Nessuna notte è infinita

«Sempre nel modo di vivere e pensare di una donna c’è il ricordo, magari involontario, dell’atto di cucire o di tessere. È così che una donna scopre una verità universale» (Fusini, 2013, p. 103).
Questo libricino di 160 pagine, Nessuna notte è infinita, intimo ma non personalistico, cuce insieme ricordi della storia familiare dell’autrice con le vicende dell’Italia del Novecento e apre squarci per pensare a nodi tutt’oggi irrisolti.
Leggendo questo romanzo, che non segue un ordine cronologico ma il filo delle emozioni e dei ricordi, ho pensato a un ricamo favoloso, a un armonioso concerto; la musica, infatti, è fortemente presente. Molte melodie attraversano il testo e pare quasi di sentirle (c’è Renato Zero cui l’autrice ruba il titolo, Gabriella Ferri, Fabrizio De André evocato dall’esergo di Edgar Lee Master, la musica suonata da Soave). Musica colta e musica leggera (o cattiva) che, come scrive Proust, citato dall’autrice, «si canta e si suona molto più appassionatamente della buona, [e perciò] a poco a poco essa si è riempita del sogno e delle lacrime degli uomini» (ibidem, p. 52).
E poi musicale è la lingua – semplice ed elegante, con momenti di puro lirismo – ritmica, carezzevole, quasi un abbraccio. Piacevolissima da leggere.

Ho pensato ai ricordi personali – alcuni teneri come quello di una «delizia impagabile, il gelato al gelsomino. Sento ancora il suo profumo e il suo inconfondibile sapore che si scioglie in bocca» (Pansa, 2019, p. 21), e tristi, come il «pianto dirotto, irrefrenabile» (ibidem, p.27) nel lasciare l’amata Castrovillari per l’anonima Roma – e a quelli familiari si aggiungono alcune pagine dedicate a scrittrici e scrittori. Bellissimo e appassionato il capitolo dedicato a Virginia Woolf e alla sua “complicata” relazione con la famiglia; delicato il ricordo di Aldo Rosselli, anche lui, come Virginia, «incapace di amar[si]» (ibidem, p.31). Pansa ricorda la fortissima storia d’amore che lega Germaine e Giorgio Amendola, morti a poche ore di distanza l’uno dall’altra: vicenda cara alla madre che nel loro legame rivedeva il proprio (anche se il finale era diverso). Potente il ricordo di Rosetta ed Ennio Flaiano e di Lé-Lé, la loro figlia, gravemente disabile; del dolore cupo per la solitudine in cui la società li lasciava e per le limitazioni dovute alla malattia e quello dei momenti di gioia che Lé-Lé regalava.

Francesca Pansa costruisce in punta di pennello ritratti di persone (e di paesi e paesaggi: protagonisti a pieno titolo sono anche la Sila e il Pollino e la sua Castrovillari) e ce le restituisce vive, ognuna col proprio carattere, le proprie emozioni ed esperienze; sparge a piene mani dettagli amorevoli che non appesantiscono ma illuminano sentimenti e aspirazioni e direi anzi che proprio attraverso essi costruisce il ritratto dei suoi personaggi: ognuno con la sua riconoscibile individualità, ognuno ologramma della famiglia e della società.
Si intrecciano voci: quella di nonno Ulrico, che non segue la tradizione di famiglia che lo avrebbe voluto avvocato e diventa maestro e poi direttore didattico «il più giovane, si diceva, di tutta la Calabria» (ibidem, p. 17), è lui il nonno che le spiega l’etimologia del monte Pollino e la incanta con la fiaba della Principessa delle Nevi. Poi c’è nonno Giuseppe, “Nonno Vecchio”, il papà di nonna Rosina, ciabattino e lustrascarpe, buontempone e socievole, accompagnato sempre dal cagnetto Piccirillo; contento per aver scoperto che anche il padre di Tommaso Campanella, calabrese anche lui, faceva il ciabattino. A differenza di quest’ultimo che «per l’estrema povertà non poteva permettersi di mandare i figli a scuola […] lui, Nonno Vecchio, la scuola gliela aveva fatta fare, e bene» (ibidem, p. 63). E della figlia era tanto orgoglioso.
Nonno Francesco, che aveva la passione della fotografia, era emigrato in America, come tantissimi italiani in quegli anni: ricordava l’impressione che gli aveva fatto la Statua della Libertà, ma anche la povertà, la fatica e un naufragio scampato; aveva rinviato il viaggio e il piroscafo che avrebbe dovuto prendere era affondato: più di cinquecento i morti. Ora, ancora, come allora: l’ultimo naufragio di Cutro e gli altri nel Mediterraneo accusano la nostra colpevole indifferenza e la mancanza di pietà per chi cerca di sfuggire da guerre o fame.
Il papà Ermanno, come la madre Rosina, è insofferente verso il regime fascista e sospetto per le sue letture “eretiche”: Campanella, Bruno, Croce Labriola. Ermanno affida a fotografie e poesie i suoi ricordi; tra le foto, che sono di un’epoca in cui «le immagini vivevano di sguardi» (ibidem, p. 126) Francesca ne ricorda una della madre, ha «la figura esile, il vestito leggero e senza pretese, lo sguardo con una sottile e un po’ intrigante malinconia» (ibidem, p. 43); di lei, da subito e per sempre si è innamorato. Questo amore sincero «da condividere negli anni futuri. Fino alla morte» (ibidem, p. 44) è la cifra che caratterizza Ermanno.

Importantissime sono le figure femminili, a cominciare dalla bisnonna Saveria. Aveva perso due figli nella Grande guerra: in pagine strazianti e coinvolgenti, l’autrice ne ricorda il calvario «[…] aveva pianto, aveva pregato, aveva sperato» (ibidem, p. 56). Si era chiesta, come tutte le madri che perdono un figlio, perché Dio non l’avesse ascoltata, poi si era isolata, chiusa in un mutismo ostinato, impazzita di dolore e morta di crepacuore.
Nonna Enrichetta, maestra come l’altra nonna Rosina, aveva un carattere forte, energico; tra le prime montessoriane, aveva abbracciato l’insegnamento con passione. In un periodo in cui i contadini avevano bisogno anche delle braccia dei figli piccoli per lavorare la terra e cercavano in ogni modo di sottrarre i figli all’obbligo scolastico, la maestra Enrichetta, armata di passione e di tante idee, girava con un calessino e «andava a domicilio una volta alla settimana, nella giornata di festa o di riposo. Improvvisava le sue lezioni all’aria aperta e teneva anche un diario in cui raccontava le esperienze» (ibidem, p. 14). Come fa ancora adesso Antonella Di Bartolo, preside a Palermo, che è riuscita a ridurre drasticamente la dispersione scolastica nella sua scuola, andando a cercare i ragazzi a casa e parlando e convincendo le famiglie.

Tra tutte, la figura che spicca è quella di Soave, la madre. Nome inconsueto e carattere forte, Soave ama la musica. Fatto infrequente per quegli anni, ottiene il permesso da nonna Enrichetta di vivere da sola a Roma per studiare al Conservatorio a patto di mantenersi. Studiare, esercitarsi, dare lezioni, risparmiare: Francesca immagina la mamma giovanissima che corre da una parte all’altra di Roma. «Mamma non si poteva permettere di sbagliare. Sapeva che vivere a Roma era troppo importante, richiedeva sacrifici di ogni tipo, doveva sempre e in ogni momento chiedere molto a sé stessa. La fiducia che le aveva accordato sua madre non poteva andare delusa» (ibidem, p. 97). Proprio quando comincia ad affermarsi deve tornare al paese, i genitori «lo chiesero e si imposero» (ibidem, p. 98); lì trova, per fortuna, una splendida sorpresa: Ermanno. S’innamora, si sposa e come tante donne, ancora oggi, sceglie di rinunciare alla sua strada per essere moglie, amata e amante, e madre affettuosa e presente. Ma «la vita non ci appartiene, ci attraversa» (ibidem, p. 99), la rinuncia alla musica, nonostante l’amore per la sua famiglia, le pesa: «Quando mai la vita va come vorremmo? […] È finita in mezzo, stretta tra aspirazioni e doveri. Non riesce del tutto ad accettare la condizioni nella quale si trova, ma neanche a combatterla con la sottile voglia di libertà e di evasione, mai gridata ma sempre sognata» (ibidem, p. 128). Madre che è sempre accanto a Francesca: in sogno le anticipa che sta aspettando Alessandro; è la prima ad accorgersi che qualcosa non va nel bambino, a cercare soluzioni e a “contenere” l’ansia di Francesca.
Poi, il capitolo più doloroso: «Mamma è andata via in un pomeriggio di dicembre […] Non ho fatto nulla per trattenerla» (ibidem, p. 149). La morte della mamma è una ferita inguaribile, lascia sensi di colpa, un vuoto abissale, sconforto; anche se si è adulte/i lo scoprirsi improvvisamente non più figli/e ci sospende in un buio senza riferimenti nel quale dobbiamo faticosamente trovare una strada.

Ma dal momento che «Nessuna notte è infinita», come voglio credere, germoglia un racconto, questo, che è un atto di amore, verso la vita e soprattutto verso la madre; e credo sia un rinnovato atto di nascita per l’autrice, perché, come scrivono molte donne da María Zambrano a Nadia Fusini, «Non si nasce in un punto. Di colpo. Nasciamo più volte». Nel suo ricordare e rivivere il passato con i momenti lieti e quelli dolorosi, questo s’illumina e ci si può riappacificare.

Francesca Pansa
Nessuna notte è infinita
Rizzoli, Milano, 2019
pp. 160

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Articolo di Angela Scozzafava

Si è laureata in filosofia della scienza con il prof. Vittorio Somenzi e ha conseguito il Diploma di perfezionamento in filosofia.  Ha insegnato — forse bene, sicuramente con passione — in alcuni licei. Ha lavorato nella Scuola in ospedale, ed è stata supevisora di Scienze Umane presso la SSIS Lazio. Attualmente collabora con la Società Filosofica Romana; scrive talvolta articoli e biografie; canta in cori amatoriali e ama i gatti.

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