Irma Cozzi Braida. La profuga di Caporetto

Durante la Prima guerra mondiale, dopo la disfatta di Caporetto, centinaia di migliaia di civili, con l’avanzata delle truppe austro-tedesche nei territori del Veneto e del Friuli, intrapresero un viaggio verso la “Bassa Italia”. Un evento drammatico sommariamente passato alla Storia con la denominazione “I profughi di Caporetto”. Una sorta di odissea in cui circa cinquecentomila persone dovettero allontanarsi dai loro territori. 
Questa la descrizione di un soldato italiano che si trovava nella località di Cervignano il 27 Ottobre del 1917: «Fiumane di donne, vecchi e bambini ci seguono e si confondono tra le nostre fila. Il loro cuore non ha palpiti che di dolore, la bocca non ha più sorrisi, l’occhio attonito non ha sguardo». 

Da un incontro casuale siamo venuti a conoscenza dell’esistenza di un prezioso diario che annota quei terribili giorni: è il diario di Irma Cozzi Braida (detta Rina).  

La giovane Irma

Quelle pagine ingiallite costituiscono una preziosa fonte di conoscenza storica, che i nipoti e le nipoti di Irma hanno custodito, insieme alle memorie orali, per tramandarle ai posteri. Il lavoro di trascrizione è stato effettuato dal nipote Valter De Michiel coadiuvato dalla sorella Lara. È questa una storia nella grande Storia vista con gli occhi di una ragazzina che, pur nello sgomento, riesce lucidamente a tracciare un quadro preciso di quella situazione descrivendo luoghi, eventi ed emozioni. 

Irma era nata a Paludea, una frazione di Castelnuovo del Friuli il 28 gennaio del 1904 da papà Vincenzo, che era un commerciante, e mamma Giuseppina, casalinga, che avevano lo stesso cognome pur non essendo parenti. Era la quindicesima di sedici tra figli e figlie. 
Irma era una bambina curiosa: le piaceva studiare e frequentò fino alla sesta classe. In seguito, grazie al sostegno economico di un fratello, studiò privatamente sostenendo gli esami fino al Terzo Ginnasio. Con l’avvento del conflitto mondiale fu costretta a trasferirsi insieme alla famiglia a Piedimonte d’Alife, oggi Piedimonte Matese, in provincia di Caserta. Quel viaggio, con le sue peripezie, viene raccontato, con dovizia di dettagli, nel suo diario. 

Immagini di Irma e del suo diario, concesse dal nipote

La sua vita da profuga durò circa un anno e poi ritornò a Paludea dove nel 1930 si sposò con Vittorio Braida, impiegato civile al Ministero della Difesa. Un rapporto coniugale che durò fino al 1976, anno in cui restò vedova. Fu madre di sette tra figli e figlie e contribuiva all’economia familiare facendo la magliaia. 

Irma, per tutta la vita, con grande sensibilità, era sempre presente se qualcuno o qualcuna aveva bisogno d’aiuto o di conforto: si improvvisava infermiera, leggeva e scriveva lettere per chi era analfabeta. Ricoprì anche il ruolo di Segretaria del Gruppo donne dell’Azione cattolica di Paludea. Nei ritagli di tempo leggeva libri, riviste e nutriva una passione per la storia contemporanea
Rimane di lei il ricordo di quando declamava a memoria versi di Dante, Manzoni, Tasso e Pascoli e dei riassunti dei viaggi di Amerigo Vespucci, che lei elaborava e raccontava. Appassionata di scrittura annotava tutto nei suoi diari. Scoprì anche di avere una vena poetica in lingua friulana e in punto di morte dettò i suoi ultimi versi alla figlia. 
Nel diario che riporta la sua condizione di profuga, descrive gli ultimi giorni del mese di ottobre 1917: «… la gente mormorava che dovevano venire molti militari a Paludea e nei dintorni… verso il 27 si sentì che gli Austriaci erano entrati in Udine e continuavano ad avanzare verso il nostro paese. Tutti eravamo impensieriti perché tutti i sacrifici dei nostri poveri Soldati erano stati inutili. Ogni giorno si sentivano delle brutte novità e il lunedì incominciarono a giungere molti militari anche a Paludea per trincerarsi sul Tagliamento. Il papà e Marietta dovettero andare a Spilimbergo per affari importanti…». Irma descrive il viaggio dei suoi familiari, a lei solamente raccontato, nelle pagine successive. Un viaggio irto di difficoltà e denso di apprensione e angoscia. Dalle sue parole minutamente vergate pare quasi di vedere quella moltitudine di cavalli e soldati, di carri e autocarri, di biciclette e persone a piedi. Racconta anche di un incidente a «un militare disgraziato» che finì la sua vita stritolato sotto un autocarro. Il padre e la sorella erano straziati nel cuore e quando arrivarono a destinazione, videro i negozianti che chiudevano le loro botteghe, la gente che caricava la propria misera roba per fuggire, mentre ben 15 aeroplani nemici passavano sulle loro teste e li bombardarono… «intanto velivoli italiani erano corsi in difesa… fecero una grande lotta e poi scomparvero fra le nuvole come uccellacci». 

I suoi congiunti riuscirono fra mille peripezie a tornare indietro e raccontarono così i fatti che Irma appuntò sul suo diario. Continuò poi a scrivere di quello che lei stessa vedeva: «Un incessante passaggio di truppe… in quei giorni pioveva senza sosta e ciò rendeva ancora più faticosa e dolorosa la marcia ai poveri soldati… erano senza pane né nulla da sfamarsi e potete immaginare come si soffriva nel vederli uno dietro l’altro entrare in casa e dire “per carità mi sfami con un tozzo di pane”… oltre a questo era continuamente il passaggio dei borghesi della Carnia che a vederli era un vero dolore. Tutti laceri sotto la continua pioggia e non s’udiva che piangere e gridare… chi aveva perduto i bambini, chi i genitori… ad una povera donna le morì il bambino in braccio…». 
Irma racconta che spesso accoglievano profughi e militari feriti e li stendevano sui loro letti sperando che altra gente, in altri posti si comportasse allo stesso modo con i loro cari che probabilmente si trovavano nella stessa situazione. «I militari e i borghesi fuggiti dalla Carnia erano così tanti che ormai non si riusciva più né a riposare né a dormire un po’». 
Giunse notizia che una donna impazzita per il dolore si era suicidata gettandosi in un torrente. Irma e i suoi familiari aiutavano incessantemente con lo strazio nel cuore perché non avevano alcuna notizia del loro congiunto Vittorio. 

Il 3 novembre ricominciarono i bombardamenti e furono così violenti che tutti dovettero rifugiarsi nella cosiddetta “Buca del Cret” (una località di Castelnuovo del Friuli). «Mentre si era lì rannicchiata tutta la gente del paese riparandosi alla meglio, uno sopra l’altro, dove si credeva di essere più in salvo, si sentiva continuamente i pianti dei bambini e urli delle madri che vedevano qualche granata cadere vicino casa sua, mentre l’altra già fischiava sopra di noi. E là, tutti tremanti con le mani in atto di preghiera verso il buon Dio s’aspettava solo che la morte, e siamo stati fino al pomeriggio che le granate ebbero un po’ di sosta. Poi siamo ritornati nelle nostre abitazioni tanto che abbiamo visto che i nostri militari avevano saccheggiato tutto e s’erano impadroniti di tutta la casa… dalla stanza, dalla cucina, cantina era un finimondo, i recipienti del vino erano vuoti fra bevuto e rovesciato… in cucina, tazze, piatti, chincaglie erano sparpagliate… la nostra vetrina che gelosamente si conservava era totalmente vuota». 
La famiglia decise così di dare un addio alla cara casa e ai luoghi. «Appena fatto cento passi dalla nostra abitazione ci voltammo ancora una volta per dare un ultimo sguardo al paese natio». Subito dopo sentirono il fischio di una granata, corsero per mettersi in salvo e mentre correvano videro che a un soldato il colpo gli aveva mozzato la testa. Questo sarà il primo dei tanti orrori che incontreranno nella loro fuga. «Mentre la nostra cavalleria con tutta velocità si ritirava, con l’anima straziata e pieni di spavento ci siamo messi in cammino per Montereale». 

Più avanzavano, più le file dei profughi s’ingrossavano e alla guida di quel drappello c’era il parroco del paese. Arrivati a Meduno, dopo una marcia di quindici chilometri, si sedettero in prossimità del Ponte del Piave ma furono subito avvisati che da lì non poteva passare alcun borghese. «S’era in una profonda disperazione nel dover rimanere lì sotto i tedeschi». Riuscirono, tramite un altro percorso, ad arrivare ad Aviano e poi a Conegliano dove il Capitano dei Bersaglieri consigliò loro di cercare di arrivare a Bologna passando per Treviso, Padova e Rovigo. 
Così fecero e mentre macinavano chilometri di strada, vedevano i militari minare i ponti, tanti carri abbandonati nel fango e alcuni cavalli morti nei fossati. Un viaggio terribile: «Le strade erano tutte inghiacciate e camminando scricchiolavano come il cristallo». 
Leggendo questo passaggio nasce spontanea una considerazione: pur nell’orrore, la penna di Irma trova una delicatezza che appartiene alla poesia. Arrivati a Bologna pensavano che il loro peregrinare fosse arrivato alla fine ma in città non c’erano più alloggi. Dopo l’iniziale sconforto decisero di prendere il treno verso Sud… man mano che si allontanavano dalla città, come per incanto, il paesaggio era mutato. «Si rimaneva meravigliati nel vedere le splendide campagne quasi verdeggianti come da noi in primavera, e più s’andava avanti più bello ci sembrava». 

E così attraversarono Devignano, Castel San Pietro, Primola, Castel Bologna, Rimini, Pesaro, Falconara, Loreto fino a Civitanova, mentre Irma appuntava con meticolosità nel suo diario i luoghi attraversati. A Civitanova cambiarono treno e proseguirono il viaggio: Foggia, Benevento, Pescara, Caserta e finalmente Napoli. Nella città partenopea arrivarono insieme a loro migliaia di profughi. C’era un servizio di assistenza a loro dedicato e riuscirono anche ad avere una porzione di rancio. 
La confusione regnava sovrana: «Una buona signora s’avvicinò a noi e ci condusse al padiglione F e ci assegnò due materassi a terra ch’era il nostro letto». Dopo un paio di giorni riuscirono a ripartire e a giungere a Piedimonte d’Alife.  

Lì si ricongiunsero con altri familiari abbracciandosi e piangendo di gioia. Ma la nostalgia dei luoghi natii era sempre in agguato: «Ora ci troviamo qui lontani dalla nostra bella alta Italia, ove il pensiero ci porta sempre colà, dove abbiamo lasciato le nostre terre, le nostre case, i nostri cari amici che sono costretti a stare sotto il barbaro nemico e chissà quanto soffrono! Ma il più grande dei nostri dolori è il pensiero dei nostri cari combattenti lontani e in continuo pericolo e privi delle notizie del nostro caro Vittorio». 
Irma non sapeva ancora, mentre scriveva, che il fratello, sergente degli alpini, era caduto in battaglia sul monte Pala. Così leggiamo nell’ultima pagina: «Siamo profughi, esuli, morti vaganti qua e là come servi cacciati a lavorare sopra campi non nostri, senza tetto certo, senza Patria sulla stessa terra della Patria». Parole che maledettamente ancora oggi risultano attuali per i tanti profughi che si aggirano disperati in tanti “pezzetti” del nostro Pianeta troppo spesso invaso da odio e guerre, nonostante un formale “progresso” rispetto a più di cento anni fa. 

In copertina: donne e bambine in fuga dai territori occupati dagli austriaci dopo la disfatta di Caporetto, novembre 1917.

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Articolo di Ester Rizzo

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Giornalista, laureata in Giurisprudenza, è docente al CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti) nel corso di Letteratura al femminile. Collabora con varie testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzoLe Ricamatrici, Donne disobbedienti Il labirinto delle perdute.

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