Via Isabella d’Aragona n° 10. La casa di Daniela Rocca

Via Isabella d’Aragona corre stretta, rettilinea e anonima tra alti caseggiati a pochi passi da piazza Bologna. È al numero civico 10, dove ha abitato per alcuni anni ‒ quelli del declino ‒ l’attrice Daniela Rocca, che vorrei fosse affissa una targa commemorativa per ricordare la carriera cinematografica di una sfortunata donna, meteora apparsa alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso e dissoltasi nel giro di pochi anni.

Roma, via Isabella d’Aragona 10, foto di Barbara Belotti 

La strada e l’appartamento in cui visse nel quartiere Nomentano ‒ due camere con servizi al sesto piano ‒ sembrano allegorie della prematura curva discendente del suo successo, soprattutto se paragonate all’abitazione sulla collina di Monte Mario, dove l’attrice visse nel breve periodo di fama e da dove poteva allungare lo sguardo sull’intera città che, in cuor suo, avrebbe voluto conquistare col cinema. Il suo nome si illuminò ma presto si spense, le sue capacità di attrice furono rapidamente dimenticate; nelle sue mani rimasero un mucchietto di illusioni ridotte in cenere, molta solitudine, rimpianti e un profondo disagio esistenziale presto tramutatosi in malattia mentale. 
Che fosse bella Daniela l’aveva imparato presto, ancora studente delle scuole superiori, passeggiando per le vie di Catania seguita dagli sguardi maschili incollati al suo corpo. Il cammino verso il cinema era passato attraverso i concorsi di bellezza, prima quello di Miss Catania, vinto a soli 16 anni nel 1953, poi l’esperienza di Miss Italia; infine l’arrivo a Roma ‒ l’Hollywood sul Tevere ‒ dove cominciò come comparsa. Tutte scelte fatte con caparbietà e nonostante la disapprovazione familiare che Daniela trovò la forza di ignorare.  

Daniela Rocca dei panni di Naomi in Giuditta e Oloferne, 1959 

Roma significava cinema, dolce vita, bel mondo, guadagni e successo, arrivato però dopo qualche anno e film minori, soprattutto quelli di genere storico-mitologico capaci di risaltare la sua bellezza mediterranea, le forme generose e morbide del corpo, il colore bruno di occhi e capelli. Era il 1961 quando incontrò Pietro Germi, il regista del film Divorzio all’italiana, che la scelse per il ruolo di Rosalia, moglie del barone Fefè Cefalù interpretato da Marcello Mastroianni. Daniela Rocca e Pietro Germi si erano conosciuti casualmente in una trattoria in via Rasella e, ricordò in seguito l’attrice, «quando ho visto che stava seduto al tavolo di fronte ho deciso che avrei dovuto conoscerlo». Per interpretare Rosalia Daniela accettò che il trucco di scena la imbruttisse in modo significativo: sopracciglia spesse fin sopra il naso, peluria sul labbro superiore, un vistoso neo scuro ‒ quasi una verruca ‒ sulla guancia, la bruna capigliatura antiquata calata in avanti a restringere ancora di più la fronte; lei di contro, ci mise grandi abilità interpretative per dar vita a una donna petulante, inadeguata e grottesca, una vittima

Daniela Rocca e Pietro Germi sul set del film Divorzio all’italiana, 1961

sacrificale perfetta soprattutto se paragonata all’altra figura femminile del film, Stefania Sandrelli, allora giovanissima e poco più che debuttante. L’ingresso di Daniela nel cinema seguì un percorso inusuale e anche difficile, come ha scritto il critico cinematografico Angelo Solmi: «Ha avuto il coraggio di diventare brutta per poter dimostrare di essere brava, e c’è riuscita. Quante fra le nostre interpreti se la sentirebbero di fare altrettanto?»  Già, ma perché farlo, perché imbruttirsi? «Perché me lo ha chiesto Pietro Germi, un regista di cui ci si poteva fidare. Ho fatto con lui prima un provino e poi un altro.

Quando mi sono vista volevo fuggire per la vergogna. Ma è stato lo stesso Germi a incoraggiarmi e a dirmi che sarebbe andato tutto bene. Avrai tutto il tempo ‒ mi disse ‒ per tornare bella: proverai poi molto più gusto nel compiacerti di essere una bella ragazza».

Daniela Rocca in una scena del film Divorzio all’italiana, 1961

Tra Daniela Rocca e Pietro Germi, già sposato, era nata una tribolata relazione sentimentale, fatta di conflitti e riappacificazioni: «Il grande amore durò poco più di un anno e fu una storia piena di scenate, un rapporto difficile, perché Germi, anche lui della Vergine come me, duro, caparbio, era molto geloso, aveva un carattere -pater- raccontò l’attrice in un’intervista. La vita sul set non fu facile e nel corso delle riprese in Sicilia, a Ragusa per l’esattezza, Daniela tentò il suicidio, gesto esplicito di un malessere reso acuto dalla complicata relazione sentimentale; per una sfortunata congiuntura astrale Pietro Germi fu colpito da un ictus che, se non ebbe conseguenze gravi, bloccò i lavori per alcuni mesi e accelerò la conclusione della relazione. Nonostante tutto il film fu un successo internazionale: nel 1962 vinse il premio per la migliore commedia al Festival di Cannes, il Globo d’oro e il Nastro d’Argento, l’anno successivo il Golden Globe come miglior film straniero e l’Oscar per la sceneggiatura; Marcello Mastroianni fu premiato molte volte e Daniela Rocca ottenne la nomination come miglior attrice straniera al British Academy Film Awards (BAFTA). Improvvisamente era sul tetto del mondo, in realtà tutto si stava concludendo. Sembrano quasi un presagio dell’incerto futuro le parole rilasciate in un’intervista al Festival di Venezia: «…spero di dimostrare tutto il mio valore, penso che Divorzio all’italiana sia solo l’inizio…chissà se qualche regista si sia accorto di me?». I registi si accorsero poco di lei. Dopo Divorzio all’italiana Daniela Rocca girò altre due pellicole di livello: nel 1962 L’attico di Gianni Puccini, con numerosi rimandi alle sue vicende biografiche, e la Noiadi Damiano Damiani l’anno seguente.

Daniela Rocca in una scena del film L’attico, 1962

Poi film senza storia, sceneggiature sbagliate, ruoli minori lasciarono spazio alla sconfitta e alle ferite interiori, con cicatrici difficili da rimarginare. Daniela mantenne intatto ancora per un po’ il sogno di girare un film tutto suo, Il peso del corpo, che lei stessa raccontò a Marco Bellocchio anni dopo: «Era un film autobiografico, la storia di un’attrice, però mi esprimevo con mezzi di psicanalisi, alla Freud: il padre, la morte del padre, Pietro Germi, il suicidio. Allontanarmi un po’ dalla vita, perché mi allontanavo, cosa cercavo, cosa volevo, cosa mi interessava…». Per quel sogno utilizzò i guadagni ottenuti nei pochi anni di successo, arrivando a indebitarsi completamente. Non riuscì nel suo intento di regista, fu costretta a disfarsi della bella casa di Monte Mario e andò a vivere nel modesto appartamento al sesto piano di via Isabella d’Aragona 10, «che aveva il tavolo della cucina ingombro di vecchie bollette della luce, del gas, fatture e lettere, insomma tante scadenze non pagate» ‒ scrisse il giornalista Giuliano Consoli su La Sicilia all’indomani della morte di Daniela nel maggio del 1995.

Nel 1978 interpretò se stessa nel film – documentario La macchina del cinema, girato da Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, un’inchiesta sul mondo cinematografico in cinque sezioni, una delle quali dedicata alle sue dolorose vicende. Parte delle riprese furono girate nella casa di via Isabella d’Aragona, le stanze in penombra ‒ la luce le era stata tagliata per insolvenza ‒, le pareti spoglie con due sole cornici appese, una per la sua fotografia e l’altra per il titolo di Miss Catania, deboli tracce di un passato felice; sul piano del tavolo fatture non pagate, in terra fogli di carta sparsi alla rinfusa con le sue poesie, i suoi pensieri, i suoi racconti. Nel piano sequenza Daniela Rocca guarda in modo incerto la macchina da presa, gli occhi vagano qua e là senza fermarsi; la sigaretta è sempre accesa, una via l’altra, il viso è gonfio, gli occhi segnati da un trucco veloce, alla buona, la voce roca scandisce lentamente le frasi: «Penso sempre a quel periodo [n.d.r. il periodo della carriera cinematografica], tutti i giorni ci penso, vorrei ritornare a lavorare». Lunghe pause segnano il flusso delle parole: «Esiste una macchina della vita, di noi stessi, che ti fa pensare, cercare, capire, vivere non come oggetti, ma come persone, come esseri» e poi, come un’implorazione al mondo: «Sei qualcosa!».

Daniela Rocca nel film La macchina del cinema, 1978 

Nelle ultime scene del film Divorzio all’italiana, dopo l’uccisione di Rosalia, si sente la voce di Mastroianni-Don Fefè Cefalù recitare un ultimo addioalla moglie: «Povera Rosalia, non te lo meritavi […] ma tu eri troppo, come dire, tu mi chiedevi: “Quanto mi vuoi bene?” Eri assetata d’amore, povera Rosalia, troppo assetata, troppo». Lo è stata anche Daniela Rocca assetata d’amore. Lo ha confessato lei stessa a Marco Bellocchio in una delle poche inquadrature sorridenti: «Io faccio tutto per amore». Nel film-documentario Daniela svela con dolore gli anni dell’oblio, una vita che diventa un «vagabondare da una parte all’altra […]; sono stata a Santa Maria della Pietà [n.d.r. ospedale psichiatrico della capitale], anzi certe volte sono io che cerco Santa Maria della Pietà per essere ricoverata. Perché l’idea del suicidio in questi giorni, per esempio, è stata fissa, fissa, fissa in me in un modo spaventoso. Allora dico: che cosa c’è che non funziona? Ricoveratemi, datemi amicizia, cercatemi, tendetemi una mano, fate qualcosa […]. Si lascia una persona a se stessa, abbandonata, a vivere da sola, completamente sola?». Il suo è un atto di accusa contro il mondo del cinema, che l’ha usata e poi buttata via, ma la nostalgia prevale sul rancore: «Mi ha abbandonato, mi ha lasciato a me stessa, non mi ha cercato… perché la mia famiglia è il cinema, io sono cresciuta in questo ambiente, li considero come la mia famiglia. Non lavorare per me è una cosa spaventosa […] Anche se sono cambiata, non posso fare più la bellissima ragazza, posso fare la caratterista […] Non mi ha più cercato nessuno… Non ho rabbia perché sono sicura che il cinema tornerà da me in qualche maniera, in qualche modo ritornerà». Il cinema invece non ritornò, l’unica consolazione restarono la scrittura, le poesie, i racconti che pochissime persone sono riuscite a leggere. Viene da pensare che se Daniela Rocca avesse avuto accanto a sé la figura di un produttore o di un regista, forse la sua vita avrebbe preso un’altra piega e la carriera avrebbe seguito un altro percorso. Il cinema è un mondo maschile ancora oggi, figurarsi sessant’anni fa quando gli spazi per una donna libera erano pochi e strettissimi. Daniela ha scelto l’autonomia fin dall’adolescenza, ha voluto seguire i suoi sogni e costruirsi una vita indipendente, a modo suo; audace nell’accettare che il trucco cinematografico cancellasse la sua bellezza, ha espresso agli inizi degli anni Sessanta un modello femminile controcorrente. 

             

Daniela Rocca agli inizi degli anni Sessanta

Che lei si immaginasse sola, ma non abbandonata come poi è successo, viene fuori già in alcuni versi giovanili: «Io sorrido da sola camminando/nel mondo/ e di questo e di quello/ e di ciò che è parola/ Quando un uomo mi disse:/ ti voglio sposare/voglio avere tuoi figli/ io sorrisi da sola. E quando/ la donna panciuta/ -che di strilli risuona-/ parla coi figli e s’accora/ io sorrido da sola/ Un grande cerchio di neri fiori/ appassiti la mia tomba:/ la mia gente sento strillare./ E calando nel ventre di madre natura/ rimiro la gente/ e sorrido da sola».

Domenico Trischitta, che all’attrice ha dedicato un testo e un dramma teatrale in due atti, racconta che Daniela ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in una casa di cura di Milo, in provincia di Catania, sempre più chiusa nel disagio mentale, con il pensiero rivolto a Germi e al cinema, a quella macchina della vita che l’aveva stritolata. Si sentiva ancora una creatura di spettacolo e, con la forza che a tratti ritornava, organizzò una piccola rappresentazione con altre persone ricoverate. Quando morì, il 28 maggio 1995, aveva solo 58 anni.

***

Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.

Lascia un commento