L’intero mese di ottobre, fin dal 2006, è dedicato al bilinguismo, o più precisamente ai bambini e alle bambine bilingui: non si tratta di un’iniziativa molto conosciuta a livello internazionale, ma grazie alle moderne tecnologie di comunicazione e al passaparola, si sta a poco a poco diffondendo. Del resto, dal momento che è nata per iniziativa di una casa editrice che pubblica libri per bambini bi- e multilingui, potrebbe venire il dubbio che sia una trovata esclusivamente pubblicitaria. Eppure, cogliere l’occasione e fermarsi a riflettere sul bilinguismo, o più precisamente sull’educazione e la scolarizzazione multilingue, non è fine a sé stesso o, peggio, uno spot commerciale: significa occuparsi di una realtà molto diffusa a livello mondiale. Mi rendo conto che, pensando al bilinguismo, il primo pensiero corre all’immigrazione così come viene riportata dai media, cioè un fenomeno spesso al centro delle cronache e al quale molte persone attribuiscono un valore negativo. A essere precisi, anch’io e la mia famiglia siamo parte dell’immigrazione. Immigrazione “di lusso”, certo, ma immigrazione. Ma non siamo delle mosche bianche: tantissime sono le persone che si sono spostate – per motivi di studio, lavoro, sentimentali – in paesi in cui si parla una lingua diversa da quella appresa nell’infanzia e che malgrado la lontananza dal paese delle origini ci tengono a trasmettere a figli e figlie la propria lingua, la propria cultura, le proprie radici, senza con questo rinunciare all’integrazione. Del resto il bilinguismo non va unicamente interpretato come legato all’apprendimento di lingue standard diverse: anche crescere con una varietà non standard, un dialetto, significa vivere in un contesto bilingue. E questa realtà riguarda dunque anche le/i non immigrati.
Innanzitutto una premessa: definire il bilinguismo non è così scontato come sembrerebbe. Ci sono vari livelli di bilinguismo (e di multilinguismo, di cui però non ci occupiamo in questo articolo) e di per sé una persona che si trova a usare regolarmente due lingue, indipendentemente da quando le ha acquisite, è una/un parlante bilingue. Tuttavia, qui mi concentrerò sull’acquisizione contemporanea di due lingue in età evolutiva usate in modo regolare e parallelo nella propria realtà quotidiana.
Vivendo negli Stati Uniti mi capita spesso di incontrare cognomi la cui grafia rivela chiaramente l’origine non inglese della persona. E spesso mi trovo in difficoltà con chi parla con me perché pronuncio un cognome di origine italiana all’italiana e l’altra persona non capisce. Oppure, specularmente, mi pronunciano un cognome che sembra inglese, ma che poi si rivela, nella versione scritta, di origine italiana. Ma di italiano è rimasta unicamente la grafia. Chiacchierando con queste persone, che spesso ammettono di non sapere una sola parola di italiano e di non capirlo nemmeno, emerge un attaccamento ad alcune tradizioni, soprattutto culinarie. I cibi, le ricette, la cucina, insieme alle tracce lasciate dal cognome, sono infatti l’elemento identitario che maggiormente lega queste persone alle proprie origini. Non la lingua. Come mai? In passato, infatti, si chiedeva alle prime generazioni di immigrate/i di abbandonare la propria lingua madre in favore della lingua della comunità, con l’idea di facilitare e velocizzare l’integrazione di figlie/i, cioè della seconda generazione. Questa seconda generazione ha di conseguenza appreso unicamente delle minime competenze linguistiche nella lingua dei genitori, di solito limitate alla comprensione orale. La lingua di nonni e nonne si è poi persa con le terze generazioni, anche se sono rimaste le polpette della domenica e altre sfiziose tradizioni. Non si può generalizzare, ma questa è una storia sentita parecchie volte, qui negli Stati Uniti come nella Svizzera tedesca, dove ho vissuto a lungo, e non vale soltanto per gli immigrate/i di origine italiana.
Per anni il bilinguismo è stato considerato dannoso, un problema per l’educazione di bambine e bambini, che li avrebbe sfavoriti nel percorso scolastico e nel mondo del lavoro. Questo pensiero, spesso incoraggiato da mediche/i ed educatori/trici, è stato dominante negli Stati Uniti e anche in Europa fino a quando si è iniziato a studiare scientificamente il tema del bilinguismo ed è emerso che non era svantaggioso. Anzi. E si è anche compreso che avere una competenza sicura, forte, nella propria lingua madre facilitava l’acquisizione della lingua della comunità. Allo stesso tempo è anche emerso che il bilinguismo o il multilinguismo precoce va curato, va seguito e incoraggiato, insistendo anche sulla lettura e la scrittura.
Tuttavia, anche se gli studi scientifici promuovono il bilinguismo e ne sottolineano i benefici, è ancora diffuso un certo scetticismo e in base alla mia esperienza le limitazioni principali che ostacolano l’educazione bilingue sono la formazione di genitori e insegnanti da una parte e le rigidità del sistema scolastico (anche se non si può generalizzare).
Perché formare i genitori? Crescere bambine/i bilingui richiede da parte dei genitori disciplina, soprattutto all’inizio dell’acquisizione linguistica, indipendentemente che la prima lingua sia una varietà standard o un dialetto. Ad esempio, è facile mischiare due lingue, ridere e adottare le parole buffe che i/le piccole creano. Sono simpatiche/i quando fanno le loro creazioni linguistiche tra una lingua e l’altra. Uno dei miei figli, per un certo periodo, ha mischiato inglese e italiano producendo parole o espressioni come pochetta (per tasca), ho forgotto (per ho dimenticato), aspetta per me (per aspettami). Questi errori sono simpatici e creativi e fanno parte del processo di apprendimento. Anche se, sinceramente, mi dispiaceva un po’, li ho sempre corretti e ho sempre incoraggiato l’uso di una sola lingua alla volta, senza che venissero mescolate due o più lingue. Ho capito di essere sulla strada giusta quando ho detto a mio figlio, contraddicendo le mie stesse regole: «ehi, guarda un doggy». E lui mi ha risposto: «mamma, cane non doggy!». Anche se sono piccoli, i bambini sono delle spugne e poi ti sorprendono. Saper distinguere e utilizzare correttamente i diversi sistemi linguistici è fondamentale e lo si apprende fin da piccoli. E ciò vale sia per le lingue sia per i dialetti.
E poi c’è la scuola. Io ho avuto esperienze contrastanti con gli/le insegnanti. Sulla mia strada di mamma di bambini bilingui ho incontrato sia insegnanti aggiornate/i sia insegnanti con un approccio, spesso inconsapevolmente, carico di pregiudizi nei confronti della bambina/o che non parla (ancora) la lingua della comunità. Parlare a casa un’altra lingua non significa non riuscire ad apprendere la lingua scolastica e della comunità in modo appropriato e completo. Significa soltanto avere bisogno di più tempo, pazienza e incoraggiamento e degli strumenti didattici adatti.
Siccome la scuola è un posto dove si cresce, si impara, ci si confronta, si creano ponti, si promuove l’empatia e la comprensione reciproca, i/le bilingui possono essere un valore aggiunto perché sono abituate a creare ponti tra realtà diverse, a bilanciare le differenze e a comprendere la comunicazione non verbale. Il bilinguismo, però, può anche generare tanta frustrazione sia in bambini e bambine sia nei genitori e per questo va curato e valorizzato, non commettendo alcuni gravi errori: non curarsi dell’apprendimento della lingua materna (perché tanto è “automatica”), impedire o ostacolare la trasmissione della lingua dei genitori, non sostenere sufficientemente il bambino o la bambina nell’apprendimento linguistico a scuola, valutare i progressi dei/delle bilingui, o i loro problemi, come se fossero dei/delle monolingui, come da anni sostenuto da studiosi come François Grosjean, Li Wei e Annick De Houwer.
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Articolo di Lorenza Pescia De Lellis

Nata e cresciuta nel Canton ticino, sono stata assistente al Romanisches Seminar di Zurigo e ho collaborato all’edizione degli Scritti linguistici di Carlo Salvioni. Attualmente vivo negli Stati Uniti e sono visiting scholar all’Institute for Advanced Study di Princeton. Tra i miei interessi di ricerca ci sono il linguaggio di genere, il multilinguismo e la politica linguistica, l’analisi del discorso, la storia della linguistica.
