Il birrificio Peroni è ancora lì, a dominare la scena urbana tra via Mantova, piazza Alessandria, via Nizza e via Bergamo. È stato, all’inizio del XX secolo, uno degli emblemi della nuova capitale d’Italia e del processo di urbanizzazione delle aree esterne alle mura Aureliane. Nel 1901 l’azienda Peroni si unì con la fabbrica per la produzione industriale del ghiaccio e della neve artificiale e la nuova società, dal nome piuttosto lungo di Società Riunite Fabbrica del Ghiaccio e Ditta F. Peroni, trovò sede in piazza Principe di Napoli, ora piazza Alessandria, dove un tempo si estendeva la villa Capizzucchi. Di quelle prime costruzioni realizzate dall’architetto Gustavo Giovannoni non rimane nulla, solo qualche immagine d’epoca in bianco e nero che immortala lo chalet-birreria in legno di stile Liberty dove era possibile bere un buon boccale di birra fresca.


I primi cambiamenti arrivarono nel 1908 con l’edificazione, sempre a opera di Giovannoni, di un nuovo complesso per la produzione, di una nuova sala di cottura della birra e della torretta cilindrica, ancora visibile all’angolo con via Bergamo. Proprio la torretta, che inglobava il serbatoio idrico, divenne l’elemento architettonico caratterizzante la struttura e lo scenario circostante, con il fumaiolo coperto e ingentilito da un piccolo loggiato. Siamo all’inizio dello sviluppo industriale italiano, quando ancora non esistevano forme codificate per i complessi produttivi; le costruzioni di Giovannoni avevano poco della struttura industriale, cercavano piuttosto di adattarsi al contesto circostante, costituita da eleganti edifici abitativi, tendendo a fondere la sperimentazione di nuovi materiali costruttivi con le soluzioni decorative del gusto d’epoca, il Liberty. La lapide immaginaria questa volta è dedicata alle operaie dello Stabilimento Peroni, donne sconosciute che hanno scritto però alcune pagine della storia economica della capitale.

Le operaie furono inserite soprattutto nel reparto dell’imbottigliamento. Dovevano chiudere a mano i tappi metallici delle bottiglie di vetro, un compito apparentemente facile ma ripetitivo e stancante, visto che si trattava di stare in piedi per molte ore al giorno davanti al nastro trasportatore. Le donne erano ritenute più pazienti degli uomini, abili e rapide col movimento delle mani: bastava prestare attenzione, essere concentrate e pronte a chiudere il gancio metallico del tappo evitando di far ribaltare la bottiglia di vetro e disperdere il liquido contenuto. Non era necessaria molta forza fisica ma non è difficile immaginare quanto facessero male le dita a fine turno, quanto fossero indolenziti polsi, mani e schiena, quanto fossero stanche braccia e gambe. Chiudere i tappi metallici era un’operazione semplice ritenuta adatta alle donne che, considerato il minor costo della manodopera femminile rispetto a quella maschile, diventava una forza lavoro appetibile e conveniente per il padrone.

Nel 1911, l’anno in cui a Roma si svolse l’Esposizione Universale, la domanda di birra crebbe molto e aumentò anche il numero dei/delle dipendenti: 310 in totale, di cui 38 con compiti impiegatizi (5 erano donne) e 272 di manodopera operaia fra cui 43 donne che, oltre all’imbottigliamento, erano incaricate di lavare le bottiglie, metterle nelle cassette, caricare e scaricare, rammendare i sacchi.

Le bottigliere hanno partecipato allo sviluppo dell’azienda. Se dopo il primo decennio del Novecento le operaie dello stabilimento erano circa il 15%, nel 1916 il numero delle lavoratrici del settore imbottigliamento aumentò fino al 30%, diventando 220 su un totale di 763 addetti; negli anni successivi si registrò un andamento calante per tutta la manodopera, segno che nel periodo della Prima guerra mondiale la domanda di birra non fu elevata. Però qualcosa cambiò per le operaie: il numero dei dipendenti in generale scese, ma crebbe il numero delle lavoratrici fisse che, nel 1917, diventò quasi il doppio delle stagionali. Nel birrificio, che produceva a ritmo sostenuto dalla tarda primavera all’inizio dell’autunno, le donne erano molto spesso reclutate solo per quei mesi, quando la richiesta di birra cresceva; ma durante il primo conflitto mondiale anche nella ditta Peroni diminuì il numero degli uomini, partiti per il fronte, e le donne andarono a coprire quelle momentanee falle; terminata la guerra, le operaie tornarono perlopiù ai contratti stagionali e gli uomini, rientrati a casa, ripresero il loro posto di lavoro.
Ci fu un altro anno che registrò un’evidente diminuzione del numero delle persone assunte sia in modo continuativo che stagionale: fu il 1920, anno di agitazioni operaie. Si passò da 582 dipendenti a 211, di cui 64 donne. Fu questa la risposta padronale al clima di conflittualità e di tensione politica che si inasprì a luglio quando furono organizzate giornate di sciopero. Operai e operaie chiedevano la diminuzione dell’orario di lavoro, il miglioramento dei turni e l’aumento della paga. Al termine delle lotte i salari crebbero sia per gli uomini che per le donne, mantenendo però evidente lo squilibrio di genere: se un operaio, nel 1920, prendeva una retribuzione giornaliera tra le 14 e le 24 lire, la paga di una donna poteva oscillare tra 7 e 9 lire; l’anno successivo, il 1921, gli uomini potevano ambire a ottenere un po’ più di 25 lire al giorno, le donne al massimo potevano riceverne 13.
L’età media delle bottigliere era intorno ai 29 anni, le più giovani ne avevano 14-15, le più anziane superavano i 70 anni; per lo più vivevano a Roma ma non tutte erano nate nella capitale, in qualche caso erano emigrate da altre regioni, dal Piemonte, dalla Lombardia, anche dalla Sardegna. Assunte nella maggioranza dei casi come operaie stagionali, durante il resto dell’anno ‒ ma in realtà anche quando erano impegnate a chiudere i tappi meccanici ‒ le bottigliere svolgevano altri lavori necessari per sostenere i fragili bilanci domestici: erano sarte, modiste, stiratrici, cioccolataie, operaie nelle fabbriche di candele o in quelle che producevano colle, ma soprattutto erano lavandaie. Andavano a lavare i panni direttamente in casa delle famiglie più abbienti dove poteva trovarsi ‒ evento raro ‒ uno scaldacqua a gas; ma nella maggior parte dei casi le donne andavano a domicilio a ritirare i sacchi con la biancheria sporca, li portavano ai lavatoi pubblici o a quelli privati a pagamento, spesso con orari di lavoro massacranti prolungati per giorni per riuscire a rispettare le date di riconsegna.

Funamboliche equilibriste dell’economia familiare, alle bottigliere spettavano anche tutti i compiti per la sussistenza della famiglia: trovare i generi di prima necessità, preparare da mangiare, provvedere alle scorte d’acqua, pulire gli ambienti domestici, svolgere i lavori di cura delle persone anziane e della prole. Ma questo era, ed è ancora, un destino comune a tutte le donne.
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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.
