Un canto di libertà. Parte seconda

In prossimità della Giornata Internazionale dei diritti delle donne, la cittadinanza di San Casciano Val di Pesa nel 2023, ha voluto incontrare alcune componenti dell’Associazionemovimento Donna, Vita,Libertà” di Firenze per rivendicare e sostenere la lotta per quei diritti violentemente negati.

In una manifestazione di sorellanza, in cui tutte e tutti dandosi la mano, in una lunghissima fila, hanno attraversato le strade del centro, si sono alzate le “voci” di coloro che, identificandosi nelle persone che non potevano essere presenti, hanno portato la loro testimonianza. Testimoniare in luogo di chi non può farlo, implica che ci si metta al suo posto, che se ne assuma il nome, il sentimento, il pensiero. In tal modo gli/le assenti hanno preso “vita” attraverso i racconti dei cittadini e delle cittadine che li hanno impersonati e di cui è stato ascoltato l’accorato messaggio, il dolore, la rabbia, la ribellione. Attraverso questi racconti, queste “storie” abbiamo un quadro ”vivente” della situazione di assoluta mancanza di libertà, di violazione di ogni diritto come stato di fatto che governa la vita di quel Paese, l’Iran.

«Ho 16 anni e queste sono una piccola parte dei miei pensieri, delle riflessioni che avevo condiviso sulla mia pagina Instagram: il nostro Paese, l’Iran! Tutti noi abbiamo vissuto qualche problema in questo Paese. Chi più chi meno, ma tutti noi sappiamo qual è la vera situazione.
Abbiamo seri problemi economici e culturali. Noi donne abbiamo molte limitazioni come il velo o il divieto di guardare una partita di calcio allo stadio. Cose scontate negli altri Paesi, diritti basilari! Non voglio ripetere queste parole più di tanto, ci rattristiamo e basta!
Qual è il senso più bello che si può provare? La libertà è la libertà. Queste sono una piccola parte dei miei pensieri, delle riflessioni che avevo condiviso sulla mia pagina Instagram prima di essere ammazzata il 22 di settembre 2022 con molteplici colpi di manganello di fronte alla mia scuola mentre protestavo insieme alle mie amiche del liceo per la morte di Mahsa Amini, le atrocità commesse nei suoi confronti e nei confronti di tutte le donne del mio Paese! Sono Sarina Esmailzade. “Avevo” 16 anni.

Per Sarina Esmailzade

Sono Nilofar Aghaei, sono un’ostetrica. Quest’anno ho compiuto 31 anni, ma quest’anno c’è qualcosa di diverso. Pochi mesi prima del mio compleanno ho perso l’occhio sinistro durante le proteste contro il regime islamico! In occidente avete sentito nei vostri notiziari che i soldati di Ali Khamenei sparano agli occhi dei manifestanti? Io ero una di loro. Mi hanno sparato quando hanno visto la resistenza e l’amore per la vita nei miei occhi! Sapevano che sparandomi direttamente negli occhi l’avrei perso! Volevano esattamente questo, in modo che non potessi vedere la crudeltà e i crimini di questo dittatore. Ma la storia non è andata come volevano! Sono cinque mesi che mi amo più di prima… Penso a quanto sia strano e bello per me che in mezzo a tante emozioni diverse che vivo ogni giorno, non ci sia posto per il rimpianto.

Nilofar Aghaei

Sono Narges Mohammadi, 50 anni, attivista iraniana, sostenitrice della campagna contro la pena di morte e per la difesa dei diritti umani. A novembre 2021 sono stata arrestata brutalmente e isolata nel carcere di Evin. Sottoposta a tortura e altri maltrattamenti. A gennaio 2022 il secondo processo, senza poter accedere ad un avvocato: la condanna e la sentenza, aggiunta alla precedente, è per un totale di 10 anni e 8 mesi di reclusione, 154 frustate e altre sanzioni. Tutto per avere denunciato la violenza nelle carceri, soprattutto verso le donne, avere protestato contro la pena di morte e avere organizzato un sit-in pacifico con altre detenute nel carcere. Mi sono state negate le cure sanitarie necessarie per gli attacchi di cuore e un successivo intervento d’urgenza. Da allora sono rinchiusa nel carcere di Garchak per continuare a scontare la pena. Sempre in condizioni di totale crudeltà.

Per Narges Mohammadi

Sono Nahid Shir Pisheh, la madre di Pouya Bakhtiari. Io, insieme a mio figlio e mia figlia, siamo scesi in strada per protestare contro l’aumento dei prezzi del carburante il 16 novembre 2018. Era una giornata qualsiasi, ma diventò il giorno più doloroso della mia vita. Ho visto mio figlio di 27 anni morire proprio davanti ai miei occhi!
Prima di uscire di casa, Pouya ha girato un video in cui dice: “Anche io sono figlio di qualcuno, sono venuto qui e ho rischiato la vita. Madri, padri, dite ai vostri figli di uscire allo scoperto”.
Mio figlio era un uomo libero che ha resistito all’oppressione. Hanno tolto la vita a mio figlio solo perché gridava per la libertà. Ora anche io e mio marito siamo stati messi in prigione perché ci siamo opposti agli assassini di nostro figlio. Non ho il diritto di incontrare nessuno, ma da qui dico al mondo intero che noi, popolo iraniano, un giorno vinceremo ed espelleremo la dittatura dal nostro Paese!

E ti ho guardato negli occhi mentre mi versavi colpi in faccia, sul petto, nei genitali. Col tuo fucile nero pesante della milizia Basi scheggiato di sangue. Ho avvertito per un istante che non potevi essere tu a picchiarmi fino a farmi crollare, fino a farmi mangiare il catrame caldo della strada di Ekbatan, calpestata da giovani donne e giovani uomini come me, come te. Ti ho ritrovato di là dalle sbarre, al processo, senza nessuno chiamato a difendermi; non ho incrociato i tuoi occhi, non li ho potuti vedere. Ti mordevi le unghie cerchiate di terra rossa. Hai sentito, mi chiamo Moshen Shekari, ho 23 anni, mi dichiaro artista e ho la passione dei videogiochi. Anche per questo sarò il primo a indossare il nodo scorsoio del tuo boia. Ho avvertito che potevamo salvarci insieme se solo avessimo avuto il tempo di parlarci, oltre quello sguardo fugace e violento.
Se solo avessi potuto raccontarti dei comuni giochi di piazza, di aule assolate dove ci insegnavano la bellezza, delle nostre madri silenziose e forti, degli amori nascosti da veli, di libri letti sotto le coperte, di accordi melodiosi, dei film che ci hanno fatto sognare; e del mondo, sì, del mondo che potevamo scoprire insieme.
Sono stato giustiziato l’8 dicembre 2022.

Per Moshen Shekari

Mi chiamo Mehdi Karami, ho 20 anni. Sono figlio unico nato da genitori semplici, umili e poveri ma pieni d’amore. Mi hanno cresciuto con molti sacrifici e io sono diventato un campione. Ho riempito la loro piccola e umile dimora con le mie medaglie. Erano tanto orgogliosi.
Un giorno mentre protestavo a mani vuote venni arrestato e pochi giorni dopo arrivò la condanna: avevano deciso di togliermi il diritto alla vita. Chiamai mio padre, piangevo e avevo un unico pensiero per la testa: “Papà, mi hanno condannato a morte… ma ti prego non dirlo alla mamma”, dissi.
Sono passati due mesi da quel terribile giorno e a loro resta soltanto una foto incorniciata in mezzo a un muro pieno di medaglie…

Sono stanca. Le mie mani hanno lavorato per anni senza sosta come solo quelle di una donna possono fare: accudire, strofinare, cullare, accarezzare… Le mani di una donna sanno fare tutto con sapienza, ma una cosa non ho potuto fare: trattenerla. Qui tra le mura della casa Hadis Najafi era come un passerotto arruffato che era uscito dalla gabbia. Conosco come ci si sente: vengo dall’Azerbaijan, ho cresciuto quattro figli. Sempre a capo chino e coperto, senza capire cosa doveva coprire quel velo e nemmeno Hadis lo capiva. La mia terza figlia femmina aveva una vitalità incredibile. Non voleva coprirli i suoi capelli: se l’era fatti biondi e li portava a coda di cavallo. Scandivano il tempo dei suoi passi, sottolineavano i movimenti morbidi del suo corpo di donna. Si era diplomata in fashion design: figuriamoci se il velo poteva nasconderla! Sono stanca, ora che guardo la sua immagine appesa al muro mentre sorride felice. Accarezzo i capelli e la bocca sulla foto, come a proteggerla da chi non accettava il suo senso di giustizia per i diritti di tutti e tutte: la sfida a chi le negava di essere una donna libera. Si era unita alla protesta e aveva trascinato con energia la voglia di libertà e giustizia di molti. Liberi di essere, così come ognuno si sente. È uscita di casa raccogliendo i capelli sulla nuca, prima di lanciarsi nella manifestazione. Le hanno sparato al suo bel volto, al suo cuore e alla sua pancia.
La mia Hadis era capace di tenere testa, aveva 22 anni, un coraggio da leonessa e una bella coda di capelli biondi.

Per Hadis Najafi

Il mio nome è Fahimeh Karimi, sono giovane, iraniana, madre di tre figli, allenatrice di pallavolo e orgogliosamente consapevole dei nostri diritti calpestati.
Sì, c’ero. Ero in piazza, con centinaia di altre donne, manifestavo per la nostra libertà, per quella delle nostre figlie.
Sì, ho dato un calcio, una spinta a un uomo che mi stava minacciando, un militare, credo.
Sì, sapevo che era pericoloso, per questo i miei tre figli erano a casa al sicuro. Sì, mi avete presa, rinchiusa in un carcere orribile, mi avete condannata a morte. Potete uccidermi ma non farete tacere la mia voce, la nostra voce, la voce di donne e uomini giusti di tutto il mondo. E non è lontano il giorno in cui, quelle voci, canteranno libere.

Sedici anni. Che bello avere sedici anni! Cominci ad annusare l’aria frizzantina del diventare grande, più libera, più autonoma. Trovi amiche dappertutto: a scuola, in palestra, in piscina. Non soltanto azerbaijane come me. A questa età si è curiosi del mondo, di terre e acque tutte da scoprire. Ed io in quelle acque ci ho nuotato: a stile libero, a dorso, da sola, in squadra. Quasi sempre vincendo. Ero una dei migliori talenti di nuoto dell’Iran. Che bello avere sedici anni!
È autunno quando si presentano nel nostro istituto, in borghese. Si definiscono uomini della sicurezza, ma sono dei paramilitari agli ordini dei guardiani della rivoluzione islamica iraniana. Sono stati chiamati dai funzionari della nostra scuola che vogliono obbligarci a partecipare a una manifestazione filogovernativa. Ci siamo rifiutate. Allora ci ordinano di cantare una canzone per elogiare Khamenei. Rimaniamo in silenzio. Siamo tante. Arrabbiate. Pensiamo a Mahsa Amini. Portiamo il velo perché ci obbligano, ma, sotto, il sangue ribolle nelle nostre giovani vene.
Il primo colpo mi ha tolto il fiato, poi le percosse hanno liberato la mia ribellione. Pensano che picchiandoci ci possano ammorbidire. Ho preso tante botte, sento qualcosa dentro di me che si è rotto, come un sacco pieno di liquido che è esploso e sta sciogliendo i miei muscoli allenati, il mio viso sorridente, le mie spalle di atleta. Non avevo ancora sedici anni e mi piaceva nuotare.
Mi chiamavo Asra Panahi.

Per Asra Panahi

Mi chiamo Hamed Salahshoor, ho 23 anni.
Quel giorno di novembre ho posteggiato il mio taxi unendomi alle donne e agli uomini in piazza che protestavano. Non mi sono neanche accorto che eravate dietro di me. Mi avete preso con facilità perché eravate in tanti. Poi è cominciato l’incubo. Chiuso in una prigione senza poter comunicare con nessuno, gli unici che vedevo eravate voi che in ogni ora del giorno e della notte giocavate con il mio corpo come un sacco inerte. Niente vi ha fermato né le grida né il silenzio.
Pensavo ai miei genitori, al loro dolore, ai miei amici che probabilmente stavano chiedendo di me, al mio taxi abbandonato… poi ho capito che era giunta la fine quando sopra un lettino mi hanno legato. Un ultimo pensiero al mio Paese, alle persone che stanno lottando.
Non vi fermate, fate che la mia morte, insieme con quella di tanti altri, non sia inutile.
Credono che uccidendoci possano spegnere la luce che è in noi. Credono che rinchiudendoci in casa possano affievolire l’energia della vita che ci pulsa dentro. Abbiamo dieci anni e andiamo a scuola; ogni giorno felici di stare insieme, imparare, capire com’è fatto il mondo e capire come siamo fatte noi. Perché avvelenarci? Perché stordirci con il gas mentre leggiamo, scriviamo e, soprattutto, pensiamo?
Non capiscono che spengono il loro futuro?! Non capiscono che consegnano alla morte sociale un intero popolo dal glorioso passato?!
Noi bambine, noi donne siamo da sempre coloro che si lanciano verso il futuro costruendolo nel presente. Da sempre ci prendiamo cura del mondo rimettendo in equilibrio gli squilibri delle guerre. Da sempre siamo capaci di ascoltare il ritmo della natura per pulsare in sincrono con lei. E voi vorreste strappare dalle nostre anime tutto questo?!
Credono che uccidendoci possano rendere più forte l’essere umano. Attenti al deserto che lasciate dopo il vostro passaggio!
Siamo centinaia di studentesse intossicate dagli attacchi con il gas in 58 scuole femminili.

Lettura del messaggio di una studentessa iraniana

Sono una ragazza ventenne, una studente che vive in Iran. Volevo dirvi che la situazione che stiamo vivendo qui è mille volte peggio. Noi tra i nostri amici e compagni universitari quando ci chiamiamo, ci informiamo se siamo ancora vivi. Ragazzi, siete vivi? Tizio e Caio è vivo? I nostri appelli non si fanno più nelle aule universitarie, si fanno in questo modo, per sapere chi è vivo, chi è stato arrestato e chi non è più fra noi.
Ogni volta che usciamo di casa, non sappiamo se rientriamo vivi. Ogni giorno, a causa di uno slogan urlato o un semplice sguardo di sfida lanciato ad un agente di polizia antisommossa, rischiamo di venir picchiati, arrestati e uccisi senza nemmeno che le nostre salme vengano restituite alle famiglie. Tutto questo, per quanto suoni assurdo e spaventoso, potrebbe succedere in ogni istante, a chiunque di noi, gente comune e ordinaria. Io vi prego di continuare con i vostri supporti e sostegni. Le notizie delle vostre manifestazioni e proteste ci arrivano e rappresentano un grandissimo incoraggiamento per noi e ci rincuorano. Noi iraniane e iraniani siamo soli e soltanto noi possiamo salvare noi stessi e la nostra antica civiltà. Anche se noi siamo qui in Iran, e voi lontani, solo alleandoci e unendo le nostre forze, potremo vincere. Quando siamo preda dallo sconforto o dal timore, il vostro  supporto diventa ancor più essenziale e prezioso.
Noi persone ordinarie come voi abbiamo pianto a vedere le vostre lacrime scendere nella gigantesca manifestazione a Berlino, noi tutti abbiamo dolori comuni e stiamo combattendo insieme per raggiungere gli stessi obiettivi. Vi prego di non interrompere il vostro sostegno, non abbandonateci, vi prego di non abbandonarci.
Forse avete sentito dire da qualcuno che gli iraniani in diaspora sono indifferenti alla tragedia in atto in Iran, se la passano bene e sono lontani dalla mischia. Queste false notizie vengono divulgate da coloro che intendono disunirci per allontanarci gli uni dagli altri.
Ho da farvi un’altra richiesta che riguarda i vostri compagni ed amici stranieri e in generale tutta la cittadinanza nei Paesi nei quali vivete. Condividete con loro le nostre aggiornate notizie e mostrate i video e le immagini che ricevete ogni giorno dall’Iran, fate loro vedere le stragi che avvengono qua da noi tutti i giorni e limitatevi di condividerli solo tra di voi. I vostri amici e compagni sicuramente vi chiederanno cosa possono fare loro per noi e in che modo potranno dare il loro contributo. Ditegli di pretendere dai loro governi di interrompere le loro relazioni con la repubblica islamica, di isolarla e di boicottarla. Non c’è bisogno che facciano nient’altro, chiediamo solo che cessino i loro rapporti e supporti al sanguinario ed infanticida regime al potere da 43 anni in Iran.
Vi chiedo ancora una volta di non risparmiarci il vostro supporto. Colui nelle cui vene scorre una sola goccia del sangue iraniano, in questo preciso momento non può stare bene perché è afflitto da una sofferenza che ci accomuna tutti. Ora più che mai noi siamo vicini l’uno all’altro, benché distanti, noi vi sentiamo qui accanto a noi.
Ce la faremo solo se continueremo a rimanere solidali, uno a fianco all’altro e manterremo questa unità e alleanza tra di noi. Noialtri, qui, stiamo resistendo e combattendo e continueremo a divulgare le notizie nel mondo, noi non ci arrenderemo e staremo in piedi fino all’ultima goccia di sangue e in ogni circostanza. Vi chiediamo di rimanere in piedi accanto a noi, spalla a spalla per la libertà, per la libertà! Barye azadi!». In copertina: protesta delle donne contro la proposta di hijab obbligatorio, 8 marzo 1979.

***

Articolo di Paola Malacarne

Psicologa clinica e di comunità, ex docente e coordinatrice di scuola dell’infanzia, attualmente sono Presidente della commissione Pari Opportunità del Comune di San Casciano e membro del direttivo di Tf. Coniugando ruoli e interessi (tanti!) e qualche competenza (pittura, cinema, teatro, questioni e parità di genere) conduco e realizzo percorsi formativi, progetti, eventi… mentre cammino e penso alle Donne che fanno libere le strade da percorrere.

Lascia un commento