Chi tace non acconsente

Per fortuna ci accade sempre più spesso di essere invitate da scuole, enti locali, associazioni a parlare di violenza maschile sulle donne. Ci accorgiamo allora che c’è una cultura sociale che non sa affrancarsi, perché ormai interiorizzata, da un modello patriarcale che non viene messo in discussione e di cui perfino non si è consapevoli.
Quanti equivoci si nascondono dietro le parole!
Uno dei più radicati ne caratterizza una in apparenza chiara: consenso. Nessuno ne disconosce il significato quando si tratta di transazioni commerciali: ci vogliono almeno due firme leggibili in ogni contratto. Non sono previsti errori di valutazione, fraintendimenti. Non si accusa la vittima di una rapina di averla provocata. Non si domanda al derubato «come mai andava per strada con al polso un orologio di valore?».
Tutto pare confondersi però, quando in gioco non ci sia una merce ma la libertà e la dignità delle donne. Lì i rischi di operazioni restaurative sono sempre presenti. Che fatica, ogni volta.

Se ne è parlato nelle scorse settimane, quando alcuni Paesi nel Consiglio dell’Unione Europea (tra cui Francia e Germania) si sono opposti all’art. 5 della direttiva contro la violenza di genere nella versione approvata dal Parlamento, che definiva lo stupro rapporto sessuale non consensuale, come dalla Convenzione di Istanbul (2011): assenza di consenso, con l’aggiunta: il consenso deve essere dato volontariamente. Dopo difficili trattative, si è raggiunto un accordo in tal senso, benché lo stupro stesso non venga ancora definito “reato europeo”, cosa che avrebbe reso l’Ue legalmente competente a trattarne i casi.

«Credevo, avevo capito, mi sembrava»Il consenso non è un oggetto muto che si dà e si prende ma un incontro libero e consapevole di due volontà all’inizio e per tutta la durata di un rapporto; è un’interazione tra due creature umane, non un’interpretazione o una percezione soggettiva di una sola di esse.
Tacere o non dire “no” non vuol dire dare il proprio consenso. Le neuroscienze spiegano che quando un essere umano cade preda di una violenza, di una costrizione, di un abuso pesante, molto spesso si annichilisce e si immobilizza: si tratta di una risposta conservativa automatica della parte più antica del cervello al pericolo, che è detta paralisi involontaria o freezing, congelamento.
Il tribunale del web non lo sa, ma sembra che nemmeno avvocati e magistrati — nonostante i recenti orientamenti della Cassazione, nonostante i corsi di aggiornamento — siano informati di ciò. Non ha senso chiedere alla vittima «perché non si è difesa?» «perché non ha gridato?», «perché non si è ribellata?» o addirittura «perché non ha morso?». Probabilmente a posteriori non riesce a spiegarselo nemmeno lei.

Per questa risaputa consuetudine, per il timore comune a tutte le donne di essere processate in piazza, molti episodi non vengono neppure denunciati.
L’assenza di resistenza non significa consenso. Il ribaltamento delle responsabilità, oltre ad esser funzionale ad assolvere chi perpetra violenza, impedisce a molte di esprimere assertività di fronte alle proprie scelte sessuali, limita la loro libertà. Ciò che qualsiasi uomo fa tranquillamente, ovvero palesare i propri desideri, mostrare il proprio corpo senza rischiare nulla, corteggiare in maniera evidente, non è considerato accettabile in una donna.
Com’era vestita, dove si trovava e perché da sola, a che ora era fuori casa, se provocava/umiliava/irritava il suo aggressore o lo aveva tradito/lasciato/voleva lasciarlo, se aveva una vita “non lineare”, se ha bevuto, se è una prostituta, se ha resistito (aizzando l’aggressore ad agire peggio) o non ha resistito (allora ci stava)… tutto questo ha l’effetto di segnalare allo stupratore che la società lo scusa, quasi lo compatisce per quel che ha dovuto sopportare.

Il biasimo della vittima è il vecchio alibi di chi vuol giustificare i propri privilegi e/o i propri soprusi (non sono io ad essere razzista, sei tu che sei negro). Fa parte dei meccanismi studiati dagli psicologi tra gli espedienti con la funzione di disimpegnare temporaneamente la condotta dai princìpi morali normalmente professati.
Trovarsi in un certo luogo, vestirsi in un certo modo, accettare un invito, bere un drink non significa consenso. Aver avuto un rapporto in precedenza non significa volerne un altro. Mai, nemmeno nel talamo coniugale.
Per accedere a questa convinzione bisogna però rinunciare allo stereotipo del violentatore come bruto o soggetto deviante, per ricomprendere persone che vivono situazioni di apparente normalità.
Difficile, nuovo. Su questa materia sopravvivono anche nei maschi più miti, anche in molte donne, repertori immutati di sessismi. Oscurantismi da cui il sentire profondo non è ancora uscito.

Andiamo indietro, non fino alla vis grata puellae di Ovidio, ma solo di qualche decennio.
In una delle sentenze in tema di violenza sessuale, emessa dalla Corte di Cassazione nel 1967, troviamo la seguente definizione:

«Costituisce violenza qualsiasi impiego di forza fisica esercitata sull’altrui persona, maggiore o minore, a seconda delle circostanze, che abbia posto il soggetto passivo in condizione di non poter opporre tutta la resistenza che avrebbe voluto. Mentre non può raffigurarsi violenza in quella necessaria a vincere la naturale ritrosia femminile».
Processo per stupro, ricordate le parole dell’avvocato della difesa? Era il 1979, era un docu-film girato in un’aula di tribunale.
«Che cosa avete voluto? La parità di diritti? Avete cominciato a scimmiottare l’uomo! Voi portavate la veste: perché avete voluto mettere i pantaloni? Avevate cominciato con il dire “avevamo parità di diritto”. Avevate cominciato con il dire “perché io alle nove di sera devo stare a casa, mentre mio marito, il mio fidanzato, mio fratello, mio nonno, il mio bisnonno vanno in giro?”. Vi siete messe voi in questa situazione! Non l’abbiamo chiesto noi questo! Se questa ragazza fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente».
Date più vicine?

2006, ancora una sentenza della Cassazione. Una ragazza di 14 anni viene stuprata dal patrigno; l’uomo è punito meno severamente sulla base del fatto che la ragazza aveva già avuto rapporti sessuali.
2006. Se l’ambiente nel quale viene commesso è degradato il reato di stupro è considerato meno grave. Così ha deciso la Corte d’appello di Roma, che ha concesso le attenuanti generiche, applicando anche uno sconto di pena, a due imputati accusati di aver ripetutamente violentato una ragazzina prima e dopo il compimento del suo quattordicesimo anno d’età.
2008, Firenze. Un branco di sei violentatori viene assolto perché la ragazza«aveva una vita sessuale troppo libera»; dunque, il fatto era forse deprecabile ma non perseguibile.
La Repubblica, 18 luglio 2015, sullo stupro di una giovane donna sul treno Livorno – Pisa: «La sua leggerezza è stata quella di sedersi in uno scompartimento senza nessun altro passeggero». Che sventata.

Il clima è ancora questo?

Nel maggio 2009 sono stati diffusi i risultati di un’indagine dell’Associazione italiana per la ricerca in sessuologia, durata 3 anni coinvolgendo 3mila persone, intitolata Dalle molestie sessuali allo stupro. Il 55,8% degli uomini, il 33% delle donne, il 74% dei giovani ritiene che le donne, «libere e ambigue sessualmente», siano a volte responsabili della violenza subìta e che, «se fossero meno provocanti, le violenze sessuali si ridurrebbero in modo drastico». Per fortuna è un uomo, Pier Luigi Battista sul “Corriere della sera” di alcuni anni fa, a ragionare così:
«Noi maschi facciamo finta di non capire quando il no è no. E se insistiamo, non è perché siamo presi da impulsi sessuali veementi e incontrollabili, ma semplicemente perché mal sopportiamo l’umiliazione del rifiuto. «Ma come, osa resistere al mio fascino?», «Dice no ma in realtà è un sì» e via consolandoci con questa rappresentazione grottesca e auto-millantatrice, se così si può dire, di noi stessi. La zona grigia può restare grigia, ma il punto del consenso è quello fondamentale. Spingersi oltre, forzando la resistenza altrui, non è un eccitante gioco di ruolo, è una carognata».
Anche lui femminista rancoroso?

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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.

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