Una storia delle donne in 100 oggetti

Una storia delle donne in 100 oggetti, scritto da Annabelle Hirsch e pubblicato in Italia da Corbaccio nel mese di novembre 2023, è una piacevole sorpresa.

Annabelle Hirsch

Si tratta di una Wunderkammer, una camera delle meraviglie afferma l’autrice, come quelle che nelle dimore aristocratiche servivano a raccogliere oggetti straordinari, curiosi, rari, molte volte di origine lontana e per questo esotici e affascinanti, con cui stupire l’ospite di riguardo.
Questa Wunderkammer di carta è dedicata alla storia femminile ed è costituita da «oggetti ‒ scrive sempre Annabelle Hirsch nell’introduzione ‒ in grado di raccontare la vita quotidiana delle donne, dei loro piccoli e grandi momenti, oggetti legati a temi che le riguardavano ‒ corpo, sesso, amore, lavoro, arte, politica ‒ oggetti spesso testimoni delle imprese che le donne avevano compiuto, oppure che provassero i tentativi subìti di incasellarle all’interno dei miti; cose che narrassero di come le donne sapessero usare gli oggetti, di come, grazie a essi, sapessero rendersi libere, lottare, a volte rumorosamente, a volte in silenzio; cose che mostrassero come le donne abbiano sempre cercato, e a volte trovato, la strada per essere se stesse». Eccoli quindi questi cento oggetti sfilare in una narrazione gradevole, chiara e scorrevole dal 30.000 circa avanti Cristo fino al 2017, fino ai giorni nostri.
Sono molto diversi tra loro eppure un filo rosso esiste ed è la «sfera più intima, quella del sommerso e del non visto» che li accomuna.
La data del 30.000 avanti Cristo ha dell’incredibile come anche il titolo del capitolo di apertura del libro, Osso femorale guarito. Come può un osso rotto e poi risaldato introdurre la storia femminile? Può, basta imparare a rileggere la storia secondo prospettive nuove, con frasi mai pronunciate. A spiegare il valore dell’osso guarito nel processo di civilizzazione dell’essere umano fu per la prima volta Margaret Mead.

Margaret Mead, 1951

L’antropologa americana spiegò il suo pensiero nel corso di una conferenza universitaria: qualsiasi essere animale ferito e con un osso fratturato in era preistorica non avrebbe avuto possibilità di sopravvivenza. Non avrebbe potuto sfamarsi, né dissetarsi, immobile sarebbe stata vittima facile dei predatori. Trovare antichissime ossa umane risaldate ha significato, per gli studi antropologici, che la specie umana aveva compiuto un passo significativo e imprescindibile. «Il primo segno della nostra civilizzazione non era dunque riferibile ad armi o ad altre invenzioni, bensì all’attitudine umana di sapersi prendere cura degli altri» scrive Hirsch.

E se immaginassimo che questo essere capace di cura sia stata una donna, magari anche anziana? È l'”ipotesi della nonna” che da alcuni anni prova a interpretare con nuove idee la preistoria, concepita e divulgata a partire dal XIX secolo quando la divisione dei ruoli maschili e femminili stava divenendo norma generale, indiscussa e indiscutibile. Non più quindi una preistoria basata sulla figura del cacciatore vigoroso e della donna timorosa accanto alla prole, teoria che non ha alla base alcuna prova concreta ma solo interpretazioni ottocentesche nelle quali gli studiosi trasferirono in modo acritico «i canoni sul rapporto tra i generi e sul sistema valoriale» della propria epoca: quelle ipotesi sono divenute verità storiche perché avallavano ciò che comunemente si pensava, cioè che il mondo femminile fosse subordinato.
Ripartendo dall’osso femorale guarito, Hirsch prova a raccontarci una contro-storia, anzi una contro-preistoria: in quelle società ogni essere umano, femmina o maschio, giovane o anziano, era fondamentale; nessuno poteva ritenere un genere inferiore perché si sarebbe privato l’intero gruppo sociale di esperienze, aiuti, contributi importanti, se non fondamentali. In comunità non basate sul predominio di un genere, ma piuttosto egualitarie e con meno ruoli costrittivi, ogni singola persona era utile e poteva contribuire al bene comune, comprese quelle anziane ‒ le nonne appunto, non più agili ed efficaci come da giovani, ma con esperienza ‒ che con pazienza crescevano bambine e bambini e accudivano le persone ferite, aspettando che si saldassero le ossa rotte.
L’incipit del libro Una storia delle donne in 100 oggetti è stimolante e lascia presagire altrettanto stimolanti contro-storie. Ogni capitolo del libro è breve e dedicato a un oggetto, sia esso prezioso e unico come l’arazzo di Bayeux che la leggenda vuole sia opera di Matilda, consorte del duca normanno Guglielmo il Conquistatore sia esso comune come un aspirapolvere, apparso sul mercato negli anni Cinquanta del secolo scorso e divenuto presto una trappola per le donne.

Pubblicità per aspirapolvere, anni Cinquanta del XX secolo

Per questo oggetto “innovativo” il messaggio iniziale era stato «l’aspirapolvere e l’emancipazione vanno a braccetto», lasciando intendere che grazie a quest’attrezzo nuovo le grandi fatiche domestiche si sarebbero trasformate in piacevole diversivo; in realtà si trattava di un modo “moderno” e “accattivante” di rinchiudere nuovamente le donne in casa dopo che nel corso del secondo conflitto mondiale avevano sostituito gli uomini in ogni campo lavorativo e professionale. Incastrate nel mito di un progresso che le avrebbe aiutate ed emancipate, l’organizzazione sociale post-bellica le stava bloccando all’interno della casa, nel tradizionale ruolo di moglie, madre e casalinga, con un nuovo look più ammaliante, sicuramente ingannevole.
Nei miti costruiti dal genere maschili le donne sono rimaste incastrate a lungo; dalle pagine di storia sono rimaste invece fuori e, quando ammesse, vi sono entrate come fossero usurpatrici di un potere e di un ruolo agguantato grazie a traffici loschi, attività subdole, accordi spregiudicati. Ecco quindi i guanti profumati che introducono Caterina de’ Medici, a lungo ricordata come una pericolosa monarca avvelenatrice, o i dipinti su vetro veneziano del XVI secolo dedicati a Roxelana, l’amata e capace moglie del sultano Solimano il Magnifico, ricordata nei testi come una strega crudele. La cultura storica maschile le ha demonizzate dimenticando i loro contributi importanti: di Roxelana ha tramandato intrighi e delitti ignorando che diede vita al “sultanato delle dame”, cioè a oltre un secolo di supremazia femminile sugli affari dell’impero ottomano; senza i guanti profumati di Caterina de’ Medici la cittadina provenzale di Grasse non sarebbe diventata un centro fondamentale della profumeria mondiale, rimanendo un maleodorante paese dedito alla concia delle pelli.

Guanti in pelle da caccia, XVI secolo

Attraverso la moda e l’abbigliamento Annabelle Hirsch traccia un percorso di limitazioni e di conquiste femminili. Alcune sono sorprendenti come nel caso delle tasche, a lungo presenti nell’abbigliamento maschile e obbligatoriamente assenti da quello femminile, divenute alla metà del XIX secolo, soprattutto nel mondo anglosassone, emblema della libertà di azione e di movimento, simbolo politico nella lotta per la parità tra i sessi. Il rossetto rosso Red Door di Elizabeth Arden è stato invece un segnale, quasi un urlo di battaglia, durante la manifestazione femminile per il suffragio universale del 6 maggio 1912 lungo le strade di Manhattan; il rossetto rosso è diventato in seguito, negli anni Quaranta, il simbolo di un nuovo assoggettamento ai canoni di bellezza dettati dall’industria cosmetica. Mettere il rossetto smise di essere un gesto di protesta divenendo un obbligo estetico, un ritorno all’ordine e all’approvazione maschili.

Manifestazione per il suffragio universale, New York, 1912

La piacevolezza del libro di Annabelle Hirsch consiste nel fatto che si può leggere secondo l’ordine dell’indice, oppure si può saltabeccare in autonomia, seguendo le proprie curiosità e il proprio filo rosso. In ogni caso si troverà che la narrazione storica tradizionale può essere sempre ribaltata, aperta e ricomposta secondo prospettive non scontate. Come ricorda l’autrice questa è la sua storia delle donne e i cento oggetti faticosamente selezionati avrebbero potuto essere molti altri, «perché la storia delle donne e delle loro cose è incredibilmente ricca, molto più ricca di quanto non si creda». Conclude dichiarando di non avere la presunzione di aver fatto un lavoro completo e definitivo, anzi invita lettori e lettrici a continuare «a rovistare, prelevare altri oggetti dai ripiani della storia», attraverso cui «ritrovare le connessioni sensoriali con il mondo ancora poco conosciuto delle donne del passato».
In questo libro ogni persona troverà l’oggetto più appassionante. Io ne ho individuati molti, due dei quali vorrei condividere con chi legge. Il primo è il piccolo, grazioso e pur perfido gruppo di porcellana intitolato La buona madre, manifattura tedesca del XVIII secolo. Raffigura una donna con intorno «avvinghiati come piante rampicanti al seno, alla mano e al braccio i tre figli che dormono e suonano», espressione di serena pazienza e grande abnegazione materna. Pur nella delicatezza delle forme, il manufatto si offre come simbolo di un nuovo mito inedito, quello dell’amore materno e della maternità come ruolo e condizione naturali di una donna. Un altro mito pronto a rinchiuderla in una vita interamente dedicata alla famiglia e alla prole. Il secondo oggetto si chiama la machine o macchina del parto, ideata da madame du Coudray nel Settecento.

Macchina del parto, XVIII secolo, Rouen, Musée Flaubert et d’Histoire de la Médecine

Rappresenta un ventre femminile con l’aggiunta di un fantoccio a grandezza naturale di un neonato legato al resto da un cordone ombelicale. Con questo armamentario madame du Coudray tenne, a partire da metà del secolo, lezioni pratiche e teoriche alle levatrici, cercando di far comprendere loro come fosse fatto un corpo femminile, come si svolgesse un parto, addestrandole a intervenire in modo corretto, aiutando sia il/la bebè che la madre nei momenti prima, durante e dopo il parto. Troppe donne morivano durante il puerperio, troppe le vittime anche tra i neonati e le neonate: arginare quelle morie fu un impegno che madame du Caudray svolse con passione e perizia per venticinque anni. Ma della salute femminile poco importava al mondo e già alla fine del secolo l’intento di trasformare l’ostetricia in una pratica medica sicura, organizzata dalle donne per le donne, e le levatrici in professioniste qualificate si dissolse come neve al sole. Due oggetti, nello stesso secolo, che provano le contraddizioni del mondo e della storia nei confronti delle donne.

In copertina: Arazzo di Bayeux, tessuto ricamato, XI secolo, Centro Guillaume-le-Conquérant, Bayeux.

Annabelle Hirsch,
Una storia delle donne in 100 oggetti
Corbaccio, Milano, 2023
pp. 413

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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.


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