Mai più?

Nel lontano 1945 dall’orrore dell’Europa coperta di macerie e di cimiteri, dal mondo sgomento per i massacri di milioni e milioni di persone inermi si levò un grido corale potentissimo, “mai più”. Mai più lager, mai più sterminio. Mai più guerre.
Si crearono organismi sovranazionali che fossero in grado di dirimere le controversie, tribunali e corti indipendenti che giudicassero le lesioni ai diritti umani e i crimini di guerra; si scrissero trattati per la non proliferazione delle bombe più letali. Si diffusero ovunque e presero forza movimenti pacifisti (quelli che oggi chiamano con sarcasmo “anime belle”) impegnati a disdire l’ordine bellico della militarizzazione non solo nei suoi esiti ma nei suoi presupposti.
“Mai più” significava allora mai più guerre, mai più pulizie etniche, mai più risorse per le armi (“riempire i granai, svuotare gli arsenali” fu il messaggio agli italiani dell’amatissimo presidente Pertini. Era il 1979).

C’era però nelle prassi politiche, nelle aspirazioni dell’homo homini lupus, nascosta nella parte arcaica dei cervelli, un’altra interpretazione del “mai più”. Lo leggeva come “mai più saremo deboli, mai più saremo inermi”. Si traduceva nell’impegno ad armarsi sempre di più, ad appoggiarsi a chi fosse riconosciuto come il più forte e il più potente. In ultima analisi a dividere per l’ennesima volta il mondo in popoli dominanti e popoli succubi, etnie giuste ed etnie sbagliate, esseri umani a tutto tondo ed esseri umani un po’ meno umani, imperi del male e imperi del bene, magari chiamando in soccorso una versione stralunata di religione. Occhio per occhio, dente per dente. Con il solito repertorio prima di perversione del linguaggio, poi di fili spinati, di lager, di evacuazioni forzate, poi di devastazioni e di morti. Tanti morti. Sempre più morti civili, sempre più bambini. Morti magari riconosciuti inutili dopo decenni.

È inevitabile, è la legge di natura, dicono i più disincantati. È solo per difesa, dicono i più ipocriti. I più spavaldi innalzano inni al dio degli eserciti.
Di fronte al pensiero che faranno di Gaza un cimitero e lo chiameranno pace sono queste considerazioni a venirmi in mente. La strage voluta dai terroristi di Hamas evoca altre stragi, la risposta prefigura conseguenze terribili che possono sconvolgere il mondo intero, ricorda gli errori nefasti citati dal presidente Biden.
Di fronte al senso di vuoto politico e di forzose, violente contrapposizioni in cui siamo precipitati, all’inerzia dell’Europa, all’impotenza dell’Onu, al disagio visibile perfino nelle reazioni degli Usa, mi domando perché non si dia voce ai tanti e alle tante che in Israele si contrappongono alla politica folle del loro governo e alle sue ideologie suprematiste, perché non si ascoltino gli ebrei e le ebree che ovunque nel mondo manifestano in nome di una pace giusta, quanti e quante pensano che sterminare una popolazione già stremata non sia tollerabile.
Sono loro che incarnano il “mai più”. La Shoah non ha insegnato l’odio (perché abbiamo tanto apprezzato le parole di Liliana Segre?) ma hanno imparato a leggere nel linguaggio disumanizzante l’inizio della catastrofe, nella costruzione di muri l’imbarbarimento di una società, nella privazione di diritti il seme della prevaricazione; non hanno tratto dalla tragedia immane del ‘900 insegnamenti di vendetta ma la consapevolezza dolente della fatica che costa non volerla ripetere. Sussultano alla spaventosa dizione “soluzione finale”.
Sono loro che guardano al dopo, ossia esercitano uno sguardo che governanti esaltati dall’hybris di potenza, armieri eccitati dai guadagni (+ 23% in un anno), giornalisti embedded non vogliono adottare. Cercano una strada meno effimera, un comportamento meno belluino del braccio di ferro; rappresentano un’umanità meno malata.
Tra loro ci sono donne, tante donne. Quelle che nel 2017 marciarono insieme alle palestinesi di Women of the Sun per proteggere i loro figli, per chiedere una vita degna, per mostrare una convivenza possibile. Lo sforzo collettivo di Women Wage Peace, di Women in Black non arretra nemmeno oggi. Come le aiutiamo a risolvere il conflitto?
È necessario anzitutto che siano sentite e viste: quello che l’Occidente illuminista e democratico rifiuta di concedere.

***

Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.

Lascia un commento