Zeus, figlio di Rea, aveva due fratelli, Poseidone e Ade, con cui si era spartito l’universo, riservando a sé cielo e terra e lasciando loro rispettivamente il dominio del mare e delle acque e il mondo che si cela sotto la crosta terrestre; ma aveva anche una sorella, Demetra, nome che i greci dell’antichità interpretavano come Terra Madre.

Demetra è la dea che rende possibile la vita dei mortali, nutrendoli con i suoi frutti, il grano principalmente — a Roma sarà identificata con Cerere, da cui il nome dei cereali — e più in generale la dea del vivere civile. Di lei ci sono tracce già nel secondo millennio, ma la fonte principale è uno dei cosiddetti Inni omerici, componimenti di varia lunghezza che hanno in comune con i poemi attribuiti al famoso poeta cieco il metro (l’esametro) e la dimensione narrativa. Il secondo inno, composto, sembra, intorno alla fine del VII secolo a. C., racconta la vicenda di Demetra, del rapimento di sua figlia e dell’istituzione dei riti noti come Misteri Eleusini, dal nome della città in cui sorgeva il tempio dedicato alla dea, centro del suo culto.
Demetra, dunque, sorella e sposa di Zeus, aveva concepito con lui una figlia, da cui non si separava mai; la ragazza percorreva insieme alla madre il mondo godendone le bellezze, giocando con le ninfe e divertendosi a scoprire la varietà delle erbe e dei fiori che ricoprono la superficie terrestre. Durante una di queste scorribande scopre un nuovo “giocattolo”, il fiore del narciso, e si ferma ad ammirarlo e annusarlo.
Ma lasciamo la parola al poeta:
«Io canto la veneranda Demetra, la dea dalle belle chiome e insieme a lei la figlia dalle belle caviglie che Aidoneo rapì – glielo concesse Zeus voce di tuono che tutto vede, di nascosto da Demetra, la dea dalla spada d’oro che fa crescere splendide messi – mentre giocava con le figlie di Oceano dal seno fiorente e coglieva fiori sul soffice prato: rose, crochi, viole, iris e giacinti; e anche il narciso che la terra aveva fatto nascere perché insidiasse la ragazza dal volto di rosa, per volere di Zeus e per compiacere il dio che molti accoglie […] Mentre lei, affascinata, tendeva le mani per coglierlo, si squarciò la terra dalle mille strade e ne sbucò il dio che molti accoglie, figlio di Crono dai molti nomi, con le cavalle immortali. Afferrata la dea, la trascinava via sul suo carro d’oro, mentre lei in lacrime si divincolava e lanciava alte grida invocando suo padre, Zeus, figlio di Crono che dall’alto tutto vede e tutto può. Ma nessuno degli immortali le dette ascolto e neppure i mortali e nemmeno le ninfe che regalano frutti […] Intanto, per volere di Zeus, il fratello suo dai molti nomi, figlio di Crono, che è signore di molti e molti accoglie, portava via la ragazza che cercava di resistergli. Lei, finché poté guardare la terra e il cielo stellato e il mare pescoso dalle vaste correnti e i raggi del sole, benché piena d’angoscia, sperava ancora nel suo cuore di poter rivedere la cara madre […] Le vette dei monti e gli abissi del mare fecero eco alla sua voce immortale e l’udì la madre veneranda. Un dolore lancinante le spezzò il cuore, si strappò il diadema dalle chiome divine, si gettò sulle spalle un velo color della cenere e si lanciò alla sua ricerca come un uccello, per terra e per mare. Nessun dio, nessun uomo volle dirle la verità e gli uccelli non le portarono messaggi. Per nove giorni la dea vagò senza lavarsi, senza bere, senza mangiare, stringendo in mano fiaccole ardenti» Inno a Demetra, 1 – 48.
L’inno prosegue raccontando come nel decimo giorno Ecate, la dea dell’astro notturno, vada a cercare Demetra: vorrebbe aiutarla, ha udito anche lei le urla della ragazza, ma non ha visto chi l’ha rapita. In segno di solidarietà l’accompagna da Elio, il Sole, e a lui, che con i suoi raggi vede ciò che accade sulla terra e sul mare, la dea chiede di rivelare il nome di colui che, approfittando della sua lontananza, le ha portato via la figlia adorata facendole violenza. Elio, per rispetto nei confronti di Demetra, non può esimersi dal parlare e afferma che quello che si è compiuto è volere di Zeus: è lui che ha destinato la ragazza a suo fratello Ade, perché ne facesse la sua sposa e la regina del regno delle tenebre. Pur compatendo la madre sconvolta, prima di proseguire per il suo cammino, Elio la invita a smettere di piangere e di abbandonare il rancore: perché lo sposo non è indegno di essere suo genero – come si può capire, tra dei e dee non esiste il tabù dell’incesto.
Demetra, tutt’altro che placata, s’infuria e abbandona i fratelli e l’Olimpo. Scegliendo l’esilio volontario dalle sedi degli immortali, comincia un lungo vagabondaggio tra le terre abitate dai mortali, cui cela il suo volto e la sua natura, assumendo le sembianze di una vecchia. Nel frattempo, campi e messi languiscono, perché la dea ha abdicato alla sua funzione di nutrice di tutto ciò che germoglia sulla terra. Finché un giorno, incontrandola nei pressi di un pozzo, un gruppo di ragazze che la vedono afflitta, la invitano a casa del re loro padre, dove potrà ristorarsi. Le raccontano che da poco è nato loro un fratellino, a lungo atteso, e le suggeriscono di offrirsi come nutrice. La dea acconsente a seguirle, ma, benché accolta con calore, non riesce a vincere il dolore. Allora una vecchia serva, per farla sorridere, si mette a scherzare con battute licenziose e, secondo alcune versioni del mito, fa qualcosa di più, sollevandosi le vesti e mostrando il sesso: il gesto, che assumerà un valore rituale, allude alla comune appartenenza al genere cui compete la propagazione della vita. Grazie a questo “riconoscersi” tra donne, che annulla le differenze sociali, Demetra depone il lutto, sorride e accetta di fare la nutrice del bambino. Nel frattempo Zeus, anche a nome degli altri dei, “affamati” — i mortali non hanno più risorse per offrire loro i sacrifici di cui essi godono — ha deciso di venire a patti con la divina sorella e ha convinto Ade, fratello di entrambi, a far tornare sulla terra la sua sposa. Demetra felice riprende la sua funzione di “madre terra” che nutre i frutti: finisce la carestia, uomini e dei tirano un sospiro di sollievo. Madre e figlia possono finalmente riabbracciarsi; ma la loro gioia è funestata dalla scoperta dell’inganno grazie al quale Ade si è assicurato che Persefone sia costretta a tornare periodicamente sotto terra: le ha fatto mangiare qualche chicco di melograno, e chi ha assaggiato cibo di morte resta indissolubilmente legato a quel mondo. Perciò la ragazza sarà costretta a vivere negli Inferi per un terzo dell’anno e in quel periodo la terra resterà spoglia di frutti e di messi; ma tornerà a fiorire nel periodo in cui potrà tornare sulla terra e stare accanto a sua madre.
Il racconto mitico è evidentemente di quelli che spiegano eventi naturali, in questo caso l’alternanza delle stagioni e poco importa la discussione degli studiosi su quale sia il periodo dell’anno in cui Persefone torna tra i morti: secondo alcune interpretazioni l’inverno, come appare più intuitivo, secondo altre l’estate, quando la messe matura viene tagliata. In ogni caso è necessario che il seme resti nascosto per un certo tempo sotto terra, perché ne possa sorgere la spiga.
Ma il mito racconta anche la violenza archetipica che un maschio, un dio fratello del re degli dei, impone a una ragazza, forzandola a soddisfare la sua volontà. È da notare che il poeta greco non accenna all’amore, come motivazione del rapimento e giustificazione dello stupro. Lo farà invece Ovidio, raccontando, circa seicento anni dopo, la stessa vicenda nel poema Le Metamorfosi; dove troveremo anche una dea dell’amore preoccupata che troppe ragazze scelgano la verginità; o meglio scelgano di non essere madri, sottraendosi al loro dovere. L’inno omerico sottolinea, invece, l’alleanza compatta del mondo maschile, concorde nella volontà di spezzare l’unità affettiva ed emotiva che lega la madre alla figlia. Nel testo, come accadrà poi nel culto, la regina dell’oltretomba viene il più delle volte chiamata semplicemente Core, cioè appunto ragazza, figlia: certo per ragioni “eufemistiche” — tutto quello che fa riferimento diretto alla morte si preferisce non nominarlo direttamente, come abbiamo visto per lo stesso Ade, il cui nome è spesso modificato o sostituito da metafore — ma anche perché Persefone (Proserpina a Roma) rappresenta la figlia per antonomasia, così come Demetra è la madre per antonomasia, nutrice di messi, di animali, di esseri umani; ed è questa funzione che trasmette alla figlia, che a sua volta diventa nutrice e opera affinché dalla morte rinasca la vita.
Demetra e Persefone, citate e invocate spesso semplicemente come “le due dee” sono così inscindibili che per indicarle viene usata una forma grammaticale, il duale, che la lingua greca affianca al singolare e al plurale e non ha paralleli né in latino, né tanto meno in italiano. Essa si usa di regola per persone o cose che sono sempre appaiate: gli occhi, le orecchie, le gambe o le magistrature doppie, come i re a Sparta e i consoli a Roma.

Il mito racconta dunque l’opposizione, il conflitto tra il mondo maschile e quello femminile. Gli dei che detengono il potere e governano le diverse sfere dell’universo, riconoscendo la potenza enorme e intollerabile della coppia madre-figlia, operano solidali e concordi per distruggerla; anche se questo mette a rischio la sopravvivenza stessa di ogni forma di vita.
Sull’altro versante vediamo la solidarietà del mondo femminile, legato alla natura, affascinato dalla bellezza, animato da com-passione, fragile fisicamente, eppure forte della capacità di dare la vita. Il gesto della serva, a volte chiamata Iambe, a volte Baubò, che riesce a far ridere Demetra, viene rappresentato anche nella pittura vascolare e negli ex-voto. Igino, un mitografo romano, lo fa risalire a una vicenda diversa: racconta che ad Atene non fosse consentito alle donne imparare l’arte medica e che le partorienti, rifiutando per pudore medici maschi, morivano in quantità. Finché una ragazza, Agnodice, decise di fingersi uomo e cominciò a praticare l’ostetricia con successo; tranne poi essere costretta a mostrare le sue parti intime nel tribunale dell’Areopago, per liberarsi dall’accusa di approfittare del suo lavoro per sedurre le sue pazienti.
Nell’ultima parte dell’inno si racconta l’origine del culto di Demetra, che prelude alla nascita dei misteri eleusini, una religione iniziatica antichissima diffusa nell’Attica e in tutta la Grecia, cui potevano partecipare schiavi, stranieri e donne. Gli “iniziati” (mystai, da cui il nome misteri) praticavano il digiuno — come Demetra nei nove giorni in cui aveva vagato sulla terra alla ricerca della figlia — ed erano tenuti a non rivelare le fasi finali del rito.
Ma anche ad Atene Demetra e Persefone venivano celebrate in una festa, le Tesmoforie, riservata alle sole donne e avvolta perciò da un certo mistero, che i maschi cercavano in tutti i modi di penetrare: Aristofane nella commedia intitolata Le Tesmoforiazuse (ovvero Le donne alla festa di Demetra) mette in scena Euripide e un suo familiare che si travestono da donne per potervi partecipare e curiosare in quell’evento di cui si raccontavano sconcezze e trasgressioni. La festa, come tutti i riti in onore delle due dee, era destinata a propiziare la fecondità, delle donne in primis e poi anche di animali e piante; durava tre giorni ed era una delle poche occasioni in cui le donne potevano uscire di casa e passare fuori anche la notte. E soprattutto ritrovarsi tra donne e rinnovare insieme la loro fiducia nella capacità di mettere al mondo il mondo e di tenerlo in piedi. A dispetto dei ricorrenti tentativi di distruggerlo che gli uomini mettono in atto facendosi la guerra e sfruttando in modo dissennato tutte le risorse che la madre terra dona loro in abbondanza.
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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.
