Quando la danza libera l’anima

Qualche notazione su origini e caratteristiche della taranta.
«Nessuno saprebbe dirlo a parole, ma tutti sentono che dentro quel battere, quello scordamento di corde e tamburi, dentro il ballo di quella piccola anima senza scarpe, attraverso il corpo macilento di Archina che comincia a muoversi in modo sempre più convulso, si sta riassumendo ogni nostro singolo progetto di salvezza terrena». Queste sono parole di Teresa De Sio, tratte dal suo romanzo Metti il diavolo a ballare, una storia incentrata sulla complessa e arcaica concezione del mondo contadino del Salento premoderno, quando le tarante mordevano nelle campagne avvelenando il corpo delle/dei pizzicati che dovevano mettersi a “ballare” per poter guarire dal male. Al centro l’infelicità di Archina Solimene, un’adolescente poverissima, schiacciata da abusi inimmaginabili, sola, prigioniera di una sofferenza indicibile da cui tenta di liberarsi facendosi aiutare dalla tradizione della sua cultura. Dice di essere stata morsa da un ragno, di essere posseduta. Danzerà tempestosamente per tre giorni. Alla fine dei rituali cade esausta buttando fuori il demone che è dentro di sé. Ma quel male che la opprime non potrà essere guarito da rituali o “diavolerie” della modernità.

Entriamo così nelle origini della taranta, e quindi anche delle tante tarantelle, e, come sempre, ci ritroviamo nell’antica Grecia. Il mito è quello di Arakne, bellissima ragazza esperta nell’arte della tessitura, che sfida la dea Atena in una gara di bravura. Quando la Dea vede il meraviglioso drappo ricamato da Arakne, diventa gelosissima e strappa il telo, trasformando Arakne in un ragno, che può tessere solo ragnatele. Ecco perché il mito di Arakne si lega alla realtà delle tarantolate.

Maria di Nardò in stato di trance
San Paolo di Galatina, 1959

Per molti anni, la situazione di oppressione e violenza psicologica vissuta dalle donne a causa delle regole patriarcali delle nostre società, si è tradotta in gravi stati di isteria e psiconevrosi che venivano giustificati dalla popolazione maschile come conseguenza di un malfunzionamento dell’utero (“isteria” deriva, infatti, proprio dal greco Hysteron, utero). La saggezza popolare ha saputo trovare una via d’uscita a queste barbare pratiche dando vita al mito delle “tarantolate”. Quindi, era il morso di un ragno a causare il malessere delle donne e la cura possibile era solo una: una danza sfrenata, ribelle, catartica. Come nei culti dionisiaci, la donna diveniva unica protagonista, condizione che non poteva vivere altrimenti. La pratica prevedeva il riconoscimento di una simbologia magica legata alla danza e alla musica che, naturalmente, la Chiesa non poteva permettere. Questo è il motivo per cui il fenomeno è stato posto sotto la protezione di San Paolo.
Il ragno, infatti, insieme al serpente, fa parte di una cultura matriarcale e rappresenta il simbolo sessuale. Ma mentre il serpente, Satana o il male assoluto, verrà subito integrato nella cultura cristiana, il ragno rimarrà legato alla cultura popolare. È il simbolo della terra madre che riaffiora, che tesse la rete della vita. Infatti, nel rituale del tarantismo, il ragno pizzicherà di preferenza le donne. Il muoversi spasmodico degli arti, la disinibizione totale provocata dal veleno della tarantola, fungono da giustificazione per comportamenti provocatori e sessuali, senza che le protagoniste ne siano consapevoli. È, dunque, la rivalsa del femminino che si riappropria della propria sessualità e dei propri istinti annullando ogni forma di condizionamento. La Chiesa permetterà questo rituale facendo in modo che la sua fine, cioè la liberazione dal male, avvenga attraverso la figura di San Paolo, che annullerà il potere pagano del ragno.

Una pratica musicoterapica, dunque, di tipo magico-religiosa, studiata a fondo dall’antropologo Ernesto De Martino. Ne La terra del rimorso lo studioso sostiene che il fenomeno delle tarantolate è inquadrabile in due livelli che coesistono: è un fenomeno di tipo culturale e religioso molto antico e, nello stesso tempo, la manifestazione di un malessere psichico. Crisi e riscatto, tormento ritmico e salvezza. Così, attraverso il simbolismo della musica e della danza, il passato di dolore, le sconfitte dell’anima, i traumi delle tarantate si risolvono in un nuovo equilibrio che durerà fino al giorno di San Paolo, quando il rituale liberatorio trova il suo ultimo tempo.

Il documentario storico di Gianfranco Mingozzi del 1962 La taranta descrive bene il legame tra luoghi, corpi, suoni, colori. Figure di liberazione che si incarnano nella vitalità disperata del femminile.

***

Articolo di Vera Parisi

Insegna Filosofia e Storia al Liceo Scientifico Dell’IIS Matteo Raeli di Noto. È referente dei progetti PTOF Toponomastica femminile – Sulle vie della parità ed Educazione relazionale-affettiva e C.I.C. Parte del gruppo Noto/Avola di T.f, è attualmente interessata alle tematiche relative alla comunicazione relazionale, alla cittadinanza attiva e alle pari opportunità, sulle quali svolge il ruolo di formatrice.

Lascia un commento