Editoriale. La storia siamo noi

Carissime lettrici e carissimi lettori,
ce l’ho qui davanti a me. Con la sua copertina antica. Con la frase che mise paura all’editore, che pure era notissimo, intoccabile per titoli e prestigio di nomi di autrici e autori. È come se fosse anche un po’ più mio, perché i luoghi sono quelli della mia infanzia, sentiti e vissuti, i luoghi di Ida Ramundo, la protagonista de La Storia che Elsa Morante scrisse in poco più di tre anni, tra il 1971 e il 1974, e che ebbe subito due edizioni, praticamente a distanza di pochi mesi. Un romanzo storico (dal 1941 al 1947) e dibattutissimo sin dalla sua uscita, contestato e adorato, paragonato dalla critica anche ai Promessi Sposi per il racconto di un’epoca, di un popolo sopraffatto dalla guerra invece che dalla peste. Oggi La Storia compie cinquanta anni esatti perché uscì proprio a gennaio, nella collana degli Struzzi, voluto in edizione economica fortemente dalla stessa autrice che affermava di averlo scritto per renderlo leggibile e fruibile a chiunque. Persino agli analfabeti. A mo’ di dedica si trova infatti una citazione del poeta peruviano César Vallejo: «Por el analfabeto a quien escribo», «All’analfabeta per cui scrivo».
Mezzo secolo portato bene e coincidente con la messa in onda di uno sceneggiato (il primo fu girato da Comencini nel 1986) tratto dal libro e in onda, in quattro doppie puntate, su Rai 1. A dirigerlo e a scriverlo una équipe quasi tutta al femminile: dalla regista, Francesca Archibugi, alle sceneggiatrici Giulia Calenda e Ilaria Macchia, alle quali si aggiunge Francesco Piccolo.

Uno scandalo che dura da diecimila anni. Morante vuole ricordare la guerra, la violenza, le donne e i bambini e bambine vittime degli eventi. La frase, voluta con forza dall’autrice, è presto fatta scomparire dall’editore che sceglie lo stesso destino per la fotografia soprastante (tratta da un’opera di Rober Capa riguardante la guerra spagnola). Sul rosso-nero delle macerie, segno di lutto e sangue, si vede, riverso sulle macerie e ormai morto, un bambino: sarà sicuramente un rimando a Useppe, il co-protagonista del romanzo che con la sua minuscola storia ha contribuito, attraverso il suo corpicino malato, a scrivere la Storia del mondo di questo “secolo breve” appena trascorso. O forse quel bambino o quella bambina riversa sulle macerie è uno dei tanti Mohammed o Laila, David o Sara, Vladimir o Galia, morti ammazzati dalle loro guerre, tra i territori del mondo per volontà dei potenti della Terra. Vittime innocenti di chi, inconsapevole, ha “scritto” quella Storia macchiata dalla vergogna millenaria fatta scomparire subito dal frontespizio del romanzo di Elsa Morante.
La Storia fatta di macerie e scritta davvero dai potenti, dalle ideologie forti che hanno voluto e deciso queste situazioni cruente è la Storia raccontata dal romanzo di Morante che avverte di non ripetere più quegli errori.

Invece la cronaca di questi giorni ci dice che può succedere ancora. Che bisognerebbe non abbassare la guardia e non correre oltre, mai fermarsi a guardare gli avvenimenti con leggerezza eccessiva, non scorgendo i pericoli imminenti. Questo è accaduto ad Acca Larentia, a Roma, si è ripetuto a Centocelle ed è diventato subito fatto di cronaca.

Le morti, è bene ribadirlo, sono tutte uguali e tutte tragiche se causate da altri uomini e donne, per odio di parte, di qualsiasi ideologia. Ma non possiamo accettare, e dobbiamo biasimare chi inneggia, appoggiandosi, e quindi “usando” quelle morti, a idee e simboli condannati dalla stessa Costituzione. Questo è avvenuto ad Acca Larentia qualche giorno fa. Si commemorava l’anniversario della strage e dell’uccisione, il 7 gennaio 1978, di tre giovani: Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni. Tra corone di alloro e ricordo istituzionale si è aggiunto anche il grido, il richiamo nella presenza di file di persone tra le quali, in molti, hanno levato il braccio in segno di un saluto che credevamo confinato al passato, seppure tanti episodi simili si siano ripetuti recentemente.
Le istituzioni hanno minimizzato o taciuto. In proposito invece è intervenuta Dacia Maraini: «Cosa diceva Hitler? Cosa predicavano il fascismo e il nazismo? — si è chiesta l’autrice di Vita mia, autobiografia dove racconta anche la permanenza sua e della sua famiglia in un lager giapponese —. Dicevano che c’era una razza superiore che aveva il diritto sulle razze inferiori. Ricordiamoci questo. Ricordiamoci che il fascismo ha praticato il razzismo perché, anche se non ha avuto campi di sterminio in casa, però ha mandato con treni tantissime persone in Polonia e in Germania a essere gassate a essere uccise soltanto perché appartenevano a quello che loro dicevano una razza inferiore. Ecco — osserva Maraini — tutte queste cose si dovrebbero insegnare meglio a scuola. Secondo me l’insegnamento della scuola è molto deficiente su questo tema. Manca moltissimo il racconto di quello che è successo in Italia nell’ultima guerra. I programmi scolastici si fermano prima. Forse si arriva alla prima guerra mondiale. A scuola non si impara che cosa è stato davvero il fascismo, la distruzione, il dolore, il male. Mi sembra non si voglia chiudere i rapporti con quel passato. Appena possibile si tirano fuori dei momenti in cui ricordano o comunque si inneggia a quel momento storico. È proprio qui che manca la conoscenza perché io non credo che una persona con un minimo di intelligenza e di amore per il suo paese possa sinceramente essere fascista. Penso che in una democrazia debba esserci sia una destra che una sinistra. Assolutamente, sì. Però in casi come quelli accaduti nell’anniversario di Acca Larentia chi governa deve prendere le distanze. Bisogna chiarire che le braccia tese, ed episodi simili, devono essere dichiarati apertamente come manifestazioni disgustose che ricordano delle cose terribili che sono accadute, che hanno portato il paese alla rovina». Intanto ancora saluti romani. Non finisce. Si sono ripetuti, martedì scorso, per le strade di Roma in occasione del Derby che si giocava all’Olimpico e c’è stato anche un ferito grave. Segnando macchie nello sport.

Sulla scia di notizie simili a quelle accadute a Roma arriva un’altra notizia da Milano. In effetti ha toccato un po’ tutto il territorio lombardo spaziando dal capoluogo regionale alle città limitrofe come Monza, Bergamo, Pavia fino al Comasco, Lomazzo, Rovello Porro e Cirimido secondo la notizia riportata dall’edizione locale di un quotidiano a tiratura nazionale. Volantini firmati dal movimento Evita Peròn (costola femminile di Forza Nuova) inneggiano al patriarcato per (udite udite!) “boicottare il femminismo” su pensiline dell’autobus, sui muri, sulle fiancate degli autobus e persino, a sfida, vicino alle sedi del Pd e dell’Anpi. Insomma, si vivrebbe meglio, dicono, se la donna ritornasse nei… ranghi e si facesse proteggere tra le mura domestiche! I maschi dovrebbero riprendere la loro forza virile, e non mostrarsi come «omuncoli deboli, incerti, dai tratti spesso effeminati». Una società da… rieducare (si organizzano centri estivi con la dichiarata intenzione di insegnare alle giovani leve i valori tradizionali!) e si guarda molto, ma molto indietro. Anche qui è chiara e netta la scelta ideologica come quella a cui rimandava la maglietta indossata, non a caso a Predappio, da una certa Selene Ticci che dice basta «agli stupri e all’immigrazione» (non a caso qui strettamente legati) che nel 2018 aveva la scritta Auschwitzland. Altro che saluto romano!

L’Enciclopedia Treccani, invece, stila una sorta di vocabolario maschilista così da identificare “parole moleste” da evitare. Beatrice Cristalli, consulente in editoria scolastica, formatrice e linguista, elenca le espressioni tipiche di un linguaggio stereotipato e non favorevole alla valorizzazione e al rispetto delle donne. Da «Se l’è cercata» a «Una donna con le palle» fino al suo opposto: «Non fare la femminuccia» che è usata per svilire il valore di una persona. Si passa al «Tu non sei» dove la pratica linguistica del «tu sei» e «tu non sei» rientra in un meccanismo tanto standardizzato delle dinamiche di genere, cioè propensione a «spiegare le cose», che sottintende che chi agisce con queste espressioni sulla realtà sta spiegando qual è la verità, magari anche molto privata e intima, a chi non sarebbe dotato di strumenti validi di comprensione». Poi espressioni sarcastiche come «Maestrina», o «Hai il ciclo?» non tralasciando «mammo» per un padre che accudisce figli/e e «Guidi bene per essere una donna» non tralasciando l’eterna e noiosa espressione secondo la quale: «Dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna»

Ma pensiamo alla poesia. Tra i poeti le cui parole, voce e musica hanno riempito il nostro spirito e hanno curato, come qui amiamo dire, le nostre umane ferite, sicuramente c’è Fabrizio De André, il Faber, come lo aveva appellato affettuosamente il suo amico e conterraneo Paolo Villaggio. Ci ha lasciati, spiazzandoci, l’11 gennaio di venticinque anni fa. Se ne andava a Milano, schiacciato dalla malattia, mentre vivacemente pensava alla creazione di un nuovo disco che ci avrebbe donato altra poesia e altra bellezza.
Altre volte De André ci ha fatto compagnia in questo finale. Oggi mi sembra calzante ricordare una sua poesia legata alla guerra, ai giovani che si trovano a combattere uno contro l’altro, ma con il cuore pieno delle stesse cose, della stessa voglia di vivere. È chiaro: è La Guerra di Piero. Grazie di esserci stato grande Faber, con te tutti e tutte crescono ancora. 

La guerra di Piero

Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma son mille papaveri rossi

Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente

Così dicevi ed era d’inverno
E come gli altri verso l’inferno
Te ne vai triste come chi deve
Il vento ti sputa in faccia la neve

Fermati Piero, fermati adesso
Lascia che il vento ti passi un po’ addosso
Dei morti in battaglia ti porti la voce
Chi diede la vita ebbe in cambio una croce

Ma tu non lo udisti e il tempo passava
Con le stagioni a passo di giava
Ed arrivasti a varcar la frontiera
In un bel giorno di primavera

E mentre marciavi con l’anima in spalle
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore

Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue

E se gli spari in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a te resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore

E mentre gli usi questa premura
Quello si volta, ti vede e ha paura
Ed imbracciata l’artiglieria
Non ti ricambia la cortesia

Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che il tempo non ti sarebbe bastato
A chiedere perdono per ogni peccato

Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che la tua vita finiva quel giorno
E non ci sarebbe stato un ritorno

Ninetta mia, a crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio
Ninetta bella, dritto all’inferno
Avrei preferito andarci in inverno

E mentre il grano ti stava a sentire
Dentro alle mani stringevi il fucile
Dentro alla bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole

Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi.

Buona lettura a tutte e a tutti!

«Anche se c’è forse un campo in cui la fotografia non può dirci nulla di più di ciò che vediamo con i nostri occhi, ce n’è un altro in cui ci dimostra quanto poco i nostri occhi ci consentano di vedere». Queste parole preziose di Dorothea Lange, grandissima fotografa, ci accompagnano nella presentazione degli articoli di questo numero 253 della nostra rivista, due dei quali sono dedicati a donne il cui sguardo è dietro moltissime immagini entrate nella storia: Chiara Samugheo. Fotogiornalista italiana degli anni Cinquanta e la seconda parte di Fotografe viaggiatrici. Le rivoluzionarie. Da questa forma d’arte alla musica il passo è breve e per “Calendaria 2024” incontriamo Vittoria Aleotti. Compositrice ferrarese rinascimentale, monaca agostiniana e clavicembalista.

Continuano le serie che ci hanno accompagnato nel 2023: per “La targa che non c’è”, in Via Mantova n° 1. Le bottigliere dello Stabilimento Birra Peroni, leggeremo la storia delle operaie dello Stabilimento Peroni, «donne sconosciute che hanno scritto però alcune pagine della storia economica della capitale»; “Biblioteche vaganti” ci porterà tra Religione, reliquie e ascetismo, mentre per “Le grandi assenti” incontreremo l’artista Maria Grazia Brunetti e il mosaico moderno. La sezione “Le storie” ci stupirà con Himiko, la prima regina del Giappone, sacerdotessa il cui nome significa “figlia del sole”. Dal nostro ultimo Convegno, che si è svolto a Caserta, potremo leggere Essere donna nella dimensione Stem, la relazione di uno dei tavoli più stimolanti del programma.
Cambiamo discorso. Scrivere la storia delle donne è l’intervista di questa settimana con Marco Severini, docente di Storia contemporanea e di Storia delle donne all’Università di Macerata, intervista che anticipa il prossimo webinar organizzato dall’associazione amica di Toponomastica femminile “Reti culturali”. Il consiglio di lettura di questo gennaio, finalmente freddo, è Nessuna notte è infinita, di Francesca Pansa, un libro che «cuce insieme ricordi della storia familiare dell’autrice con le vicende dell’Italia del Novecento». E non smettiamo di raccontare ricordi anche nel nostro nuovo Laboratorio “Flash-back”, con Trecce irresistibili un articolo scritto da una delle nostre penne maschili.
Non si fa che parlare, in questi tempi, di transizione energetica e sviluppo sostenibile. Ma «pale eoliche, pannelli solari fotovoltaici, pannelli fotovoltaici con accumulo, dighe, barriere marine, sono tutti manufatti che incidono a volte pesantemente sul paesaggio». Ce lo ricorda l’autrice di Energie rinnovabili e consumo del suolo, con interessanti riflessioni. Si è sostenibili sicuramente mangiando meno carne o addirittura eliminandola e allora, per imparare a farlo, con alimenti e piatti da sperimentare, ci viene in aiuto” La cucina vegana” con la ricetta di questo inizio d’anno: Fettine di tofu con salsa di soia, accompagnata come sempre da qualche utile consiglio. Chiudiamo questa volta tornando sull’attualità, con la Lettera aperta al Presidente della Repubblica, in risposta al discorso di fine anno tenuto da Mattarella.
SM

***

Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpretiSiamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.

Lascia un commento