È ancora Euripide il poeta cui dobbiamo le figure indimenticabili di queste eroine che, al contrario di Medea e Fedra, sono totalmente prive di colpa, ma come quelle trovano nella morte la soluzione per sfuggire a una vita anonima.
Alcesti è la tragedia più antica di quelle che del tragediografo ci sono arrivate, mentre l’Ifigenia in Aulide fu rappresentata nel 404, quando l’autore era già morto e non ad Atene, bensì in Macedonia, dove si era rifugiato alla corte di Archelao. Il poeta era probabilmente disgustato della grave crisi della democrazia ateniese cui, con la sua opera, aveva dato per cinquant’anni un importante contributo di critica e di riflessione, in una sorta di dialogo a distanza con lo stesso Socrate. Perché il teatro ad Atene non era solo spettacolo e neppure solo rito religioso – i concorsi tragici erano organizzati in occasione delle Grandi Dionisie, feste in onore del dio del vino, della musica e della danza – ma era il luogo in cui si dibattevano i temi più attuali di rilevanza etica e politica. All’evento partecipavano tutti, dal filosofo all’artigiano e al contadino: ai meno abbienti la città pagava il biglietto. È incerta la partecipazione delle donne che, del resto, non potevano neppure calcare le scene: gli attori indossavano maschere e i ruoli femminili, spesso centrali, erano interpretati da uomini.
L’Alcesti fu rappresentata nel 438 come quarta e ultima pièce della giornata, occupando il posto di solito riservato a un dramma satiresco: un’opera leggera e a lieto fine, destinata ad allentare la tensione e disperdere le emozioni troppo forti suscitate dalle tre tragedie che l’avevano preceduta. Un po’ ci stupisce perché il tema della tragedia è la morte. Vi si racconta di Admeto, re di Fere in Tessaglia, cui viene concesso per intervento di Apollo, che vuole ricompensarlo della sua splendida ospitalità, di evitare la morte, se riesce a trovare qualcuno che prenda il suo posto nel regno degli Inferi. Gli anziani genitori rifiutano di sacrificarsi, mentre la giovane moglie Alcesti si offre volontariamente a Thanatos, la morte, che non vuole rinunciare alla sua preda, ma è disponibile allo scambio. Tutta la storia ce la racconta Apollo nel prologo, ognuno dei personaggi che si succedono in scena ha già fatto la sua scelta, ed espone le sue ragioni; al coro il compito di commentarle. E naturalmente si sprecano le lodi per Alcesti che per amore del marito, rinuncia perfino a veder crescere il figlio e la figlia. Lui, Admeto, è ovviamente disperato: come farà a vivere senza tale donna accanto? Si scaglia contro il vecchio padre che non ha voluto sacrificarsi per lui, ma quello ha buon gioco a rinfacciare il suo egoismo al figlio, che per non morire ha riversato la sventura sulla donna che dice di amare: tutti, afferma, amano per prima cosa la vita e tutti ne hanno una sola da vivere.
Il commiato di Alcesti dal mondo è pacato e sereno: solo, chiede al marito di non sostituirla con una donna peggiore di lei, temendo una cattiva matrigna il figlio e la figlia. Admeto decreta un anno di lutto in onore della moglie, ma si ripromette di osservarlo lui personalmente per tutta la vita; il coro afferma che «la regina vivrà nella gloria, perché è la più eccellente tra le donne che vivono sotto la luce del sole»; l’ancella ribadisce che «nessuna donna sarà in grado di superare colei che esprime la sua venerazione per il marito accettando di morire per lui», Alcesti, 150-155. Riferisce che l’ha vista piangere sul letto nuziale: «O letto, su di te un giorno sciolsi la mia veste di fanciulla e persi la verginità con l’uomo per il quale sto morendo. Sono venuta a dirti addio, perché non ti odio, anche se sono la tua unica vittima. Non ho avuto il coraggio di tradire te e il mio sposo, così ora lascio la vita. In futuro apparterrai a un’altra donna: lei sarà forse più fortunata di me, non certo più virtuosa». Ibidem, 177 – 182.

Mentre i funerali sono in corso, arriva a palazzo un ospite d’eccezione, Ercole, di passaggio sulla strada per una delle sue mitiche fatiche. Davanti all’eroe il re non può tradire la fama che si è conquistato ospitando per nove anni Apollo (il dio era in punizione per aver ucciso i Ciclopi): fa intendere che il lutto non riguarda una persona di famiglia – se per famiglia s’intendono i consanguinei, neppure i figli lo sono rispetto alla madre, come afferma nelle Eumenidi di Eschilo, Apollo stesso, cercando attenuanti per il matricidio di Oreste – e fa accompagnare l’eroe in un’ala della casa in cui non arrivino i lamenti funebri rituali e lui possa gozzovigliare senza remore. Tuttavia un servo cui Ercole rimprovera un lutto che ritiene eccessivo – la vita è una sola e bisogna goderne tutti i piaceri, cibo, vino e donne in primis – rivela la verità e allora l’eroe, turbato, decide di affrontare l’ennesima fatica per ricambiare la generosità di Admeto: raggiunge Thanatos presso la tomba di Alcesti, riesce a strappargliela e la riconduce, muta e velata, a palazzo, presentandola come sua proprietà e facendone accettare la presenza al sovrano che pure non vorrebbe accoglierla per tener fede alla promessa fatta alla moglie. Tutto finisce a tarallucci e vino.
Ma quella cui va la gloria eterna per aver cercato “la bella morte” eguagliando i più famosi guerrieri è lei, Alcesti – si merita così una citazione perfino da Platone – e consegnando al marito, in una perfetta inversione dei ruoli il compito di custodire la casa e addirittura di fare da madre ai figli.
Il nucleo tematico dell’Ifigenia in Aulide è la guerra e insieme il potere: mette a fuoco il condizionamento che la massa esercita su chi vuole il potere e l’uso che i potenti fanno della guerra come mezzo di controllo della massa. Come racconta l’omonimo splendido film di Kakoyannis, del 1977, interpretato da Irene Papas.
Euripide riprende il mito che racconta come la coalizione pronta a partire per sferrare l’attacco a Troia, vendicare l’offesa del rapimento di Elena e insieme umiliare la potenza dei barbari, sia bloccata dalla mancanza di venti favorevoli. Dopo giorni di inutile attesa l’umore delle truppe è a terra e comincia a serpeggiare la ribellione o almeno il desiderio di tornarsene ognuno a casa propria. L’indovino consultato rivela che è Artemide a impedire la partenza della flotta raccolta sotto il comando del re di Argo Agamennone, e quindi a vanificare i suoi sogni di gloria, a meno che lui non le sacrifichi la figlia primogenita Ifigenia.
Nonostante dubbi e ripensamenti, Agamennone, messo alle strette dal fratello Menelao e terrorizzato da un possibile intervento di Odisseo, decide che il suo ruolo di capo supremo deve prevalere rispetto ai suoi sentimenti di padre. Per giustificare la convocazione della ragazza presso le navi, viene inviato ad Argo un messo che annuncia alla regina Clitennestra una notizia festosa: Achille, il più forte e giovane dei capi greci, ha chiesto la mano di Ifigenia e vuole celebrare le nozze prima della partenza. Ma quando madre e figlia arrivano insieme al piccolo Oreste all’accampamento, la ragazza si accorge subito che qualcosa non va: si aspettava di trovare il padre raggiante e invece lo vede scuro in volto e preoccupato. Presto le viene rivelata la verità: Ifigenia è sconvolta e, in una scena tenerissima, cerca di muovere a pietà il re: «Sono stata la prima a chiamarti padre e la prima che tu hai chiamato figlia. Per prima sono salita sulle tue ginocchia, a dare e ricevere i segni d’amore. Tu mi dicevi: “Potrò mai vederti fiorire nella casa di un uomo d’eccezione” […] E io: “Quando sarai vecchio, padre, ti accoglierò con amore nella mia casa”. Io ricordo quelle parole, tu le hai dimenticate e vuoi uccidermi. […] Guardami, dammi un bacio, rivolgimi uno sguardo, abbi pietà di me, risparmiami la vita. Vedere questa luce è la cosa più bella per gli umani, sotto terra c’è il nulla. Folle chi si augura di morire: meglio vivere male che morire bene.» Ifigenia in Aulide, 1220-1252, passim.
Naturalmente la ragion di stato vale più di tutti gli affetti e Agamennone è irremovibile: «È alla Grecia che lo voglia o no, io devo immolarti: la Grecia deve essere libera, per quanto sta in te, figlia, e per quanto sta in me. Siamo greci e dobbiamo far passare ai barbari la voglia di rapire le nostre spose con la forza». Ibidem, 1271-1275. E allora Ifigenia si arrende e accetta il sacrificio (1). Anzi fa di più: si esalta all’idea di una morte che consentirà alla guerra più favolosa di tutte quelle che siano mai state combattute di affermare la superiorità dell’Occidente sull’Oriente, facendo risplendere imperitura la gloria dell’Ellade. E insieme la sua: perché sarà proprio lei, una semplice ragazza, una donna, una nullità, a permettere tutto questo. A nulla vale che Achille, infuriato per aver scoperto che il suo nome è stato usato per un inganno, le offra il suo braccio e si dica pronto a battersi per sottrarla a una morte orrenda. La ragazza ormai anela al martirio e rifiuta l’offerta: vivendo continuerebbe a essere una persona di poco conto, morendo conquisterà l’onore e la fama negati alle sue simili. Ed è significativo che ora si rivolga alla madre, e non al padre: «Ho deciso di morire e voglio farlo nella gloria, libera da ogni viltà. Riflettici con me, madre, e ti renderai conto che ho ragione. Adesso tutta la Grecia, la grandissima Grecia, guarda a me: sono nelle mie mani la partenza delle navi e la distruzione dei Frigi. La mia morte garantirà tutto questo e sarò beata nella gloria, per aver liberato la Grecia. Non devo essere troppo attaccata alla vita, mi hai messa al mondo per tutti i Greci, non per me soltanto. Miriadi di guerrieri in armi, miriadi di guerrieri ai remi, pronti ad assaltare i nemici e a morire per la Grecia, poiché la loro patria ha subito un torto… e la mia vita, che è solo una, dovrà essere di ostacolo a tutto questo? Che diritto ne ho? […] Un solo uomo merita di vivere più di mille donne. […] Io offro la mia vita alla Grecia. Sacrificatemi e distruggete Troia! Il mio gesto sarà ricordato a lungo. Sono questi i miei figli, le mie nozze, la mia fama». Ibidem, 1374-1399, passim.

Secondo Aristotele, il personaggio di Ifigenia è mal costruito: il comportamento della ragazza è così mutevole da risultare incomprensibile al filosofo, che teorizzava la necessità della coerenza dei personaggi. A noi invece questa contraddizione appare l’aspetto geniale della tragedia, che fa di Euripide un poeta modernissimo: in tutta l’opera i personaggi principali appaiono dilaniati da scelte difficili: Agamennone per primo, ma poi anche Menelao che si pente di aver costretto il fratello a un sacrificio così grande per il desiderio di riprendersi una moglie infame. E su tutta la vicenda aleggia il tema dell’onore: quello di Menelao, perso per colpa di Elena; quello di Agamennone che una scelta dettata dall’affetto di padre metterebbe a repentaglio; quello di Achille il cui nome è stato usato per un inganno e che è disposto a ignorare l’interesse del suo stesso esercito per riscattarlo.
È davanti a questo sistema di valori che Ifigenia compie una scelta assolutamente coerente: ha la possibilità di far sì che la Grecia debba a lei, e a lei sola, la vittoria e la gloria, un’opportunità da cogliere al volo per una donna. Achille stesso rimane ammirato e turbato: forse la ragazza non sa valutare bene che cosa l’aspetta, ma lui le starà accanto, pronto a intervenire se ci ripensasse, anche all’ultimo momento.
Ma non ce ne sarà bisogno: la dea, paga della sottomissione dimostratale, sostituisce all’ultimo momento Ifigenia con una cerva che inonda col suo sangue l’altare del sacrificio1. Poi porta con sé la ragazza per farne la sua sacerdotessa in una terra lontana; là, come racconta lo stesso Euripide nella tragedia composta parecchi anni prima, l’Ifigenia in Tauride, la troverà il fratello Oreste, nel suo peregrinare a seguito dell’assassinio della madre, che aveva a sua volta ucciso Agamennone, giustificando il suo gesto con la volontà di vendicare proprio la morte della primogenita.
(1) Il mito ricorda da vicino quello della Bibbia, in cui Jahvè chiede ad Abramo di immolare il figlio legittimo Isacco, che Sara era riuscita a partorire quando ormai si era rassegnata alla sterilità e dopo aver lei stessa offerto al marito la sua schiava Agar perché si procurasse una discendenza: la più antica e celebre forma di maternità surrogata, peraltro suggerita dal codice di Hammurabi.
Del resto i sacrifici umani erano abbastanza comuni nelle società arcaiche che usavano offrire alla divinità i beni più preziosi, le primizie e i primogeniti, non solo quelli degli animali. Ma quando queste usanze cominciarono a ripugnare alla coscienza comune, i racconti mitici vennero edulcorati in modo da mitigare l’immagine della divinità che si limita a mettere alla prova l’obbedienza cieca del credente, ma poi lo grazia.
In copertina: Pittore di Laodamia, Il commiato di Alcesti (particolare). Pittura vascolare a figure rosse, c. 350-325 a.C. Basilea, Antikenmuseum.
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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.
