Indossando le lenti della rilettura di genere, a mo’ di novelli Guglielmo da Baskerville che inforca le sue lenti per meglio decifrare i simboli del manoscritto di Venanzio, il romanzo La vita agra di Luciano Bianciardi – anche questo autobiografico – può davvero indurre all’irritazione consapevole. Pubblicato nel 1962, mostra (senza filtri e con un particolare stile linguistico) le conseguenze del boom economico in Italia. La storia parte dalla vicenda della morte tragica di gruppo di minatori in un incidente causato dalla mancanza di sicurezza sul luogo di lavoro, vittime che il protagonista vorrebbe vendicare (il riferimento è al reale incidente accaduto nella miniera di Ribolla nel 1954, in cui morirono 43 minatori). È un romanzo dai molti spunti di riflessione e quantomai attuale per la critica “agra” a un sistema capitalistico che comincia a imporre modelli di vita e di sviluppo a cui oggi guardiamo con dissenso diffuso, dunque un’opera letteraria che induce a riflettere in un confronto tra passato recente e presente necessario.

Ma cosa si riscontra al suo interno dal punto di vista femminile e dei rapporti tra uomo e donna? Il solito, reiterato, granitico cliché: «La mammina oggi è contenta e contenuta e pudica proprio come si conviene a una brava mamma»; «Un amico vero non sarà mai di una donna, una donna è sporca e insudicia persino le preghiere»; «Io le stringo il braccio sotto il mio, fiero perché Anna è bella e tutti sappiano che è mia, soltanto mia»; «È difficile riconoscere una faccia, anche se fai tutti i giorni, per anni, la solita linea. Questo anche perché si somigliano tutti, i passeggeri del tram. Ci sono tre tipi fondamentali di faccia: la faccia del ragioniere in camicia bianca, […]; poi c’è la faccia disfatta della casalinga, […]; infine c’è la dattilografetta con le gambette secche, che ha una faccia smunta, stirata, alacre, color della terra, color del verme peloso che striscia sulle foglie dei platani». In questo passo l’apoteosi: «Mentre l’uomo ha sulle spalle millenni di storia faticosa e ingrata, la donna esce appena oggi dalla soggezione, fresca e riposata, carica di energia e di voglia di rifarsi contro l’oppressore maschio. Lo sposa, per avere alle spalle una copertura sociale ed economica. Così non ha l’assillo del bilancio mensile, a cui pensa il marito. Se per avventura a lei passa la voglia di lavorare, chi porta il pane a casa ce l’ha. Però lavora, lei, quindi ha diritto di avere una sua personalità, anzi di possedere una personalità, e quando ovula o mestrua esige che in casa ci sia silenzio e raccoglimento, perché lei è una persona, una persona con le sue cose, e va rispettata». Fa un certo effetto repulsivo, vero? Eppure, è quanto di più sincero e realistico sia stato scritto circa i pensieri degli uomini (e molto spesso anche delle donne) da sempre: sono i fondamenti del patriarcato che abbiamo vissuto come sistema intrinseco, creduto non scardinabile, assunto dalla società quasi come un’investitura divina, introiettato dalle donne a danno di sé stesse e delle loro pari. Occorre scovarlo, contestualizzarlo, decostruirlo e mostrarne le conseguenze per poi riconsegnarlo alla storia, al passato, facendo leva su quanto l’emancipazione femminile sia progredita a vantaggio di tutt3, anche degli uomini. È, in fondo, il messaggio principale – a mio avviso – contenuto nel film Barbie, che, seppur mancante di profondità opportuna in alcuni aspetti, ha il merito di mostrare come il femminismo non è una lotta di prevaricazione delle donne sugli uomini, ma un percorso di consapevolezza del fatto che entramb3 sono necessar3 per una progressione ugualitaria, reale, pacifica, della società. Lo stesso vantaggio abita nell’opportunità di leggere La vita agra: Bianciardi mostra – già in pieni anni Sessanta – i danni del capitalismo e del materialismo, anche sulle questioni di genere e sulla radicalizzazione dei fondamenti patriarcali.

Anche le scrittrici fanno da cassa di risonanza della società basata su una precisa idea di donna e di relazioni tra sessi. Ne è un esempio il libro di Natalia Ginzburg, Lessico famigliare. Il padre, Giuseppe Levi, ha parole sprezzanti per quasi tutte le figure femminili che ruotano intorno alla loro vita: la serva Natalina è «una demente», la moglie Lidia una «asina», «monotona», «stupida», le amiche della moglie le «babe» (eleganti signore che prendono il tè e non sanno fare altro), la nuora Miranda «un impiastro», «fatta di un materiale di seconda qualità», come la moglie, ma «Beppino» aveva parole aspre per ognun3, maschi e femmine che fossero (usava spesso la parola «negro», che accade di leggere altrettanto di frequente nei romanzi del Novecento, poiché non considerata dispregiativa e politicamente scorretta come ora). Non è da meno la madre Lidia, che parlando de3 nipotin3 in una battuta rivolta alla protagonista Natalia, le dice: «Mi porti via i bambini! […] Ma guarda che cagna che sei!». Le differenze tra maschi e femmine sono evidenti e rimarcate nel racconto autobiografico: «Gino studiava bene, e così pure Mario; la Paola non studiava, ma a mio padre non gliene importava: era una ragazza, e lui aveva l’idea che le ragazze, anche se non hanno tanta voglia di studiare, non fa niente, perché poi si sposano»; «Mi sposai; e immediatamente dopo che mi ero sposata, mio padre diceva, parlando di me con estranei: “mia figlia Ginzburg”. Perché lui era sempre prontissimo a definire i cambiamenti di situazione, e usava dare subito il cognome del marito alle donne che si sposavano».

Per noi italian3 la lettura di quest’ultimo passo non è stata anomala fino ad appena un anno fa, quando l’attribuzione del doppio cognome è diventata automatica (previo accordo tra genitori) dal 2 giugno 2022, per effetto di una sentenza della Corte costituzionale che dichiara illegittima l’assegnazione esclusiva del cognome paterno a3 nuov3 nat3.
Spiragli di luce divergente, in verità, si intravedono in diverse opere letterarie. In Calvino, per esempio, il personaggio di Pamela ne Il visconte dimezzato è immagine di una donna che non ci sta ad accettare a scatola chiusa la corte del Medardo cattivo, per farsi poi rinchiudere in un castello senza sapere a quale destino sta andando incontro: «– Ebbene: io devo sapere prima cosa mi farete. E potete ben darmene un assaggio ora e io deciderò se venire o no al castello. […] – È chiusa nel castello che voglio averti, è chiusa nel castello!». Inquietante lo scenario del giorno dopo: Pamela si ritrova sul grembo uno scoiattolo sanguinante tagliato a metà, una sorta di avvertimento che spinge anche i genitori a convincerla ad accettare la proposta del visconte al punto da chiudere in casa la ragazza affinché Medardo potesse mandare a prenderla. Ma la donna riesce a scappare per poter continuare a vivere libera nel bosco, fino a quando incontrerà la metà buona di Medardo e saprà riconoscerne anche le benevole intenzioni. Un invito a non cedere all’insistenza violenta dalle modalità stalking da parte di un uomo e a difendere la propria libertà, se non la vita stessa (come stanno recentemente dimostrando gli innumerevoli femminicidi che si commettono tristemente nel nostro paese, più di 70 dall’inizio dell’anno). Nel racconto, sempre di Calvino, contenuto nella raccolta Gli amori difficili e intitolato L’avventura di una moglie, la protagonista Stefania R. torna a casa all’alba dopo aver trascorso tutta la nottata fuori di casa, in assenza del marito e in compagnia del giovane Fornero, e si chiede se sia un’adultera o meno, nonostante non abbia avuto alcun approccio compromettente con quest’ultimo. Nella novella, Stefania si interroga con animo lucido e libero: «Doveva proprio dirlo: non provava nessun rimorso d’aver passato la notte fuori. Si sentiva la coscienza tranquilla. Ma era tranquilla proprio perché ormai aveva fatto il salto, perché aveva finalmente messo da parte i suoi doveri coniugali, oppure al contrario perché aveva resistito, perché s’era mantenuta, nonostante tutto, ancora fedele? […] era sposa da un paio d’anni, e non aveva mai pensato di tradire suo marito. Certo c’era in questa sua vita di moglie come un’attesa, la coscienza che mancasse ancora qualcosa. Era quasi una continuazione della sua attesa di ragazza, come se per lei ancora l’uscita completa dalla minorità non fosse avvenuta, anzi le toccasse ora d’uscire da una minorità nuova, la minorità di fronte al marito, ed essere finalmente pari, in faccia al mondo». Nel tempo che deve attendere prima che riaprano il portone del suo palazzo, Stefania prende un caffè al bar e incrocia più figure maschili con le quali discorre serenamente, giungendo a una consapevolezza nuova, la consapevolezza dell’emancipazione che, ai tempi della pubblicazione di questi racconti di Calvino (1958), risulta essere addirittura paragonabile a un atto di adulterio, una rottura del modello di fedeltà imposto dal matrimonio spesso privo di amore, un atto di ribellione a uno stereotipo che vede la donna come determinata solo in relazione all’uomo a cui si accompagna, che ne legittima l’esistenza stessa come persona sociale: «Stefania capì che era successo qualcosa da cui non poteva più tornare indietro. Questo suo nuovo modo di stare in mezzo agli uomini, il nottambulo, il cacciatore, l’operaio, la faceva diversa. Era stato questo il suo adulterio, questo stare sola in mezzo a loro, così, alla pari». Ne aveva già lucidamente e profeticamente parlato Simone de Beauvoir nel 1949 in Il secondo sesso: «La donna si determina e si differenzia in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei; è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro. […] Donna non si nasce, lo si diventa».
Nella carrellata proposta, riaffiora alla mente ancora qualche esempio. Il personaggio di Marta in Sostiene Pereira, bellissimo romanzo di Antonio Tabucchi (1994), fidanzata di Monteiro Rossi – dal nome che rievoca la Marta evangelica, dedita alla vita attiva, per l’appunto, rispetto alla sorella Maria, emblema di vita contemplativa – è una ragazza appassionata e politicamente impegnata, che sogna una Lisbona libera dal regime e per questo non si avvede dei pericoli che lui e il giovane possono correre esponendosi contro la dittatura. Per la sua viva e caparbia attitudine all’azione, si contrappone all’iniziale ignavia di Pereira, ma al tempo stesso il suo essere e agire lo infastidirà per poi portarlo alla riflessione, alla messa in discussione del suo status e, infine, a una presa di posizione netta contro il regime oppressivo di Salazar.
Nel 1997 esce il romanzo Itaca per sempre di Luigi Malerba, che compie un’operazione interessante dal punto di vista della rilettura di genere della letteratura. La storia di Ulisse è rivisitata in chiave psicologica e raccontata da Penelope, che ne assume una prospettiva differente, mettendo al centro i sentimenti di un personaggio femminile che nell’epica è spesso silente e in attesa: «Ulisse: Veramente Penelope non ha l’aria sofferente e deperita che mi aspettavo. Dalle parole di Eumeo e anche di Telemaco ero sicuro di trovare i suoi occhi ancora belli ma consumati dal pianto e sul suo bel volto le tracce di una lunga sofferenza. […] Penelope: E perché mai, ho pensato, non dovrei fare anch’io qualche bel viaggio? Quando avranno finito il primo poema chiederò a Ulisse di portarmi in Egitto. Mi dicono meraviglie di questo paese e io da quando mi sono sposata non sono mai uscita da Itaca, come da una prigione. Per caso solo gli uomini hanno diritto di viaggiare?».

Il nome della rosa, 1986
Nel romanzo Il nome della rosa (1980), Umberto Eco affida alla voce sapiente, pungente e avanguardistica di Guglielmo da Baskerville un ragionamento che smonta la forte e ossessiva misoginia che nutre gli uomini del Medioevo, in special modo gli uomini di Chiesa: «[…] sulla donna come fomite di tentazione hanno già parlato abbastanza le scritture. […] Tuttavia, caro Adso, io non riesco a convincermi che Dio abbia voluto introdurre nella creazione un essere così immondo senza dotarlo di qualche virtù. E non posso non riflettere sul fatto che Egli le ha concesso molti privilegi e motivi di pregio, di cui tre almeno grandissimi». E così Guglielmo spiega al giovane novizio che Dio ha creato l’uomo dal fango e la donna da «nobile umana materia», ha scelto di incarnarsi nel ventre di una donna, «segno che non era così immonda», infine è apparso a una donna dopo la resurrezione e «nella gloria celeste nessun uomo sarà re in quella patria, e ne sarà invece regina una donna che non ha mai peccato».
Verso la fine del Novecento la narrativa di Pier Vittorio Tondelli pone la questione della libertà di essere chi si vuole con il suo racconto dell’amore omosessuale tra Leo e Thomas nel romanzo Camere separate (1989), in cui profeticamente punta l’attenzione su un aspetto che riguarda tutt3: «E lui sa che per gli uomini la cosa più difficile è proprio stabilire un contatto con il mondo degli altri. […] Solo nel futuro, solo fra molti anni, forse qualcosa cambierà. Nasceranno persone che tenteranno in altri modi di mettere in contatto i mondi diversi nei quali ognuno continua a vivere. Nascerà finalmente qualcuno per cui la memoria dell’entità “Leo-e-Thomas” verrà accettata e custodita come un valore da cui trarre vita e speranza. Solo in futuro. Forse tra centinaia di anni».
Da qui in poi il nostro viaggio si interrompe. Mi piace pensare che, in questo pezzetto di strada percorso insieme – anche se solo sommariamente – attraverso i secoli e i classici della nostra letteratura, ognun3 di coloro che hanno avuto la pazienza di percorrere le varie tappe che ho voluto fissare possa essersi sentit3 stimolat3 ad avere un approccio completo, consapevole, inclusivo e critico verso la letteratura. Indagare gli anni Duemila è arduo per la complessità e numerosità dei fenomeni che si sono susseguiti, ma soprattutto perché si tratta di un segmento temporale molto vicino, a noi strettamente contemporaneo, che necessita di tempo e spazio sufficiente per essere messo a fuoco. Certamente la narrativa – come la poesia e la saggistica – risentono fortemente dei cambiamenti che hanno investito la nostra società negli ultimi vent’anni, e la presenza delle donne nel panorama letterario è quantomai – e fortunatamente – ampia, come vario e mutato è anche l’atteggiamento degli scrittori verso le “donne di carta” (penso a scrittori e scrittrici come Viola Ardone, Marco Balzano, Giuseppe Catozzella, Paolo Giordano, Dacia Maraini, Lorenzo Marone, Melania Mazzucco, Rosella Postorino, Giuseppina Torregrossa, Ilaria Tuti, e tant3 altr3).

Desidero chiudere questa rubrica con il ricordo vivo e forte di una donna, intellettuale e scrittrice che ha spiegato, stanandole magistralmente, le fonti del patriarcato, fornendoci diversi antidoti e permettendoci di indossare quelle lenti di rilettura e decostruzione della realtà passata e presente che più volte ho richiamato come strumento di conquista di consapevolezza e di emancipazione reale. Sto pensando a Michela Murgia, scomparsa troppo presto, ma la cui enorme eredità – composta da moltissimi preziosi lasciti – resterà per sempre nelle mani di tutt3 coloro che vorranno provare a rendere il mondo un posto sempre migliore di quello che abbiamo conosciuto e che ci hanno lasciato, ognun3 con i propri talenti e nel proprio posto nel mondo, che sia la scuola, l’università, la corsia di un ospedale, un ufficio, una palestra, un’aula di tribunale, un seggio politico… qualsiasi luogo in cui possiamo operare per un cambiamento in senso positivo, ugualitario, a favore di tutt3, nessun3 esclus3.

Non è semplice, nessun3 ha mai detto che lo fosse, ma è necessario, come Michela ci ha insegnato: «più di una, in passato, lo ha fatto per noi ed è per questo che oggi possiamo divorziare, scegliere se diventare madri o no, fare le magistrate, non essere costrette a sposare l’uomo che ci ha stuprate e avere altri non piccoli diritti. […] Se ci dispiace dispiacere, l’ancella in cui vorrebbero trasformarci ha già vinto, perché l’unico potere che il patriarcato riconosce come legittimo è quello che ti concede, mai quello che ti prendi da sola» (Michela Murgia, Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo più sentire, 2021).
P.S.: L’uso del simbolo 3 come inclusivo nella scrittura di questo contributo è un omaggio a Michela Murgia e al suo recente God Save the Queer, scritto con lingua e stile inclusivi più che mai, senza timore e con coraggio.
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Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.
