Le figlie di Danao

Le Supplici è la meno nota tra le tragedie di Eschilo, forse perché di difficile lettura e interpretazione.
Rappresentata nel 463 a. C., un anno cruciale per la democrazia ateniese, è la prima e anche l’unica tragedia superstite di una trilogia di cui facevano parte i Figli di Egitto e le Danaidi. Con questa trilogia Eschilo riportò una delle sue numerose vittorie nell’agone tragico: un vero e proprio concorso fra i poeti scelti dalla città per rappresentare le loro opere in occasione delle Grandi Dionisie, la festa annuale di tre giorni che Atene dedicava al dio della musica, del teatro e del vino.

Le Supplici rappresenta la vicenda delle cinquanta figlie di Danao che chiedono asilo alla città di Argo dove, sotto la guida del padre, sono approdate fuggendo dalla terra natìa, sulle foci del Nilo, per sottrarsi al matrimonio con i cugini, figli di Egitto, fratello del padre.
Complesse sono le tematiche che s’intrecciano nella tragedia: tra le più moderne la naturale ripugnanza, di cui le giovani donne sono consapevoli, verso lo straniero che porta i segni della sua diversità nel colore della pelle («la guancia brunita dal sole»), negli abiti («da dove mai viene questa gente non greca, che si avvolge con pepli barbari e turbanti?»), nella lingua («tutti sono pronti a biasimare chi parla una lingua straniera»). Ma questa umana ripugnanza non può far dimenticare il diritto dei supplici all’accoglienza, garantito dagli dei dell’Olimpo: l’importanza di questo tema è dichiarata dal titolo stesso dell’opera che si apre con la preghiera che le giovani donne rivolgono a «Zeus dei supplici».
Tuttavia Pelasgo, il re di Argo, esita ad accordare immediatamente l’asilo, sentendo su di sé la pesante responsabilità di esporre il suo popolo a una guerra certa: le ragazze sono inseguite dalle navi armate dei loro cugini, il cui messaggero non tarderà a invadere la scena minacciando tutti coloro che osino ostacolarne la consegna a chi ne pretende la proprietà. Per risolvere il problema il re convoca l’assemblea dei cittadini: sarà il popolo tutto a condividere la difficile decisione.
La vicenda si colloca in un tempo mitico ed è evidente l’anacronismo, giustificato tuttavia dal fervere del dibattito, nell’Atene di quegli anni, sui meccanismi democratici: indimenticabile e commovente l’immagine delle migliaia di mani alzate, che fanno vibrare l’aria, per accordare accoglienza e protezione alle cinquanta fanciulle barbare minacciate. Qualunque siano le conseguenze, esse saranno ospitate a spese della città e potranno scegliere di vivere nella casa del re o in una delle abitazioni di proprietà pubblica destinate a ospitare chi ne ha bisogno.

Fernand Sabatté, Le figlie di Danao, 1900 circa

Ma a noi qui interessa capire la disperazione di quelle ragazze, che sentono il matrimonio come violenza, come sopraffazione insopportabile, equivalente alla riduzione in schiavitù, e affermano ripetutamente la loro volontà di evitarlo a qualunque costo, pronte a impiccarsi ai rami degli alberi, usando le loro cinture, se Argo nega l’asilo richiesto.
L’interpretazione più tranquillizzante vuole che il matrimonio con i figli di Egitto sia rifiutato dalle figlie di Danao, loro cugine, in quanto incestuoso. A questo sembra alludere metaforicamente Danao, quando paragona le figlie a «uno stormo di colombe atterrite dagli sparvieri, i loro alati fratelli», aggiungendo: «come può restare puro l’uccello che mangia l’uccello?», ivi, 223–226. Ma tale interpretazione non regge, perché il matrimonio tra cugini è ammesso dalla legge ateniese dell’epoca, così come dal diritto della maggior parte dei Paesi ancor oggi. E infatti le parole che percorrono in modo ossessivo l’intero testo sembrano alludere a un conflitto di fondo tra maschile e femminile.

Nelle suppliche che le figlie di Danao rivolgono a uomini e dei, il rifiuto del matrimonio appare assoluto: il maschio è violento e superbo e acconsentire al matrimonio equivale ad assoggettarsi al suo volere, alla sua arroganza, alla sua lussuria, al suo potere assoluto — la parola è la stessa che indica il potere illimitato dei tiranni. Solo se “non sposate” esse resteranno “non domate”, in greco agamon admeton: per rendere meglio l’idea i due termini assonanti sono accostati senza congiunzioni.
Del resto, la metafora del “giogo”, per il matrimonio, è antichissima e persiste nella lingua comune nell’aggettivo coniugale — solo che, in esso, si presuppone che sottoposti al giogo siano ambedue i “coniugi”. Per tentare di comprendere meglio le ragioni delle figlie di Danao, bisogna ricordare che esse sono le discendenti di Io, la fanciulla che, per aver suscitato la passione di Zeus, incorse nelle ire di Hera, sua moglie, e finì trasformata in giumenta e, per di più, tormentata da un tafano che la inseguiva costringendola a fuggire di terra in terra. Fino a quando Zeus, mosso a pietà, non la sfiora con una carezza, un tocco amorevole (!?) che le dà la pace e insieme un figlio, di nome Epafo, progenitore di Danao e di Egitto.
Il fatto che il padre di Io, Inaco, fosse un antico re di Argo, consente alle Danaidi di presentare il loro arrivo come un ritorno alla terra d’origine e dà forza alla richiesta d’asilo. Non solo: infatti è proprio in nome della discendenza da quella nobile madre che esse, invocando la protezione di Artemide, figlia di Zeus, reclamano il diritto di sfuggire al letto dei maschi. Nelle parole delle ragazze è infatti ribadita la contrapposizione tra il tocco gentile di Zeus e la violenza dei figli di Egitto e l’assimilazione dell’amplesso coniugale non gradito alla sposa a un vero e proprio stupro.
Ma c’è di più.
Il ruolo di Danao nella vicenda comincia a rivelarsi quando egli accosta il consenso al matrimonio dato dalla ragazza a quello dato dal padre: «Come può restare puro qualcuno che si unisce a una donna che non vuole, o quando la strappa a un padre che non vuole?», ivi, 227 – 228. Infatti, mentre nel racconto mitico sono evidenti le ragioni che spingono i figli di Egitto a pretendere un matrimonio che risolverebbe ogni conflitto dinastico, riunificando la stirpe — traccia di un’epoca in cui la trasmissione del potere avveniva per via matrilineare — sono meno chiare le ragioni dell’opposizione di Danao a quelle nozze. Perché in realtà è lui, come emerge fin dai primi versi della tragedia, nelle parole delle figlie, a essere il vero ispiratore della scelta di abbandonare la patria: «Lasciata la nostra divina terra, fuggiamo non perché condannate al bando dal voto della nostra città per un fatto di sangue, ma per sfuggire ai maschi della nostra stessa stirpe, perché aborriamo il matrimonio con i figli di Egitto e il loro empio progetto. Danao è nostro padre ed è lui che ci guida nella decisione e ci guida nella ribellione […] voi, divinità protettrici di Argo accogliete questo stuolo di donne supplici e respingete in mare la torma dei maschi, lo sciame prevaricatore dei figli di Egitto, prima che salgano sul nostro letto e violino la parentela che lega i nostri padri e noi che non vogliamo unirci a loro», ivi, 5–39, passim.

Più avanti, pur essendo ormai certe dell’accoglienza, le ragazze chiedono al padre di non lasciarle sole e affermano: «Una donna lasciata sola non è nulla. Non la abita la forza di Ares, il dio della guerra», ivi, 748–49.
Che cosa Danao si aspetti dalle figlie risulta chiaro dall’invito che rivolge loro, quando si tratta di decidere tra le sistemazioni che la città offre: «A voi raccomando di non disonorarmi: siete nel fiore dell’età e questo attrae gli uomini. Non è facile da custodire il vostro fiore così tenero. Bruti e uomini sono pronti a rovinarlo, questo è certo. Accade anche per le bestie che volano e per quelle sulla terra. Cipride annuncia i frutti stillanti e la giovinezza diventa languida, smaniando d’amore. Chiunque passi vicino alla bellezza aggraziata delle ragazze, vinto dal desiderio, scaglia uno sguardo che colpisce come un dardo e seduce. Stiamo attenti a non dover subire la stessa sorte per cui abbiamo affrontato tanta fatica, solcando con la nave un lungo tratto di mare. Cerchiamo di non procurare disonore a noi stessi e piacere ai nemici: basta che osserviate gli avvertimenti di vostro padre, dando alla castità più valore che alla vita», ivi, 996–1013.

John William Waterhouse, Le Danaidi, 1903

La vicenda in questa prima opera della trilogia sembra concludersi felicemente: forte del voto dell’assemblea degli argivi, Pelasgo respinge con decisione la tracotanza e le maniere violente dell’araldo inviato dai figli di Egitto a recuperare la preda sfuggita alle loro brame: «Presto, muovetevi, sulla nave… volete che vi strappi i capelli, che vi marchi come le bestie? sangue, sangue… volete che vi uccida? che vi tagli la testa? … tiratele per i capelli, nessuna pietà…», ivi, 836-840.
Tuttavia, nelle altre due tragedie — di cui conosciamo il contenuto, anche se non ne è conservato il testo — la situazione si capovolge: i figli di Egitto hanno la meglio e le figlie di Danao sono costrette alle nozze aborrite. Ma ognuna di loro riceve dal padre una spada e insieme l’ordine di uccidere i rispettivi mariti durante la prima notte. Obbediscono tutte, tranne una, Ipermestra — altrove chiamata Amimone, come nel dramma satiresco che segue alla trilogia — che, innamoratasi a prima vista del suo sposo Linceo, sfida la vendetta del padre e lo risparmia, generando con lui il figlio destinato a propagare la stirpe dei due fratelli e dello stesso Zeus. Un frammento della tragedia perduta mostra Afrodite che celebra la sua vittoria: «Il cielo santo anela a penetrare la terra: preso da desiderio struggente, si stende su di lei per unirsi in matrimonio; la pioggia, giù dal cielo amorosa, impregna il suolo e da ciò viene il nutrimento alla stirpe dei mortali, a greggi e mandrie e i doni di Demetra; e quel rito di matrimonio umido fa fiorire i boschi. Di tutte queste cose l’origine sono io».

Abbiamo già avuto modo di parlare delle regole che ad Atene disciplinano la sessualità di ragazzi e ragazze: per gli uni, come per le altre, l’età della pubertà segna il passaggio dal culto di Artemide, la dea vergine della natura selvatica, a quello di Afrodite che, proprio attraverso il gioco amoroso e il giogo dell’unione matrimoniale, assicura la riproduzione delle specie viventi.

Invano negli ultimi versi delle Supplici le figlie di Danao pregano: «Ci protegga la pura Artemide, abbia pietà di noi tutte, e che non ci raggiunga la dura necessità di ciò che Afrodite vuole si compia. Ci sia risparmiata questa prova odiosa», ivi, 1030–1033.

E ancora: «Zeus, che è sovrano, ci tenga lontane dalle nozze crudeli con i maschi odiati: lui che liberò Io dai tormenti, toccandola con la sua mano guaritrice, facendole benevola violenza. E il potere lo assegni alle donne», ivi, 1062–1069.

Rifiutarsi di rispettare le regole, voler preservare a tutti i costi la propria “purezza”, evitando di “mischiarsi “con l’altro, non è lecito, pena l’esclusione dal mondo civilizzato e, a volte, un destino di morte orrenda.
Lo racconta il mito di Ippolito, sfortunato e incolpevole figlio di Teseo, nella tragedia di Euripide che da lui prende nome.
E, a guardar bene, anche il mito di Dafne che, rifiutandosi di cedere alle voglie (all’amore?) di Apollo, viene trasformata dagli dei nell’arbusto che da lei prende il nome. Per pietà. O per punizione, visto che la riduzione a una forma di vita vegetale non sembra essere particolarmente apprezzata da chi riveste sembianze umane.

In copertina: Erzsébet Korb, Danaidae, 1925.

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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.

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