Il linguaggio ci avvelena solo se glielo consentiamo

In Italia negli ultimi anni si è registrata una diminuzione di tutti i reati. Aumentano solo i crimini contro le donne. Questo è il dato diffuso dal Viminale ed è clamoroso. Ogni tre giorni circa una donna viene uccisa da un uomo 
«Non tutti gli uomini sono violenti» è il mantra di risposta: ovvio, se no saremmo tutte morte. 

Nel 2022, secondo il Ministero della salute, gli accessi al pronto soccorso di vittime di violenza maschile sono stati 14.448. Un’indagine del 2016 condotta dall’Agenzia europea dei diritti fondamentali rivelava che solo il 14% delle donne denuncia abusi di genere alle autorità. Da allora la percentuale è salita di poco. 
È elevata, secondo l’Istat, la quota di quante non parlano con nessuno della violenza subìta, non cercano aiuto; ancora pochissime sono le donne che si rivolgono a un centro antiviolenza o in generale un servizio specializzato (rispettivamente il 3,7% nel caso di violenze nella coppia e l’1% per quelle al di fuori). 
Eppure 6 milioni 788mila donne italiane tra i 16 e i 70 anni hanno subìto nella propria vita una forma di violenza fisica o sessuale. 652mila sono state stuprate. Gli stupri sono commessi in oltre tre quarti dei casi da persone con cui la vittima ha una relazione affettiva o amicale, nel 62,7% dei casi da partner (attuali o precedenti). 

Alcune donne vengono cancellate un po’ alla volta, altre di colpo, ma il contesto è lo stesso. Anche nei casi di femminicidio 8 donne su 10 conoscevano il proprio assassino. Il 43,9% delle volte si tratta del compagno: per il 35,8% quello attuale, per l’8,1% l’ex. Fra le donne la probabilità di essere uccise dal partner o dall’ex è cinque volte più alta che fra gli uomini (dati del Ministero degli interni). 
Subiscono violenza le donne ricche e quelle povere, quelle belle e quelle brutte, quelle scollate e quelle in burka, quelle che escono la sera e quelle che stanno in casa, quelle che hanno un lavoro e le inoccupate, quelle che hanno studiato e le semianalfabete, quelle che hanno figli e quelle che non ne hanno, le single e le sposate, le giovani e le anziane, le prostitute come le avvocate, quelle che rimangono con l’uomo violento e quelle che lo hanno lasciato, quelle che denunciano e denunciano più volte come quelle che non lo fanno… La violenza non si ferma nemmeno davanti alla disabilità, o alla povertà e alla disperazione di quelle che hanno perso casa e lavoro e vivono su un marciapiede, dimenticate dal mondo. 
Lo status di vittima non dipende da ciò che sei o da ciò che fai, ma da ciò che ti viene fatto. 

Dati sufficienti per parlarne? 
Il Censis nel dicembre 2019 registrava le percezioni degli italiani. Soltanto il 73,2% è convinto che la violenza sulle donne sia un problema reale della nostra società; il 23,3% ritiene che riguardi solo una piccola minoranza, emarginata dal punto di vista economico e sociale. Eppure i dati dimostrano che non esiste il profilo dello stupratore perché fra coloro che lo commettono c’è di tutto, dallo spacciatore di borgata al ragazzo “di buona famiglia”, dall’acclamato regista al calciatore, dal militare allo stimato professionista. Ben pochi crimini sono così costantemente praticati senza distinzione di luogo, cultura, colore di pelle, religione, classe, età, professione.  
Ben pochi criminali però han goduto di tanto implicito supporto sociale.  
Il 39,3% della popolazione italiana (dato Istat 2023) ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Più della metà attribuisce la recrudescenza della violenza all’emancipazione femminile. Il 10,2% degli intervistati, soprattutto giovani, ritiene giusto che un uomo eserciti controllo sulla compagna. 
Tra i maschi italiani intervistati in Rosa Shocking (We World, 2015: secondo “Rapporto sulla violenza sulle donne e gli stereotipi di genere”) 1 su 5 considera accettabile la denigrazione di una donna tramite sfottò a sfondo sessuale. Il quadro è ancor più preoccupante se si guarda alle opinioni espresse dalle giovani generazioni: il 16% dei giovani intervistati pensa che la violenza domestica sia spesso dovuta al fatto che le donne siano esasperanti, il 19% ritiene che se un uomo viene tradito è normale che si arrabbi a tal punto da diventare violento, il 25% è convinto che gli abiti succinti provochino le violenze. 

Non tutti gli uomini sono violenti ma la stragrande maggioranza dei violenti sono uomini. Domandando ‘perché?’ non rivolgiamo accuse ai singoli maschi ma al sistema simbolico che costruisce tutti e tutte, alle sue implicazioni violente. Non ci rivolgiamo ai maschi perché vogliono farlo ma perché possono farlo. Perché non si sono mai domandati cosa rende possibile sentirsi padroni del corpo, della volontà, della dignità di un’altra persona. 
Non si tratta solo di non picchiare e non stuprare. La cultura machista che alimenta e sostiene la violenza contro le donne è fatta anche di tutta una lunga serie di doppi sensi, risate, scherzi, commenti pesanti, luoghi comuni pruriginosi che affollano le conversazioni. 

Esiste una sottovalutazione sociale dei passaggi che precedono l’approdo alla violenza: si tollerano forme di sessismo definite scherzo, le si definisce “felice provocazione”, si simpatizza con varie forme di disprezzo e di volgarità che costituiscono un terreno di coltura già prodromo di violenza. La rete ne trabocca, i social pullulano di siti “divertenti” che in realtà sono spesso istigazione a delinquere.  

Nominare e denunciare la cultura dello stupro è stata una delle azioni femministe più importanti degli ultimi tempi ma anche una delle più discusse e fraintese. Non è un’accusa, è una sfida. Basta non aver mai alzato un dito su una donna per ritenersi estranei a quella cultura? 
La locuzione non descrive necessariamente una società dove lo stupro è la routine, anche se è incredibilmente diffuso. Descrive il processo per cui lo stupro e le molestie sessuali vengono banalizzati e giustificati: fa parte della rape culture scherzarci su, darsi le pacche sulle spalle tra maschi con malcelati, solidali «vabbè, sorridi, era un gioco», «ma dài, sono solo ragazzate!». In una cultura dello stupro le donne conoscono per esperienza diretta un continuum di esposizione a una violenza minacciata che si prepara con i commenti più volgari, passa per le molestie fisiche per arrivare — nei casi più drammatici — fino allo stupro stesso. 

Come si legittima un abuso? Normalizzandolo («Che ci vuoi fare, gli uomini sono così per natura») oppure mistificandone le cause (citando ad esempio come radice della violenza il testosterone anziché il desiderio di potere). Se ne cancellano i segnali sminuendolo («Non si può più dire niente!»), oppure ribaltando il tavolo («E fattela, una risata!»). Così si crea disimpegno sociale, politico, morale. 
Tempi passati? Quando si analizza il campo semantico utilizzato nella quotidianità sembra difficile immaginare che la presunta riappropriazione dei codici sessuali in un’era di abolizione dei tabù sia al servizio della parità. 
Il lessico maschile è ancora selezionato entro repertori di aggressività, di caccia, di vittoria, di possesso (la faccio mia, fino a la monto — la chiavo — la cavalco — la perforo — la fotto — la ingroppo — la trombo — la spacco — la sfondo — la distruggo — la castigo — la metto a 90 gradi — glielo ficco di qua e di là…). 

Se è possibile esprimersi così senza provare il minimo imbarazzo, anzi ottenendo commenti di approvazione e condivisione da altri utenti dei social, significa che il livello di coscienza collettiva è pericolosamente basso, nonostante sporadiche impennate legate a particolari casi di cronaca. La frequente esposizione alla violenza produce un adattamento emotivo: diventa qualcosa di abituale, di normale. 
Se addirittura la prospettiva si ribalta e un fatto terribile diventa occasione di scherzo o di battuta, le domande si fanno necessarie. Ogni settimana ci mostra degli esempi di goliardia buzzurra non ristretti all’ambito dei bar o degli spogliatoi ma offerti a un pubblico molto ampio (senza parlare dei fuori onda). 
La chiamano “libertà d’espressione”, o “ironia”. È solo trucida incontinenza verbale, borborigmo di pancia. 
Accade in diretta tv il 19 dicembre a “È quasi mezzogiorno”, popolare trasmissione Rai condotta da Antonella Clerici. Protagonista è lo chef Sergio Barzetti. 
«Quando cucini in casa accanto a una donna, tieni un bicchiere a fianco e poi vai a fare una cosa importante: stordisci la preda». Risate (ma che cosa c’è da ridere?). Come se non bastasse, lo chef decide di raccontare il primo incontro con la moglie e se possibile peggiora le cose: «Quando la pasturavo eravamo a un corso di cucina». Il verbo scelto la dice lunga: la donna diventa oggetto di un’azione che, letteralmente, significa condurre al pascolo. 

Dietro ogni frase c’è un pezzo di storia della società che la produce. 
Perché contro le donne la battuta ammiccante è sempre pronta? In questo modo si (ri)mettono al posto più basso della catena di potere, si ribadisce che, anche se la modernità talvolta si deve piegare ad annetterle in luoghi diversi dalla cucina e dalla camera da letto, lì dovrebbero stare, come pretendono millenni di cultura patriarcale. Il ripristino di maschere sessuali tradizionali — uomini potenti, donne docili, l’età d’oro perduta — serve anche a placare l’ansia dovuta alla temuta sparizione dei ruoli tradizionali. 
Persa la vecchia architettura della mascolinità molti non sono capaci di rimpiazzarla con niente di nuovo: la resistenza al cambiamento è atavica, difficile da abbattere; occorre destrutturare gli schemi cognitivi precedenti per costruirne di nuovi. Tutta la comunità deve cimentarsi con questa impresa. 

La cultura dello stupro non finirà quando finiranno le frasi ignobili pronunciate per ottenere consenso ma quando il pubblico le fischierà anziché ridacchiare, quando conduttori e conduttrici risponderanno «ma non si vergogna?» anziché «non è carino», quando le emittenti smetteranno di invitare certi personaggi e noi di guardare certi programmi. 
Cambiare il modo consueto in cui si parla di donne è un problema di tutti e di tutte poiché si tratta di complicità silenziosa. L’inglese ha un termine per definire chi assiste a comportamenti discriminatori e se ne chiama fuori: bystander. Al prossimo commento greve, al prossimo insulto sessista, al prossimo atto di violenza non solo fisica ma simbolica sottraete attivamente il vostro consenso. 
Urlate, se necessario: IO NON CI STO. 

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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.

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