Roma 2022, interno giorno. Dialogo tra due signore di mezza età e l’addetto alla reception di un albergo:
«Buongiorno, ci servono due camere»
«Siete sole?»
«No, siamo in due»
«Intendevo: non avete accompagnatori?»
Catania 2021, telefonata tra amiche.
Graziella orgogliosa: «Pensa che bello, mia figlia ha deciso di andare in Islanda e farsi quindici giorni di trekking da sola intorno all’isola».
Amica premurosa: «Ma non ha paura?» «Perché non la dissuadi?»
Dal vocabolario:
Avventuriero: uomo che cerca e vive affascinanti avventure nel mondo.
Avventuriera: donna che cerca rapporti promiscui, cortigiana.
Per secoli e secoli la partenza, l’esplorazione, l’esperienza del mondo furono riservate agli uomini. Per molte nostre antenate il viaggio fu un vero e proprio rito di iniziazione, la ricerca di accesso alla libertà per chi era stata storicamente prigioniera delle mura domestiche e del controllo sociale. Desiderio, curiosità, iniziativa: più forti della paura, più forti delle convenzioni. Esploratrici, pioniere intrepide e intraprendenti superarono frontiere fisiche e culturali e aprirono una storia, magari travestendosi da maschi per avere maggior facilità di movimento.
Oggi le donne viaggiano più degli uomini, le cose sono cambiate e non solo per le ragazze più giovani. Secondo l’Istat sono 1.400.000 le donne italiane che abitualmente viaggiano da sole. Ciononostante ci scontriamo ancora con numerosi pregiudizi, innumerevoli stereotipi, come dimostrano gli episodi sopra citati.
È morta davvero l’ossessione di controllo sulle donne tipica delle società patriarcali?
Davvero i millenni in cui ci è stato detto che non potevamo viaggiare (né studiare né votare né fare carriera né giudicare) non hanno avuto effetti sulla nostra libertà di movimento odierna? E da dove viene questo interdetto, così profondo da risultare invisibile, così antico da potersi rintracciare nei miti fondativi che narrano di un eroe curioso del mondo e di una donna fedele che lo aspetta a casa quando è ormai saturo di avventure?
La matrice greca è di importanza cruciale. La “dimostrazione” della superiorità maschile porta il suggello del grande Aristotele, riconosciuto e celebrato padre della filosofia, fonte di una cultura mediterranea cui tutti attinsero, a partire dai Padri della Chiesa cristiana. Egli definì le donne come esseri deficienti e occasionali, la natura femminile come innata menomazione, il principio femminile come materia inerte e passiva e il principio maschile come forma attiva, offrendo fondamento autorevole all’organizzazione patriarcale della polis e al controllo della sessualità femminile. L’inferiorità delle donne trova sistemazione “scientifica”nel De generatione animalium: un testo di fisiologia tradotto in arabo e poi in latino, che ebbe grande circolazione per secoli.
La donna è un essere menomato, scriveva ringraziando gli dei di esser nato uomo. È afflitta da tre debolezze: quella fisica, quella intellettuale, quella morale.
Infirmitas, imbecillitas, fragilitas sexus, figure partite dalla tradizione del diritto romano ed elevate a principio dalla scienza penalistica, sono le identità negative che impediscono alle donne di essere soggetti pieni. La prima le vieta le fatiche eccessive, dallo sport alla caccia alla guerra. La espone a pericoli di ogni genere – che può incontrare dovunque eccetto che a casa. La seconda le preclude le luminose sfide della mente, la curiosità che lei riserva alle piccole cose quotidiane. Come può aprirsi oltre il proprio cortile? Le donne non possiedono il logos, astratto e luminoso: sono sprofondate nell’irrazionalità. La loro sola ragione è la buia, tortuosa metis, intrecciata con l’astuzia, con la doppiezza e con l’inganno.
Molti e molti secoli più tardi l’illuminista Rousseau offrirà le stesse indicazioni, fondate sul fatto che il marito e la prole siano il destino naturale di ogni donna, che l’attività culturale sia al di là delle sue capacità d’intendere e che una donna intellettuale sia un flagello per il marito, per i figli, per gli amici, per la servitù, per chiunque.
La terza debolezza la rende priva di coscienza etica e quindi facile preda delle tentazioni: è capricciosa e instabile e irrequieta e vana e futile. Va dunque controllata e disciplinata perché non ecceda, tutelata perché non rischi nulla, limitata perché non si perda.
Le diamo protezione e sicurezza, esigiamo in cambio sottomissione e obbedienza. Un imprinting. Gli uomini sono stati educati per secoli a coltivare aspettative per le attitudini e le virtù che sembrano essere la cifra di una femminilità fragile corrispondente ai loro bisogni di controllare da un lato, di essere accuditi dall’altro: la pudicizia, la riservatezza, la fedeltà, la disponibilità, l’accoglienza, l’oblatività, la devozione, la mansuetudine.
Per secoli le dominate hanno guardato il mondo interiorizzando il punto di vista dei dominatori: la loro conoscenza si risolveva (e spesso ancora si risolve) nel ri-conoscere l’ordine dato secondo gli schemi appresi. Si può trattare anche di un meccanismo adattivo che accetta la subordinazione e si autolimita con l’obiettivo di trarne benefici secondari, come la protezione o l’ammirazione, o semplicemente il quieto vivere.
Non bastano le recenti libertà nel vestire, nel muoversi, nello studiare e nel lavorare. Nascere in un corpo di donna, nella nostra società e nel nostro tempo, significa che la vita è ancora quotidianamente impastata a un senso paralizzante di vulnerabilità che diventa dispositivo di autocontrollo, invito alla prudenza. Lo sperimenti – se sei sola – nello scompartimento ferroviario, sul ponte di una nave, al ristorante, al bar, nelle hall degli alberghi. Perfino al cinema.
Per guadagnare libertà di muoversi, di agire, di scegliere in pace è necessario che la società intera ripensi le strutture del pensiero, l’immaginario di riferimento. Non sembra che “donna che viaggia da sola” sia – nel XXI secolo! – immagine tranquillamente prevista nel repertorio.
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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.
