Nel corso dell’anno scolastico 2022/2023 la scuola statale Giorgio Morandi, parte dell’istituto comprensivo Mario Lodi di Roma, nel quartiere Portuense, ha partecipato alla terza edizione del bando “A scuola di parità”, finanziato da Roma Capitale con l’intento di promuovere nella scuola secondaria la cultura delle pari opportunità, prevenire la violenza contro le donne, superare gli stereotipi di genere e contrastare le discriminazioni basate sull’identità di genere e l’orientamento sessuale.
Grazie al sostegno di Toponomastica femminile, il progetto, prorogato fino al termine del 2023, attraverso incontri, laboratori, mostre e uscite didattiche ha condotto tre classi prime dell’Istituto (divenute classi seconde dopo l’estate) a riflettere, confrontarsi e discutere in una prospettiva di genere, su pregiudizi e stereotipi, grammatica, letteratura, scrittura, arte, toponomastica e spazio pubblico ed ha arricchito la biblioteca scolastica di uno scaffale con oltre cento volumi dedicati a tematiche di parità.

A seguire il progetto ci sono quattro docenti – Roberta d’Annibale, Francesca Santi, Raffaella Caiazzo e Federica Ciambotta – tutte con anni di insegnamento alle spalle, che hanno guidato i tre gruppi nelle diverse attività e moderato i loro dibattiti. In questo articolo abbiamo voluto raccogliere le loro voci: impressioni, riflessioni, ostacoli, successi che ci aiutino a vedere, a capire, a ripensare, a fare meglio.

Le docenti Roberta d’Annibale (a sx), Francesca Santi (al centro) e Raffaella Caiazzo (a dx).
«Non è stato un progetto sempre facile da attuare – ci dice la professoressa d’Annibale, al suo ventitreesimo anno d’insegnamento – per molti versi la situazione negli ultimi anni è peggiorata, ragazze e ragazzi sono più problematici e richiedono maggiore attenzione; spesso sono troppo assecondati, li si convince che è tutto dovuto e poi davanti alle barriere non sanno come reagire. Su queste tematiche li ho trovati tutti e tutte molto attenti/e: c’è da parte loro un grande interesse. In alcuni casi il problema viene dalle famiglie, non tutte hanno voluto che i loro figli e le loro figlie partecipassero al progetto».

La professoressa Santi, che insegna dal 2007, conferma: «La difficoltà più grande che ho incontrato sono state le famiglie, soprattutto quelle più conservatrici. C’è chi ha addirittura fatto mandare una diffida perché convinta che stessimo indottrinando in qualche modo ragazzi e ragazze, intimandoci di non parlare più di questi temi a scuola. L’interesse delle classi c’è: ho notato che spesso sono proprio i giovanissimi a riprendere chi tra compagni o compagne mostra atteggiamenti problematici. Ma se poi a casa questi discorsi non si affrontano, c’è ben poco che possiamo fare».
«I ragazzi e le ragazze sono tendenzialmente più aperte dei genitori» aggiunge la professoressa Caiazzo, anche lei insegnante dal 2007. «Spesso le famiglie ci chiedono aiuto per cercare di comprendere meglio figli e figlie, perché a causa dell’uso eccessivo dei social fanno fatica a trovare un punto di contatto con loro. Progetti come questi hanno portato molte famiglie a parlarsi e a ritrovare una relazione più reale, necessaria per affrontare argomenti così delicati».


Le parole delle docenti trovano un riscontro reale nella nostra osservazione dei comportamenti in aula: una volta che si è fatto notare ad alunne e alunni che sono pochissime le strade dedicate alle donne sono stati loro stessi a notare l’assenza di nomi femminili nelle aree dove abitano e anche all’estero, durante le vacanze.
Se venisse data loro occasione di nominare strade tendenzialmente proporrebbero nomi di letterate appena lette, come Agatha Christie, o di figure molto note, come la regina Elisabetta. Ci raccontano che anche le discussioni a casa sono state proficue: si è discusso ad esempio della differenza nella reazione sociale alla perdita del lavoro tra uomo e donna, della divisione del lavoro domestico, del peso delle aspettative. Di propria sponte, poi, hanno parlato anche in classe e con coetanei e coetanee di pregiudizi, facendo caso ai loro e ai propri comportamenti sbagliati.

Molte e molti sono poi certi che le osservazioni nate in questo laboratorio serviranno loro a riconoscere e smascherare anche in futuro gli stereotipi di genere e il modo in cui agiscono nelle scelte proprie e sulle persone che li circondano.

Di recente nel progetto è stata inserita anche la visione di C’è ancora domani, il film che in queste settimane sta riscuotendo un grande successo di critica e di pubblico. Durante il dibattito sull’opera di Paola Cortellesi – con la quale hanno potuto comunicare tramite collegamento dopo la proiezione – è emersa di nuovo una grande sensibilità: hanno saputo individuare chiaramente i temi che la regista intendeva affrontare e il significato delle scene più importanti, condividendo anche storie delle proprie famiglie non molto diverse da quella della protagonista Dora. Dando loro qualche informazione in più sul contesto storico all’interno della pellicola, come l’importanza che ricoprì per molte donne la possibilità di votare per la prima volta, si è registrato un vero e proprio entusiasmo da parte loro.

«Ragazze e ragazzi oggi hanno vedute più ampie. Insegno da molti anni e ho potuto notare che prima il discorso attorno alla famiglia riguardava soltanto “madre” e “padre”, mentre oggi riescono a immaginare una famiglia non tradizionale. Un ruolo rilevante lo hanno giocato la televisione e i social media, che propongono in modo molto naturale le famiglie alternative. Quando poi ne parlano sono liberi di farlo senza trovare impedimenti» dice la professoressa Caiazzo.
«A quest’età è ancora possibile lavorare su di loro e indirizzarli sulla buona strada» dice la professoressa d’Annibale. «L’argomento degli stereotipi interessa sia loro che le famiglie, ma serve una maggiore collaborazione da parte di queste ultime. C’è poi la questione delle differenze culturali che meriterebbe un proprio piano di azione. Di recente, per il minuto di silenzio in memoria di Giulia Cecchettin, un alunno di prima media di origini straniere si è rifiutato di onorarlo perché sentiva il caso più distante rispetto ai recenti eventi in Palestina».
«Bisogna partire dai ragazzi e dalle ragazze, e pensare ad affrontare questi temi in modi per loro comprensibili partendo dalla loro esperienza e cercando poi un significato» aggiunge la professoressa Santi. «Sia i ragazzi che le ragazze sono molto coinvolti. Un gruppo di ragazze, di propria iniziativa, ha chiesto di andare a parlare del tema degli stereotipi anche in altre classi perché hanno la sensazione che siano temi poco trattati, segno che la lezione l’hanno recepita con entusiasmo. Servirebbe portarle a conoscere la realtà del territorio per aiutarle a comprenderle realmente, magari tramite attività di volontariato».

Nella giornata finale del 13 dicembre, poi, alunne e alunni hanno presentato quanto appreso davanti al corpo scolastico e ai genitori: hanno parlato delle discriminazioni di genere e del valore di un adeguato linguaggio, interpretato le scrittrici Agatha Christie, Lella Romano e Virginia Woolf in interviste impossibili, e presentato un video in cui condividono esperienze personali e pensieri su relazioni tra maschi e femmine, educazione sentimentale e intolleranza, dimostrando una grande apertura mentale.

Paola Cortellesi nel suo tour promozionale per C’è ancora domani ha più volte sottolineato la necessità di inserire l’educazione sentimentale all’interno dei programmi scolastici, sostenendo che la scuola è l’unico luogo dove si possa fornire questa educazione in quanto non è certo che in famiglia si affrontino questi temi – e la reticenza di alcuni genitori attorno al progetto della scuola Morandi lo dimostra. Nell’intervista a Vanity Fair dichiara di aver sentito dire da un deputato che “l’idea di insegnare il sesso ai nostri figli di sei anni è “una nefandezza”. E aggiunge: «ho pensato proprio il contrario, l’educazione all’affettività e al rispetto di sé andrebbe iniziata alla scuola dell’infanzia, per proseguire più avanti con l’educazione sessuale, il tema del corpo… È uno scandalo che non sia previsto dal ministero». E ancora: «[…] i ragazzini di oggi sono esposti a una quantità di informazioni esagerata, e quella non è l’età giusta per quei contenuti, ti cambiano i parametri, poi non capisci più niente e succedono anche cose molto gravi, basti leggere la cronaca del “branco” che stupra».

Alla luce degli eventi delle ultime settimane, le parole di Cortellesi hanno risuonato in molte persone, che sui social stanno chiedendo a gran voce una risposta da parte della politica. Risposta che il ministro dell’istruzione Valditara ha dato iniziando a lavorare su una proposta di legge apposita, che prevede un’ora a settimana di “educazione alle relazioni” alle superiori, incontri trimestrali, interventi da parte di personaggi famosi nel mondo dei social media e dello spettacolo, e dibattiti in aula moderati da docenti. Tutto bello, se non fosse per i precedenti: l’affossamento del ddl Zan, in cui erano previste delle norme atte a contrastare la violenza sulle donne, accompagnato da grida di giubilo da parte di persone ora presenti al governo; la vicenda della bambola gonfiabile raffigurante l’ex presidente della camera Laura Boldrini durante un comizio dell’ora vicepresidente Matteo Salvini, fatto per cui non ci sono mai state delle scuse nemmeno formali; e uno dei consulenti nominato da Valditara per il progetto sull’educazione sentimentale, Alessandro Amadori, ci tiene a ribadire nei suoi libri che anche le donne sono cattive, dando manforte a quel movimento #NotAllMen che vuole far sapere che non tutti gli uomini sono violenti soltanto quando una donna viene ammazzata.
Ancora una volta la sensazione è che il governo, sia questo che i precedenti, non vogliano prendere di petto il problema per evitare possibili ripercussioni elettorali, mettendo pezze qua e là sperando che la diga regga. La recente foto della, anzi, del presidente Giorgia Meloni è a tal proposito esaustiva: a suo dire, il fatto che ci siano molte donne all’interno della sua famiglia dimostra che non ha interiorizzato i valori del sistema patriarcale. Un messaggio che punta al suo elettorato conservatore, certo; peccato che Giorgia Meloni sia presidente del Consiglio e quindi rappresenti tutti gli italiani e tutte le italiane. E quando sia da sinistra che da destra ti chiedono risposte concrete davanti a un problema sistemico decidi di rivolgerti soltanto alla tua parte con un mezzo slogan, è evidente che quel problema sistemico non lo vuoi affrontare davvero.
Progetti come “A scuola di parità” sono quindi fondamentali: in assenza di un reale riscontro da parte della politica, scuola e docenti sono le uniche armi di difesa contro la cultura della glorificazione della violenza. Bisogna poi dare più credito alle giovanissime generazioni, che se ricevono giuste nozioni e mezzi sanno rigettare i valori patriarcali e combattere per una società più equa e giusta. Ben vengano questi laboratori, quindi. Sperando che un giorno chi ci governa riesca finalmente a stare al passo col Paese reale.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
