Concludiamo la nostra carrellata di donne straordinarie con una personaggia di modernità sorprendente, Lisistrata, il cui nome significa “colei che scioglie gli eserciti”. Si tratta della protagonista di una commedia di Aristofane rappresentata nel 411 a. C., quando la guerra che dilaniava Sparta e Atene era giunta al ventesimo anno: nome e trama non hanno nulla a che vedere col mito, ma sono pura invenzione del grande poeta comico, contemporaneo e amico di Socrate e di Euripide. Ad Atene, nel V secolo, come quello tragico, anche il teatro comico, nato da un’antichissima tradizione legata ai riti che propiziavano la fertilità della natura e di tutti gli esseri viventi, è luogo di discussione e dibattito politico sui grandi temi d’attualità: la pace e la guerra e le relazioni tra i generi, in particolare. Tra le nove commedie di Aristofane che possiamo ancora leggere, tre sono dedicate all’urgenza di una pace (o almeno di una tregua) che metta fine al conflitto pluridecennale che alla fine del secolo porterà al collasso la democrazia ateniese: una si intitola proprio La Pace e racconta la difficile impresa di liberare la divinità che porta questo nome, sequestrata da Polemos (la guerra); un’altra, Gli Acarnesi, mette in scena un contadino, Diceopoli, il cittadino giusto, che non riuscendo a far prevalere col voto in assemblea la causa della pace, decide di stipularla con la città nemica per conto suo, una pace che valga almeno per la sua famiglia e il suo podere, dove così vivrà nell’abbondanza e nella prosperità. La Lisistrata, infine, rappresentata dieci anni dopo la prima, ha come eroina una donna ateniese determinata a far finire a qualunque costo la stessa interminabile guerra. Per farlo deve convincere le donne delle altre città coinvolte nel conflitto ad allearsi, per imporre agli uomini di deporre le armi e trovare un accordo. In molte, stanche come lei della situazione, accorrono alla sua chiamata, anche se per le donne «non è facile uscire di casa. C’è chi deve occuparsi del marito, chi svegliare lo schiavo, chi mettere a letto il bambino, chi lavarlo, chi dargli da mangiare…» Lisistrata, 16-19. Ma, davanti alla proposta di unirsi in uno sciopero d’eccezione, quello del sesso, tutte si preparano a defilarsi. Trattenerle non è impresa facile, Lisistrata deve far ricorso a tutte le sue arti per respingere le loro obiezioni. Della guerra, tutte lo sanno, il prezzo più gravoso lo pagano le donne, ma tenere a stecchetto gli uomini si ritorcerebbe anche contro il loro stesso piacere e loro non se la sentono di fare questa rinuncia: alle donne si attribuiva una lussuria pari, se non superiore, a quella degli uomini. All’ultima obiezione: «ma se ci picchiano?» la protagonista ammette: «Allora bisognerà cedere, ma di mala grazia; e in queste cose non c’è piacere a farle per forza… Presto si arrenderanno: l’uomo non può godere, se non gode anche la donna.» Ibidem, 162-166. Con arguzia e intelligenza, facendo leva proprio sul desiderio che ognuna ha del marito lontano, Lisistrata riesce a persuaderle una a una e subito dopo si mette a organizzare insieme a loro l’occupazione dell’acropoli, dove è custodito il tesoro della città: perché la guerra si fa per i soldi, lo sanno tutte. E rivendicano il diritto di impadronirsene, perché anche le donne «contribuiscono al tesoro ateniese, mettendo al mondo gli uomini».
Naturalmente gli uomini corrono ai ripari, convinti di riuscire con facilità a liberare l’acropoli e a punire le donne della loro audacia. Ma le cose vanno diversamente perché alle donne non manca né coraggio né forza, quando le muove una buona causa; e gli uomini sono costretti a ripiegare scornati. Famoso è il lungo scambio di battute fra il probulo, ovvero il magistrato che guida il drappello degli uomini e Lisistrata, che capovolge la battuta dell’Iliade, notissima al pubblico ateniese, in cui Ettore ordina alla moglie Andromaca di «tornarsene nelle sue stanze, al fuso e al telaio, perché della guerra si occupano gli uomini». Lisistrata è invece convinta che della guerra devono occuparsi le donne, perché sono loro che ne portano il peso maggiore.
Ed è anche certa che se toccasse alle donne concludere una tregua, loro saprebbero farlo, abituate come sono a “sbrogliare la matassa” ogni volta che le cose s’ingarbugliano, come fanno con la lana… certo, bisognerebbe per prima cosa eliminare tutta la sporcizia, ovvero la corruzione. Nell’agone verbale che la vede tener testa con successo al probulo sconvolto da tanta audacia, risalta il tentativo di quest’ultimo di metterla semplicemente a tacere, ripetendole di stare zitta, senza entrare nel merito della disputa. E Lisistrata riconosce che proprio per la disponibilità delle donne a starsene zitte, anche quando era evidente che le decisioni prese in assemblea dai loro uomini erano sbagliate, le cose sono arrivate a quel punto: «Mi ordinavi: taci! E io tacevo… ora basta, però».
Vale la pena rileggere i passaggi più significativi di questo scontro verbale: «Con quali intenzioni avete sbarrato l’acropoli?» «Per custodire il denaro e impedire che per esso facciate la guerra» «Perché? si fa la guerra per il denaro?» «E tutti gli altri casini pure. In una guerra c’è sempre del torbido, in modo da permettere a chi vuole il potere di rubare […] d’ora in poi il denaro lo amministriamo noi». «Voi?» «Che c’è di strano? non siamo noi ad amministrare il bilancio di famiglia?» «Non è la stessa cosa. Questo denaro serve per fare la guerra». «Ma non c’è nessun bisogno di farla, la guerra» «E come ci salveremo?» «Vi salveremo noi» […] «Ma come vi è saltato in testa di occuparvi della guerra e della pace?» «Stammi a sentire… e cerca di tenere le mani a posto […] All’inizio della guerra, abbiamo sopportato, per nostra moderazione, tutto quello che facevate voi uomini: non ci lasciavate aprir bocca, anche se il vostro comportamento non ci piaceva per niente. Stavamo bene attente e, benché chiuse in casa, venivamo a sapere che avevate preso decisioni sbagliate su questioni importanti. Allora, piangendo dentro di noi, vi sorridevamo chiedendo: “che cosa è stato deciso oggi in assemblea sulle condizioni per la pace?” E l’uomo rispondeva: “che hai a che fare tu con questo? quando impari a stare zitta?” E io tacevo… stavo zitta e rimanevo a casa. Ma poi venivamo a sapere di un’altra decisone ancora peggiore e chiedevamo: “perché vi siete comportati così stupidamente?”. E lui, guardandomi storto, mi ordinava di badare a tessere, altrimenti mi avrebbe fatto venire un brutto mal di testa. E chiudeva il discorso: “la guerra è affare da uomini”; eppure vi abbiamo sentito dire: “non c’è più un vero uomo, in questo paese”. E allora noi donne, una buona volta, abbiamo deciso tutte insieme di salvare la Grecia. Dovevamo ancora aspettare? Se volete stare a sentire le cose ragionevoli che abbiamo da dire e a vostra volta ve ne state zitti, come stavamo noi, vi rimetteremo sulla strada giusta». «Voi… a noi? Dici assurdità e non ti sopporto» «Sta zitto!» «Io zitto? di fronte a te, disgraziata, che porti il velo in testa? nemmeno morto!» «E allora prendi il mio velo, mettitelo in testa e sta zitto! poi prendi anche il canestro e carda la lana: la guerra è affare da donne!» Ibidem, 487-538.
A un certo punto, tuttavia, sembra che il piano di Lisistrata stia per fallire: le donne non ce la fanno più a tener duro negandosi agli uomini e cercano mille scuse per sfuggire all’impegno preso; ma Lisistrata le smaschera e le riconduce all’ordine, anzi le istruisce in modo che siano loro stesse a eccitare i rispettivi mariti e a illuderli di essere pronte a concedersi, solo per deluderli sul più bello. Per porre termine a quella tortura Ateniesi e Spartani siederanno finalmente al tavolo delle trattative.
La questione dei ruoli e della divisione dei compiti tra uomini e donne è esplicitamente trattata e messa in discussione, anche se nelle forme paradossali tipiche del genere, in altre due commedie di Aristofane: Le donne alla festa di Demetra e Le donne in assemblea. Nella seconda, soprattutto, s’immagina un mondo alla rovescia, in cui siano le donne a prendere le decisioni in assemblea: l’ultima spiaggia, visto che di “veri uomini” in giro non ce ne sono più. E le donne operano una rivoluzione, realizzando una sorta di regime egualitario, in cui ogni cosa sia messa in comune, donne e figli compresi; e, naturalmente sesso garantito per tutte, comprese le vecchie e le brutte… non è che Aristofane si preoccupasse di ciò che noi oggi consideriamo politicamente corretto.
Ma con questa commedia siamo ormai in pieno IV secolo: la grande stagione della democrazia ateniese, animata da un dibattitto politico e filosofico a tutto campo, capace di porre sul tappeto in termini chiari tutte le questioni fondamentali con cui ogni generazione si trova a fare i conti, si è conclusa; Socrate, accusato di corrompere i giovani con il suo insegnamento, è stato condannato a morte e la città che si era orgogliosamente proclamata “scuola dell’Ellade” cadrà a breve nell’area di influenza del regno di Macedonia.
Più o meno verso la metà del IV secolo, Aristotele si premurerà di dare basi scientifiche alla teoria della naturale inferiorità delle donne e degli schiavi, cancellando con un colpo di spugna la consapevolezza dei pensatori del secolo precedente che, pur senza metterla mai in discussione sul piano pratico, l’avevano riconosciuta come frutto di condizioni storiche e contingenti.
Da Aristotele fino al mondo moderno c’è una sostanziale continuità nella considerazione del posto che le donne devono occupare nella società, con un’insistenza davvero particolare sull’obbligo di tacere.
Per ultima mi piace ricordare, la giovane Euridice che sul finire del I secolo d. C., si prepara a sposare Polliano discepolo di Plutarco filosofo e biografo che conosciamo per le Vite parallele, in cui mette a confronto i grandi del mondo greco e di quello romano. Come dono di nozze Plutarco compone e offre agli sposi un piccolo libro, una sorta di vademecum per la riuscita del matrimonio: i Precetti Coniugali.
Tra i tanti consigli dispensati all’uno o all’altra, utili a creare nella coppia l’armonia necessaria e a mantenerne salda nel tempo l’unità, spicca quello rivolto a lei di tenere la bocca chiusa: «Teano [moglie di Pitagora], avvolgendosi nel mantello, lasciò intravvedere un braccio. Ma quando un tale osò lodarne la bellezza, lei fu pronta a ribattere: “Non è esposto al pubblico”. Ma è necessario che una donna virtuosa non esponga al pubblico non solo il braccio, ma neppure le parole; e che si vergogni di far sentire a estranei la sua voce come di uno spogliarello e se ne astenga assolutamente. Infatti quando parla si possono vedere di lei i sentimenti, il carattere e lo stato d’animo. Fidia scolpì per gli abitanti di Elea una statua di Afrodite che poggiava il piede su una tartaruga, volendo significare che le donne devono stare a casa e tacere. Infatti una donna deve parlare o con il marito o attraverso il marito, senza aversene a male, riconoscendo che, come un flautista, emette suoni più nobili usando una lingua non sua» Precetti coniugali, 31-32.
In copertina: illustrazione di Aubrey Beardsley, Lysistrata parla alle ateniesi.
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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.
