a svolgere l’attività di fotografa nonostante gli apprezzamenti, i riconoscimenti e i premi ottenuti. In quella relazione sentimentale, che durò nove anni, Dora restò sopraffatta dal sadismo di Picasso. Lui la raffigurava sempre come una donna “piangente” e dichiarò: «Dora, per me, è sempre stata una donna che piange. Sempre… È importante, perché le donne sono macchine per soffrire».
«Quando Picasso inizia a dipingere Guernica, Dora Maar riprende in mano la macchina fotografica e lo immortala nello studio di Rue des Grands-Augustins mentre è all’opera, consegnando così ai posteri, attraverso i suoi scatti, una importante testimonianza delle varie fasi di creazione di quel capolavoro». Ma il grande artista in fondo è un piccolo uomo: «Alle umiliazioni e alle vessazioni morali Picasso aggiunge la violenza fisica, infliggendo a Dora terribili percosse sino a farla svenire». Quando Picasso, nel 1943, troncò quella relazione perché invaghitosi di un’altra donna, Dora cadde in una profonda depressione che l’accompagnerà per tutta la vita. Morì nel 1997 «in solitudine in una casa di riposo, riuscendo a sopravvivere al suo amato carnefice a differenza di altre amanti di Picasso che preferirono invece togliersi prematuramente la vita: Maria Therese Walter s’impiccò e, tredici anni dopo, Jacqueline Roque, ultima sua moglie e musa, si sparò un colpo alla tempia».
Del resto Dora Maar, nella sua lucida follia, aveva sempre dichiarato: «Non sono stata l’amante di Picasso: era solo il mio padrone». Scrive così Rita Alù: «Tutti conoscono Auguste Rodin, Pablo Picasso, Edward Hopper, Vasilij Kandinskij… Maurice Utrillo, Jack Pollock… Diego Rivera, Robert Capa, Felice Casorati. Pochi sanno però che ognuno di questi maestri dell’arte ha avuto accanto a sé un’artista di talento, nel migliore dei casi nota ai più nella veste di modella, musa o amante».
E purtroppo soltanto in quella misera veste, quelle artiste hanno attraversato i secoli nei libri di Storia dell’Arte scritti dagli uomini.
Nel 1976 al Los Angeles Museum of Arts si allestì una mostra dal titolo Women Artists 1550-1950 che riportò alla luce il talento di cinquecento artiste. Nel 1986, nel dizionario curato da Chris Petteys, erano ventunomila le artiste americane ed europee riscoperte e nominate. Sono numeri che indicano la sistematica e dolosa volontà degli uomini del settore di occultare i talenti femminili.
In Italia il merito di una parte di questo disvelamento va alla saggista e critica d’arte Lea Vergine (all’anagrafe Lea Buoncristiano) che, nel 1980, organizzò al Palazzo Reale di Milano la mostra L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940, esponendo le opere di più di cento artiste. Le vite e le strade impervie su cui camminarono queste nostre antenate per affermare il loro talento si snodano in tutto il libro. Illuminante in tal senso è ciò che, già nel 1896, scriveva la pittrice francese Virginie Demond-Breton: «Quando si dice di un’opera d’arte: è un dipinto o una scultura di donna, ciò significa che la pittura è debole o la scultura carina. Quando si giudica un’opera seria, frutto del cervello e della mano di una donna, si dice: è dipinto o scolpito come da un uomo. Il confronto tra queste due espressioni è sufficiente per dimostrare, senza la necessità di ulteriori commenti, che c’è un pregiudizio contro l’arte delle donne».
La sapiente narrazione di Rita Alù riesce a farci entrare nei conventi, nelle scuole d’arte, nelle accademie dove le donne in punta di piedi ma con grande determinazione tracciarono un percorso al contempo personale e collettivo. Pare di vederle intente a studiare, disegnare, creare, a volte pur sapendo di non poter firmare le loro opere. Vittime di pregiudizi, di costruzioni di genere, di cultura patriarcale che si riverbera ostinatamente ancora oggi nei libri di testo di Storia dell’Arte su cui si formano studenti nelle nostre scuole di ogni ordine e grado.
Un riconoscimento oggi più che mai necessario del talento delle donne. E se l’autrice si è commossa alla vista dell’Academie Julian, la recensora si è indignata nell’aver appreso da queste pagine che nel certificato di morte di Berthe Morisot, una delle fondatrici del Movimento impressionista, alla voce professione vi è scritto: nessuna. Commozione e indignazione: da questo connubio il corpo docente contemporaneo dovrebbe partire per rimediare a questa terribile ingiustizia e palese discriminazione di genere.
La prima pagina de L’altra metà dell’Arte riporta una frase di Dacia Maraini, tra l’altro figlia della pittrice Topazia Alliata: «Si dà per scontato che le donne siano una categoria umana inferiore per storia e tradizione consacrata… Nessuno si è dato la briga di andare a vedere, a studiare, ad approfondire questi dipinti, dando per scontato che essendo di mano femminile, sia in partenza arte marginale, trascurabile, infantile, primitiva, irrilevante. Ma questo si chiama pregiudizio. Sentimento che si trasforma facilmente in discriminazione. Discriminazione da pregiudizio».
È tempo di raccontare la verità per restituire dignità e giustizia alle artiste.

Rita Alù
L’altra metà dell’arte. Una storia tutta da riscrivere
Torri del vento edizioni, Palermo, 2023
pp. 192
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Articolo di Ester Rizzo

Giornalista, laureata in Giurisprudenza, è docente al CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti) nel corso di Letteratura al femminile. Collabora con varie testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzo, Le Ricamatrici, Donne disobbedienti e Il labirinto delle perdute.

Dal 2022 nel nostro quartiere di Padova teniamo degli incontri mensili per raccontare (con successo) storie di donne straordinarie artiste, scienziate, letterate. Organizzando questi incontri (siamo in tre pensionate, una per ogni settore) abbiamo scoperto e riscoperto talenti e vite incredibili, dei veri e propri romanzi e questo fa apparire ancor più dolorosa la costante volontà di cancellare il talento femminile. Che senso ha, ancor oggi, in un mondo supertecnologico tenere la metà degli esseri umani lontani dalla società o addirittura negare loro l’istruzione. Mi addolora e talvolta mi sento sconsolata ma poi vedo che in tante cerchiamo nel nostro piccolo di cambiare le cose e mi ritorna la speranza. Buon lavoro a tutte.
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