Donne antifasciste nel carcere di Perugia. Parte sesta

Le ultime antifasciste a entrare nel vecchio carcere femminile di Perugia furono le partigiane.
Non sono state molte le partigiane incarcerate, ma questo non significa che l’adesione femminile alla lotta di liberazione fosse scarsa, anzi, fu massiccia ed espressa con modalità diverse. Ad esempio, in una regione prevalentemente agricola come l’Umbria, fu prezioso e indispensabile anche il sostegno dato alla Resistenza dalle contadine, pur nella consapevolezza di mettere a rischio la propria vita. Furono poche le partigiane che finirono in carcere solo perché i nazifascisti preferivano trucidare le donne appena catturate, sul posto, e perché l’Umbria si liberò nel giugno del 1944.
Dopo l’8 settembre il settore del carcere riservato alle politiche tra donne ostaggio, slave e partigiane era diventato sovraffollato e le suore, troppo poche, non riuscivano a tenere sotto controllo la situazione come un tempo. La strategia del prefetto Rocchi per far fronte all’emergenza consisteva nell’arrivare inaspettato, assegnare punizioni esemplari e seminare terrore commettendo ogni sorta di soprusi. In piena notte, tanto per fare un esempio, faceva prelevare queste donne per torturarle nei sotterranei del carcere o in prefettura; ma nessuna donna parlò.

Vediamo ora alcune storie.

Olga Ciri. Era il 26 ottobre 1943 quando Franco Ciri stava per riprendere la strada della montagna, dopo essere tornato clandestinamente a Foligno per salutare la madre e le sorelle, ma fu sorpreso dai fascisti e ucciso sul ponte che ora prende il suo nome. La madre Olga fu immediatamente catturata e torturata, ma questo non la spinse che a intensificare la lotta. Divenne ben presto una figura insostituibile di riferimento organizzativo nella zona tra Foligno e Spello. Partecipava ai consigli, manteneva i contatti tra i vari gruppi di partigiani, raccoglieva le armi, procurava documenti falsi, assisteva i clandestini.

Giorgina Formica. Nata a Spello nel 1925, di famiglia antifascista, Giorgina era entrata nella Resistenza subito dopo la caduta del fascismo insieme al padre e ai fratelli. La prima volta fu arrestata a Spello e trattenuta nella caserma dei carabinieri dove fu interrogata dal prefetto Rocchi per tre giorni e tre notti sotto la costante minaccia del plotone di esecuzione.
Non ottenendo soddisfazione, Rocchi la portò nel carcere di Perugia dove per lungo tempo la tenne nella cella di segregazione. Rilasciata dopo due mesi riprese la sua attività clandestina finché fu di nuovo catturata dai tedeschi nella sua casa, a Spello. Le urlavano: «Tu ribella, tu bandita. Dove ribelli, dove?» E sempre lei rispondeva: «Non lo so!» «Schlaghen, schlaghen».
La massacrarono di botte con un nerbo di ferro, finché fu riportata nel carcere di Perugia. Con il padre, detenuto nello stesso periodo nel carcere maschile, riuscivano ogni tanto a vedersi, anche se da lontano, approfittando della messa.
Quando arrivarono gli alleati a Perugia, l’infermeria del carcere fu colpita da una bomba e da lì padre e figlia scapparono e tornarono a piedi a Foligno. Dopo la Liberazione le conseguenze di tanti maltrattamenti si fecero sentire. Giorgina si ammalò gravemente, con febbri altissime. Sembrava meningite tubercolare. «Mi fecero il picchetto i partigiani lì sul letto perché sembrava proprio che me ne stessi andando. Fuori un pellegrinaggio di popolo» (Dalla testimonianza resa a Laura Mariani in Quelle dell’idea).

Giorgina Formica con il fratello Luciano sul monte Subasio

Ermengarda Simonucci. Vissuta a Gubbio in una famiglia antifascista, né il padre né i suoi cinque fratelli erano iscritti al partito, fin da bambina cominciò provare avversione per la violenza e il terrore che il fascismo portava; così, dopo l’armistizio, fu naturale per lei diventare una combattente partigiana della Brigata San Faustino. Staffetta tra Gubbio e Umbertide, portava cibo, medicinali, armi. Fu arrestata la notte in cui volle passare a casa per salutare i suoi.
Ha raccontato l’angoscia in quelle celle, al buio, con la pioggia, in quattro metri quadrati, aspettando l’interrogatorio e ogni tanto, a sentire che si avvicinavano, pensare: è giunta l’ora. Era terrorizzata dall’idea di parlare, di cedere alla tortura. «Con l’aiuto delle mie compagne di cella che mi diedero suggerimenti sul modo di comportarmi, riuscii a resistere e a non tradire i miei compagni» (in AaVv, La “dimensione donna” nella Resistenza umbra, Quaderni Regione dell’Umbria, 1972). Ma c’era un’altra difficoltà da superare, e cioè i pregiudizi di genere che come donna dovette affrontare. «Le donne vicine e anche mia madre non approvavano il mio comportamento, perché dicevano che quello che facevo non erano cose da donne e che io dovevo stare in casa». E se anche il padre e il fidanzato erano fieri di lei, questi pregiudizi resero le sue scelte più difficili.

Giuseppina Silvi. Di Gualdo Cattaneo, impiegata delle Poste, Giuseppina Silvi fu arrestata il 16 novembre 1943 «per concorso aiuto prigionieri» e condannata dal Tribunale militare a trenta anni di reclusione. Dopo 8 mesi di prigionia e di torture fu liberata alla vigilia della deportazione, nel giugno 1944, e consegnata alla Croce rossa internazionale.

Rosa Luxemburg Panichi con la sua cavalla Ribella

Rosa Luxemburg Panichi. Il suo caso, come partigiana, è tra tutti questi il più particolare, perché, insieme al padre Samuele, finì ingiustamente in carcere nel 1947. Solo nel 1952 ottennero la revisione del processo e furono assolti con formula piena. Il loro non fu un caso isolato. Nel 1946 l’amnistia per reati politici rimise quasi tutti i fascisti in libertà, ma finirono in carcere con accuse pretestuose diversi partigiani, quasi sempre per azioni compiute durante la lotta di Liberazione.
Pietro Secchia denunciò che nella sola provincia di Modena nel 1948-49 furono fermati 3500 partigiani. Segnalò anche la ricostituzione del Casellario politico centrale per schedare alcuni ex partigiani come agitatori e violenti politici capaci di atti di terrorismo. Nel caso specifico, sostiene Walkiria Terradura, «Panichi era uomo di assoluta onestà, sulla sua dirittura morale garantisco personalmente, senza dubbio alcuno. Ricordo perfettamente la vicenda essendo molto amica della Rosa. Furono colpiti nel clima pesante della rottura dell’unità nazionale (dopo il viaggio americano di De Gasperi) e della guerra fredda».
Rosa è una figura molto interessante, ma per raccontarla bisogna parlare un po’ anche della sua famiglia. Il padre di Rosa, Samuele, aveva lasciato Pianello di Cagli per emigrare prima in Lussemburgo e poi negli Usa, dove diventò un leader del sindacato dei minatori. L’Fbi lo schedò come Sam Panick. La situazione precipitò quando Sam fu arrestato per aver aderito alla campagna di solidarietà per Sacco e Vanzetti. Decise allora di rientrare a Pianello. Era il 1920. La moglie, Irene Catherine Barry, lo raggiunse un anno dopo. Nel 1921 nacque una bambina che fu chiamata Rosa Luxemburg e nel 1924 un maschio che prese il nome di Karl Liebknecht, il fondatore, con la Luxemburg, della “Lega di Spartaco”.
In Italia la situazione era cambiata. Per vivere Samuele si dedicò al commercio ambulante, ma i Panichi cominciarono a essere guardati con sospetto, come sovversivi. Col fascismo arrivarono aggressioni e soprusi da parte del podestà di Cagli. Ricorda Rosa: «Un giorno uno di Cagli, un fascista, viene, se mette lì nell’angolo con un gran manganello […], avevo sei anni, me ricordo come adesso [e gridava], “A morte, a morte i comunisti!”. Io dallo spavento – oddio m’ammazzano babbo – ho cominciato a svenire, m’ha preso come degli attacchi epilettici; so’ stata male sett’anni per causa loro».
Dopo l’8 settembre la situazione per i Panichi diventò sempre più pericolosa per l’aiuto che davano ai disertori, ai soldati alleati e agli slavi evasi dai campi di concentramento, finché all’inizio dell’inverno 1943-44 si costituì la banda Panichi che operava nella zona compresa tra Cagli, Cantiano, Chiaserna e la Serra del Burano, con incursioni nei comuni di Pietralunga e di Gubbio dove operava un’altra banda, la San Faustino, le due bande mantennero la propria autonomia salvo collaborare durante i rastrellamenti e le operazioni più impegnative.
Ovviamente Rosa e Karl erano della partita; della banda Panichi faceva parte anche l’avvocato Terradura di Gubbio con le figlie Walkiria e Leonella ed è proprio Walkiria che ci ha consegnato tanti ricordi di Rosa. «Quando a Morena incontrai Rosina per la prima volta aveva appena compiuto vent’anni: fui impressionata dalla forza che emanava dal suo corpo grande e solido, ma fui soprattutto conquistata dalla sua allegria, dalle sue battute ispirate a un umorismo facile, di cui era la prima a ridere sonoramente».
Rosa aveva sempre lo zaino più pesante, perché aveva qualcosa per tutti, armi e dinamite, farmaci o erbe per i malati, caramelle o giocattoli per i bambini che le correvano incontro quando arrivava nelle aie, panni pesanti per gli uomini fuggiti dai campi di concentramento. Aveva un linguaggio piuttosto colorito, ma si racconta che proprio questo linguaggio una volta salvò la vita a lei e a Walkiria. Era notte fonda. Rosa e Walkiria dovevano portare un messaggio al comando del IV battaglione formato quasi esclusivamente da slavi e quelli, si sapeva, stavano molto attenti e se vedevano un’ombra che si muoveva sparavano, Il problema era che le due ragazze avevano dimenticato la parola d’ordine. Arrivati nei pressi del comando qualcuno dal buio ordinò l’alt e chiese la parola d’ordine. Rosa perse l’equilibrio e cadde. Mentre Walkiria spaventata cercava di aiutarla a rialzarsi, Rosa proruppe in una colorita bestemmia. La voce del buio si mise a ridere: «Capito, figlia Panichi, passate!».
Il momento più brutto fu quando durante un rastrellamento Karl, chiamato in famiglia Lello, fu fucilato dai nazifascisti sull’Alpe della Luna. Toccò a Rosa cercare il corpo. Le indicarono una fossa abbastanza fresca, sotto c’erano due corpi che dissotterrò. «Rosa riconobbe il corpo dell’amato fratello, dalle calze di lana dai colori vivaci, che lei stessa gli aveva confezionato, ai ferri e con le rimanenze di gomitoli diversi, qualche settimana prima. Cadde in ginocchio accanto al corpo del congiunto martoriato dai colpi delle mitragliatrici, continuando a ripeterne il nomignolo. Narra Walkiria che, da quel momento, Rosina non rise più.» (https://www.ilpuntoquotidiano.it/rosina-luxemburg-panichi-la-partigiana/).

Rosa con i genitori e alcuni componenti della banda Panichi

Poi la disillusione. Rosa e Samuele erano a Cagli, avevano l’incarico di ammassare il grano, mandarlo sui camion ad Ancona e poi sulle navi per il consorzio agrario. Venne a mancare il grano e Rosa col senno di poi pensò che si era trattato di un complotto a loro danno per farli fuori e infangarli «Noi ci siamo cascati stupidamente, io ho fatto i conti al consorzio, era giusto, giusto». Dopo qualche mese di latitanza, furono entrambi arrestati con l’accusa di mandare il grano in Jugoslavia, e inviati prima a Urbino e poi trasferiti a Perugia. Fu condannata a 11 anni, ma scarcerata nell’aprile del 1950 perché poté usufruire di due condoni. Solo nell’ultima revisione del processo, nel 1952, Rosa Luxemburg e Samuele Panichi furono riconosciuti innocenti.

Nel carcere femminile insieme a Rosa c’erano altre partigiane (due di Reggio Emilia, Silvia Vanzani di Mestre e una marchigiana). C’erano anche diverse contadine della zona di Castiglione del Lago, arrestate in seguito ai moti per l’attentato di Togliatti. «Queste contadine costituirono una presenza nuova nel carcere di Perugia: la loro formazione politica non era avvenuta tanto nella Resistenza, anche se la guerra aveva sconvolto eccezionalmente la zona del Trasimeno; esse erano divenute attive subito dopo, scendendo in lotta perché non intendevano più sopravvivere come all’epoca del fascismo» (Laura Mariani). Si legarono molto a Rosa. «La Rosa sapeva quando parlava quello che diceva».
La loro formazione politica avvenne proprio tramite Rosa che le aprì a un mondo che andava oltre i confini dei loro campi, acquisirono consapevolezza dei propri diritti. «Quando noi semo tornate, una festa!… Perché semo tornate più belle de quando semo andate via, perché prima eravamo contadine».

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Articolo di Paola Spinelli

Ex insegnante, ex magra, ex sindacalista, vive a Perugia alle prese con quattro gatti e i suoi innumerevoli hobby, ma è in grado di stare bene anche senza fare niente.

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